Ci sono le ONG, vere e proprie multinazionali, finanziate da Soros, dagli Stati, dai governi regionali, dalle chiese protestanti e, purtroppo, talvolta anche dalla Chiesa Cattolica. Hanno navi, aerei, grandi uffici legali con cui fare guerra alle leggi, alle norme e ai tribunali, potenti uffici marketing, politici amici, stampa mainstream incondizionatamente favorevole. Fanno servizio di taxi per gli invasori, favorendo così l’immigrazione clandestina e al contempo attaccando con arroganza e alterigia (“noi siamo i buoni”) chi cerca di disciplinarne l’attività o chi dubita che quello che fanno sia un bene per l’Italia e l’Europa. Poi Onlus “di terra” che, sempre finanziate dallo Stato o da altre istituzioni, Chiesa inclusa, accolgono i clandestini, li ospitano, li vestono, danno loro la “paghetta”, li difendono quando delinquono, spacciano o violentano. Pochi sanno che Onlus sta per “organizzazione non lucrativa di utilità sociale”. Come fatti recenti e meno recenti dimostrano inequivocabilmente, alcune di queste Onlus invece lucrano, ah quanto lucrano.
Oggi vogliamo portarvi lontano, lontanissimo da questi ambienti. Vogliamo farvi respirare area pulita. Ci sono persone, gruppi, associazioni che veramente aiutano i popoli oppressi nel silenzio, spesso minacciati di genocidio, privi di tutto e che tuttavia resistono, reagiscono, si difendono con quello che hanno. Quasi sempre nessuno accende i riflettori su di loro, perché i loro oppressori sono amici dell’Occidente o meglio degli USA, visto che l’Occidente è un concetto ambiguo e falsificante.
Oggi vogliamo parlarvi di un’associazione giovane e fatta di giovani, di veri volontari (nessuno è pagato): “Una Voce nel Silenzio”, un’associazione che aiuta chi più ha bisogno, soprattutto famiglie, bambini, altri giovani, scuole, enti religiosi, in alcune aree calde del mondo. Questi volontari in queste aree ci vanno veramente, spesso rischiando, mappano i bisogni, progettano ed effettuano gli interventi. Insomma, “si sporcano le mani”. La grande stampa, la televisione li ignorano, perché questi giovani sono “non conformi”, hanno valori che non piacciono alla “gente che piace”. Hanno una rete solidale di amici e sostenitori e operano grazie a questi. Nessuna istituzione li finanzia.
Per capire meglio su questa associazione e le sue attività, intervistiamo Francesco Baj, responsabile operativo di “Una Voce nel Silenzio”.
Come nasce, perché nasce e da dove nasce “Una Voce nel Silenzio”?
L’associazione nasce circa dieci anni fa in Università Statale a Milano da parte di un gruppo di studenti che volevano portare al centro del dibattito politico alcuni temi di geopolitica, come, ad esempio, la questione palestinese, il conflitto in Siria, la persecuzione dei serbi in Kosovo. Un punto di riferimento era anche quello religioso, perché i fondatori erano tutti convintamente cristiani. Organizzavamo conferenze in uno spazio difficile come quello dell’Università Statale, dove l’egemonia culturale della sinistra è pesante e violenta. Cercavamo di portare un punto di vista diverso da quello del mainstream, che su certi temi vuole il silenzio.
A un certo punto è però scattato, dentro di noi, un qualcosa, una sorta di chiamata. E quindi abbiamo deciso, oltre a continuare a organizzare incontri e conferenze, di fare qualcosa di più: abbiamo sentito il dovere di aiutare più concretamente queste comunità di cui parlavamo. Volevamo andare a vedere con i nostri occhi quello che realmente succedeva su questi territori. Sono quindi iniziate le nostre missioni: l’obiettivo, tendere la mano a queste comunità oppresse. Intanto, precisiamo che la nostra attività si sonda su tre pilastri: l’identità, il comunitarismo e il solidarismo.
Puoi dirci qualcosa di più?
Sul comunitarismo sappiamo quanto sia importante essere “fratelli in una stessa trincea”. Ad esempio, è bello ritrovare in altre comunità gli stessi valori e le stesse battaglie che noi combattiamo in Italia, ad esempio contro il gender, contro la mercificazione della vita. Il solidarismo è per noi un valore assoluto nella vita delle persone, quindi ad esempio, chi ha deve dare a chi non ha. È commovente vedere, nelle comunità a cui siamo vicini, che le persone, pur non avendo niente, si aiutano tra di loro. E un esempio, questo, che spesso riportiamo e citiamo in Italia: territori di guerra dove le persone si dividono quel pochissimo che hanno. Poi, naturalmente, l’identità. Lo vediamo concretamente in popoli oppressi che lottano non solo per la sopravvivenza, ma soprattutto per l’identità, che gridano al mondo “noi esistiamo e non ci cancellerete dalla faccia della terra”. Identità con profonde radici, come anche noi ne abbiamo: identità religiose o di sangue.
