Io da vecchio sarò piccolo, con la barba e i capelli bianchi.
Avrò le mani rovinate, sarò un po’ zoppo e senza denti, forse con il naso storto.
Mi accompagneranno quando devo attraversare.
Mangerò zuppe con carne tenera. Avrò vestiti e scarpe nere.
Qualche volta andrò al bar ad ubriacarmi e ad un certo punto morirò per infarto o incidente”
(Fabio, 14 anni, in R. Pittarello [a cura di], Il tempo segreto. Dal diario di ragazzi di quattordici anni, Torino 1991, p. 75).
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Il male oscuro di Giuseppe Berto, pubblicato nel 1964, costituisce un lavoro letterario rivoluzionario in due sensi. Al di là dei prestigiosi premi vinti (Campiello e Viareggio), esso si segnalò per due ragioni. La spassionata di una nevrosi depressiva dovuta all’irrisolto rapporto col padre, allora tema difficile da affrontare: l’A. stesso afferma che, oltre a manifestarsi nella “paura di tutto” (“Appendice”, p. 447 [ed. consultata: Milano 1998, Rizzoli]), la sua malattia “era annidata nell’odio del padre” (“Appendice”, pp. 450-451; a p. 450 Berto afferma il carattere “rivoluzionario” del suo lavoro, oltre che il suo essere “moderno” [“Appendice”, p. 452]). E poi per lo stile, caratterizzato da rara punteggiatura e discorso indiretto libero. Mai come in questo caso si può affermare che lo stile è l’autore (o meglio, la sua condizione psichica): il romanzo, caratterizzato dal flusso di coscienza ad esprimere il caos e l’ininterrotto profluvio di pensieri in cui è imprigionata l’anima narrante, restituisce effetti (auto)ironicamente grotteschi, dovuti all’intrecciarsi di materia tragica e forma, nel suo groviglio di suggestioni, quasi comica; ad ogni modo, il fine ultimo è quello di restituire ordinate “associazioni” psicanalitiche, come lo stesso A. afferma (“Appendice”, p. 449).
La cosiddetta “eresia dell’informe”, per certi versi avvicinabile ai quasi coevi moduli statunitensi beat – con i pensieri, però, che “battono” come una monotona sezione ritmica, proliferando esponenzialmente come autentici demoni o fantasmi, che inducono ed approfondiscono il “male oscuro” -, e ancor più a Carlo Emilio Gadda (significativamente citato in esergo al libro, con Freud ed Eschilo; dalla Cognizione del dolore dell’autore milanese Berto trasse il titolo del suo lavoro), non è funzionale tanto a una irrelata musicalità del testo (politicamente Berto era un conservatore), quanto a una trasposizione la più fedele possibile delle ossessioni che ottenebrano la mente del protagonista.
Il rapporto col padre costituisce da sempre un topos della cultura occidentale (universale) e, per conseguenza, della psicanalisi (in cui Berto non credeva[1]) che in essa si è formata: “Penso che questa storia della mia lunga lotta col padre, che un tempo ritenevo insolita per non dire unica, non sia in fondo tanto straordinaria se come sembra può venire comodamente sistemata dentro schemi e teorie psicologiche già esistenti” (p. 5: è l’incipit del romanzo); tuttavia, Berto afferma: “[…] racconto un’esperienza personale” (“Appendice”, p. 450), tanto più problematica quanto più intima.
Si può generalmente asserire che la civiltà contemporanea si fonda sull’uccisione del padre, nella forma della negazione della tradizione e dell’autorità, che può assumere anche il carattere estremo del ludibrio (per reazione, talora, agli autoritarismi più o meno politicizzati e/o scissi dalla realtà), con una nota di commiserazione affettuosa: “ricordavo soprattutto quella mattina che era caduto lungo disteso coi bidoni dell’acqua e s’era messo a piangere come un bambino perché era vecchio, e piangendo s’era fatto finalmente carne questo simbolo di padre che m’era capitato, lui tutto dovere e rigidezza e carabiniere reale ecco che rivelava uomo nella sua debolezza benché un po’ ridicolo” (p. 118).
Sarebbe troppo facile elencare i guasti che questa rimozione “mitostorica” ha generato: chi “uccide” il padre, evidentemente e inevitabilmente, è il primo ad autoflagellarsi, con una violenza masochistica inspiegabile secondo le astratte ed anguste categorie della scienza ufficiale, ma certamente comprensibile in termini “inconsci” ovvero “simbolici”. Non è neppure una coincidenza che, con la morte del padre, la nevrosi del protagonista si manifesti con caratteri devastanti: le ombre della mente si fanno temibili “corpi sottili”, che attanagliano la persona come in una morsa senza scampo, deformandone quasi irrimediabilmente la percezione della realtà. L’anima sensibile, alla lunga, si trova in una trappola costruita dalla mente: e la gloria letteraria ricercata dall’autore non è che un tentativo di rivalsa, tanto patetico quanto succedaneo, nei confronti dei propri fallimenti (o di ciò che è percepito come tale).