Parliamo delle vostre missioni
Quando, circa dieci anni fa, abbiamo deciso di operare sul campo, abbiamo preso contatto con associazioni che già si muovevano nell’ambito difficile del vero solidarismo internazionale. La primissima missione è stata in Siria nel 2014, in un paese completamente devastato da una guerra fomentata dall’esterno: oltre al tentativo di rovesciare il legittimo presidente Assad, l’obiettivo era quello di distruggere completamente le comunità cristiane, protette invece da Assad. Con i nostri occhi abbiamo visto lo scempio che i terroristi islamici di Al-Nusra, armati dall’Occidente, hanno compiuto nella città cristiana di Maaloula, una città dove si parla ancora l’aramaico di Cristo. Abbiamo visto il cinismo e la spietatezza con cui si voleva distruggere il cristianesimo in Siria.
I terroristi si sono macchiati di crimini orrendi, sulle persone e sulle rappresentazioni della cristianità, come chiese e monasteri. Ricorderemo sempre la statua della Madonna di Maaloula abbattuta dagli integralisti, così come ricorderemo sempre una frase di un combattente delle milizie cristiane che difendevano la città: “potranno distruggere le pietre ma non distruggeranno mai l’uomo cristiano”.
Quando siamo tornati in Italia e abbiamo raccontato quello che avevamo visto, siamo stati in grado di iniziare una attività solidale grazie alla quale, ad esempio, abbiamo regalato i banchi per la chiesa di Homs completamente distrutta dai terroristi di Al-Nusra e dai ribelli anti Assad. Abbiamo anche ospitato qui in Italia, nell’ottobre 2019, Padre Michael, sacerdote e custode della chiesa di San Giorgio a Homs, terza città siriana per importanza dopo Damasco e Aleppo. In diverse conferenze ha raccontato quello che in televisione e su tutti i media viene censurato: ovverossia che in Siria c’è una strategia precisa che vuole la distruzione dei cristiani per mano del Daesh e dei miliziani dell’Isis, poi sconfitti dall’impegno congiunto del governo di Bashar Assad e dell’intervento della Russia.
Con gli stessi intenti siamo andati in Palestina, un territorio che, come si vede anche in questi giorni, è martoriato e oppresso e questo martirio viene passato sotto silenzio. Abbiamo incontrato a Betlemme una comunità, quella arabo-cristiana, è totalmente abbandonata a se stessa. Ci accompagnava un frate palestinese, che è stato anche lui, successivamente, nostro ospite in Italia. Abbiamo ricostruito un campo da calcio per i bambini, soprattutto orfani, dotandolo di un impianto di illuminazione che consente loro di giocare anche la sera. Abbiamo visto una comunità che cerca di sopravvivere in un contesto difficile e cerchiamo, ancora oggi, di aiutarla.
Siamo arrivati poi in Kosovo, anzi, KosMet, Kosovo-Metochia, una terra martoriata da una guerra sciagurata. Ci siamo arrivati, per così dire, “con le orecchie basse”, perché l’Italia partecipò all’aggressione contro la Serbia con i suoi velivoli da bombardamento e offrì alla Nato la base di Aviano dalla quale partivano gli aerei che andavano a colpire i civili serbi. C’eravamo informati ma quello che trovammo fu terribile: una comunità, quella serbo-ortodossa, completamente abbandonata a se stessa dalle istituzioni internazionali e in balia della persecuzione degli albanesi…
Kosovo, terra storicamente serba, culla della cultura e della cristianità serba, ora occupata dagli albanesi che voglio cacciare le comunità serbe, spesso isolate…
… tutte le volte che siamo stati in Kosovo, la nostra prima tappa è stata Kosovo Polje, la Piana dei Merli, dove nel 1389 i serbi ortodossi e anche albanesi cattolici si eressero a muro contro gli invasori ottomani, facendosi massacrare. Per noi è un luogo carico di simboli, onorato come sacro dalla comunità serba.
Una terra serba e cristiana, sottoposta a un piano di albanesizzazione e di islamizzazione, in uno stato, il Kosovo albanese, creato dall’Occidente in funzione antiserba, dove le comunità serbe subiscono continue vessazioni, saccheggi, spoliazioni, distruzioni di chiese, monasteri e persino cimiteri…
Una vera e propria persecuzione. Possiamo ricordare i massacri del 2004 quando venne scatenata, in tutto il Kosovo, una sanguinosa caccia al serbo, ai suoi edifici storici, con attacchi alle sue memorie e monumenti, alcuni dei quali patrimonio dell’Unesco. Mi viene in mente, ad esempio, il monastero di Visoki Dečani, di una incredibile bellezza, più volte attaccato a colpi di granate. Non dimentichiamo che in Kosovo è in corso una campagna di islamizzazione, finanziata dall’Arabia Saudita, con costruzione di moschee ovunque. Interessante notare come sui minareti delle moschee sventolino sempre due bandiere: quella albanese e quella statunitense. In paesini di poche migliaia di persone hanno costruito anche sette/otto moschee, spesso molte delle quali inutilizzate. Vogliono ostentare il loro potere sulla minoranza serba. Il messaggio è chiaro: “dovete andarvene”. L’oppressione è anche economica: vogliono ridurre in povertà i serbi per costringerli a vendere le loro proprietà. Ma i serbi non cedono, difendono la loro identità, creano reti solidali, resistono.
Cosa state facendo, e cosa avete fatto, in Kosovo?
Abbiamo fatto diversi interventi, posso dire di successo, a favore delle comunità serbe: abbiamo ricostruito una scuola nell’enclave di Orahovac dotandola di riscaldamento e del necessario materiale didattico. Abbiamo aiutato anche diverse famiglie che avevano bisogno, ad esempio, di una lavatrice o semplicemente di beni di prima necessità. Ma siamo orgogliosi soprattutto per la costruzione di un centro giovanile a favore dei ragazzi delle diverse comunità serbe, dove, tra l’altro si organizzano gli aiuti e i progetti di solidarietà nei confronti delle famiglie e delle comunità più bisognose. E’ situato in una delle enclave più importanti, Velika Hoča al centro del Kosovo. Siamo vicini anche ai cittadini di Mitrovica, una città divisa in due come Belfast: anche in questa località la pressione degli albanesi per cacciare i serbi è sempre più pesante e violenta.
Altre aree di intervento?
Durante la pandemia siamo stati nel Nagorno Karabakh, un territorio armeno, e quindi cristiano da tempo immemore (l’Armenia fu il primo stato a dichiararsi cristiano), che gli azeri musulmani vogliono occupare e che per questo hanno aggredito militarmente. È un territorio importante per le sue risorse naturali ed è per questo, oltre che per odio anticristiano, che l’Azerbaigian ha scatenato questa guerra. Anche in Nagorno Karabakh, come in Kosovo, vi sono antichissimi monasteri che sono sotto la minaccia di distruzione da parte degli azeri.
A marzo e aprile del 2021 siamo stati in questa regione. Per muoverci dovevamo avere il permesso sia dei militari russi, che sono lì come garanti di una precedente tregua, e anche a protezione delle chiese e dei monasteri, sia della Chiesa armena. Siamo stati a pochissimi chilometri dal fronte. Abbiamo stabilito rapporti umani bellissimi con gli armeni e anche con la chiesa armena: siamo riusciti a parlare con il Katholikos, l’equivalente del nostro papa. Assiema a loro abbiamo stilato una lista di progetti di solidarietà, rivolti soprattutto ai giovani, anche per evitare, nel Nagorno Karabakh come in altre aree in cui operiamo, il fenomeno dell’emigrazione, dell’abbandono della propria terra.
In particolare, stiamo gettando le basi, anche in questa terra armena, per un centro giovanile che funga anche da scuola professionale: gli armeni, tra l’altro, sono abilissimi artigiani. Stiamo pensando anche a scambi economici e di esperienze con l’Italia anche per poter ricostruire ciò che è stato distrutto dall’aggressione azera. Collaboriamo a distanza con l’aiuto anche di esponenti della Chiesa Armena a Milano. Tra settembre e ottobre abbiamo ospitato il vescovo Vrtanes Abrahamyan, una persona di altissima caratura morale, ed abbiamo organizzato una serie di conferenze in alcune parrocchie lombarde. Abrahamyan è stato ospite anche di Regione Lombardia e ascoltato da esponenti politici sensibili al tema della libertà del popolo armeno.
Recentemente la situazione si è aggravata, con il blocco da parte di presunti ecologisti, in realtà agenti del governo azero, dell’unica strada che collega il Nagorno Karabakh con il resto dell’Armenia: vogliono strangolare questo popolo cristiano.
Certo, questo ci crea delle difficoltà logistiche, ma noi siamo determinati ad andare avanti.