La cosiddetta depressione, è risaputo, è il male oscuro dell’Occidente, pressoché sconosciuto alle civiltà tradizionali (con l’eccezione delle forme malinconiche di pochi spiriti eletti); queste ultime, infatti, vivevano di sacrifici all’interno di un ordine dato, e non di scelte (tra innumerevoli, spesso illusorie, possibilità). Una tale sindrome conduce, nelle sue forme estreme, allo sprofondare nel vuoto e nell’assurdo, che può trovare esito nel suicidio (non è un caso che la copertina dell’edizione BUR [1977] del libro in questione rappresenti un uomo anonimo, senza volto distinto ed ingrigito, in un labirinto – l’intreccio dei nodi della mente – di cui non si scorge l’uscita). Essa è oscura proprio perché non se ne vede né la provenienza, né il senso (il significato e la destinazione): a meno che non se ne intenda e se ne viva il significato “catartico”, cristianamente, un tale morbo si rivela come abisso di disperazione senza fondo, che corrode, opprime e martella senza scampo l’anima (anch’essa, però, è un “abisso senza fondo”).
Da questo punto di vista, il paradosso della condizione umana – fragile, coriacea e singolarmente grottesca – consiste proprio nel rapporto strettissimo tra libertà e precarietà (nella quale si annida, sottilmente, la depressione stessa): la libertà si esprime in una scelta, ma quest’ultima corrisponde a molte rinunce (e quindi a molte domande, dubbi e scrupoli che nel tempo possono facilmente trasformarsi in odio di sé); ciò implica sofferenza, ingigantita peraltro dal fondo volontaristico della mentalità contemporanea.
A quanto detto si aggiunga la “mentalizzazione” della cultura occidentale, che ha generato una certa “derealizzazione” dell’anima, tendenzialmente atomizzata ed isolata dal mondo e dal prossimo, e costretta in lacci che essa stessa ha creato e non sa più sciogliere, ma che anzi annoda quasi compiaciuta: in questo modo, si vive, nella propria mente, di costrutti artificiosi, che svaniscono e riappaiono repentinamente, come le ombre sempre sfuggenti di un gioco vorticoso.
Il ritiro finale sulla costa calabrese costituisce una sorta di regressione all’infanzia, quasi una fuga catartica coincidente con la morte (e la sua definitiva accettazione, anche in senso “letterario”); il rapporto col padre è in qualche misura risolto – anche se Berto non approda alla Sicilia delle origini: ma il dolore non si muta più in angoscia (“Appendice”, p. 450) – mediante l’identificazione in lui (oltre che attraverso una sorta di uccisione simbolica della sua immagine): “Però [il protagonista] non riesce ad accettare il male che gli hanno fatto: si ritira in un luogo solitario come un anacoreta, rifiutando la società e la famiglia, sempre più pensando al padre, alla fine identificandosi in lui nell’accettazione della morte” (ibidem). Dopo aver salutato la figlia Michela, l’A. afferma: “comunque ora accendo un fuoco e prendo i tre capitoli del capolavoro e li brucio un foglio alla volta ma senza rammarico perché si sa che ormai la mia gloria non può importare a nessuno, e poi brucio anche le fotografie del padre morto senza guardarle si capisce e anzi voltando la testa quando vedo la busta accartocciarsi al calore, e intanto sulla costa della Sicilia si è acceso il faro bianco di Punta Faro e si vedono anche le luci rosse dell’elettrodotto e quelle più basse del porto, e si cominciano a distinguere le lunghe file di lampadine della costa, si è fatto tardi ma innaffierò egualmente l’orto e stasera proverò a portare i due bidoni pieni come faceva mio padre può darsi che ce la faccia senza versare l’acqua né cadere, e poi sarà tempo di dire Nunc dimittis servum tuum Domine, forse è già tempo” (p. 443).
Il romanzo di Berto non fa altro che trasporre letterariamente un itinerario emblematico, forse una stagione della vita di ciascuno, in maniera particolarmente originale e personale. Esso è certamente un classico “sovversivo” della letteratura italiana del ’900: al di là delle motivazioni sociali della depressione – che non andrebbero sottovalutate, sia cinquant’anni fa, in pieno “boom” economico, sia, soprattutto, di questi tempi tribolati -, Il male oscuro costituisce un ulteriore, autorevole indizio di una verità troppo spesso taciuta: ciò che è profondamente personale è, in ultima analisi, universale.
NOTA
[1] Tuttavia, oltre che del principio fondante dell’inconscio (“Appendice”, pp. 447-448), del “descensus ad inferos” psicanalitico Berto riconosce l’universale validità (“Appendice”, p. 451) – in quanto, si potrebbe dire, radicalmente connessi alla “condizione umana” (cfr. ibidem).