Parliamo di quello che state facendo per il Donbass
È l’ultima delle nostre aree di intervento. In Occidente c’è una narrativa unica. Noi di questo conflitto ne parliamo da quando è scoppiato nel 2014, anche se forse le sue origini sono più lontane…
Colpo di stato di Maidan, poi inizio della persecuzioni della popolazione russa, bombardamenti da parte dell’aviazione e dell’artiglieria ucraina, 14.000 morti solo agli inizi dell’aggressione in Donbass, ma non solo, ricordiamo anche le centinaia i morti di Odessa, molti dei quali bruciati vivi.
Sì, sono tutti scomparsi dai radar dell’informazione occidentalista. È un tema scottante, ma il nostro messaggio è questo: se l’Italia ha deciso di inviare armi all’Ucraina, ci sono italiani che semplicemente vogliono donare una speranza alle popolazioni russofone delle Repubbliche del Donbass con la costruzione di un centro per l’infanzia, regalando giocattoli ai bambini, anche solo con un abbraccio. Collaborando con un’altra associazione, “Vento dell’Est”, siamo stati a Severodonetsk, siamo stati a Lisičansk e in altre località e abbiamo portato aiuti che abbiamo anche acquistato in loco, come beni di prima necessità, cibo, medicinali. Sarà un percorso lungo quello degli aiuti alle popolazioni del Donbass, perché questa è una guerra che “deve” andare avanti, perché ogni volta che si apre uno spiraglio di pace, viene subito soffocato.
Che clima avete trovato tra le popolazioni russofone del Donbass?
Le persone che abbiamo incontrato si domandavano perché l’Italia si sia resa complice di questo scempio nei loro confronti. Quando abbiamo cercato di portare un messaggio di pace c’è stata anche molta commozione da parte di queste persone perché hanno capito che non tutti gli italiani sono contro di loro, anzi la maggioranza degli italiani è contro l’invio di armi al regime di Zelensky, perché la pace non si costruisce certo con le armi ma con il dialogo e l’azione diplomatica.
Avete trovato, tra queste popolazioni, la volontà di resistere?
Sì, questo va detto, sono persone che, in tutte le comunità dove andiamo, esprimono questo spirito di gridare al mondo che loro esistono e non hanno nessuna voglia di sparire dalla faccia della terra: vogliono stare lì, perché quella è casa loro. Voglio ribadire che le parole più importanti, in questo momento dovrebbero essere pace e diplomazia, parole che invece sono scomparse dal dibattito. Abbiamo fatto il 4 dicembre scorso una bellissima manifestazione a Milano, organizzata con il comitato “Fermare la Guerra” e “Vento dell’Est”, dove abbiamo portato centinaia di persone, anche con idee diametralmente opposte alle nostre. Abbiamo gridato per la pace e per la pace dobbiamo lottare.
Questo è molto importante per noi. Nelle nostre conferenze, nei nostri discorsi non ci saranno mai parole belligeranti, perché riteniamo che la diplomazia debba tornare centrale negli sforzi per fermare questo conflitto, perché questa guerra poi la stanno pagando e la pagheranno anche gli europei, a livello finanziario, ma non solo. È sotto gli occhi di tutti: questa è una guerra criminale: sappiamo benissimo gli interessi di chi sono. Da parte nostra, abbiamo fatto delle promesse e abbiamo stretto delle mani a quella gente…
Ecco, quali sono i vostri progetti futuri per il Donbass?
La creazione di qualche spazio per i giovani e soprattutto per i bambini, ci sono tantissimi orfani. Torneremo a breve nel Donbass per capire quale potrà essere un progetto materialmente realizzabile, anche a livello finanziario. Sarà comunque qualcosa per il futuro del Donbass, quindi i giovani e i bambini.
Come possiamo concludere questa intervista?
Dicendo che siamo una piccola associazione nel mondo del solidarismo, ma vorrei fare un invito a tutti coloro che leggono questo articolo, a tutti colore che si riconoscono nei nostri valori: l’identità, la comunità, il solidarismo ma anche la tradizione. Siamo molto legati alle nostre radici di sangue e cristiane. Siamo un paese strano: durante la pandemia eravamo tutti virologi. Scoppiata la guerra, sembra che tutti si siano messi l’elmetto dei marines o si siano tutti trasformati in esperti di geopolitica. L’invito che voglio fare, che tutti noi facciamo ai nostri connazionali è semplice: informarsi, leggere, non sputare sentenze per partito preso, non smettere mai di sentire un’opinione diversa, rimboccarsi le maniche, non “stare sul divano” e cercare, anche nel piccolo, di donarsi agli altri.
Sul sito di Una Voce nel Silenzio: https://www.unavocenelsilenzio.it/ o anche direttamente alla pagina: https://www.unavocenelsilenzio.it/donations/dona-la-fede potrete trovare le modalità con cui aiutare gli amici di questa associazione. Lo meritano loro e soprattutto le popolazioni oppresse da loro aiutate.