Un punto a favore dei bifolchi sudisti e del loro terribile moonshine, che abbiamo prodotto anche noi a etichetta “DI PADRE IN FIGLIO. In cerca della libertà dal 1861“, è che il proibizionismo non funziona. Se a volte le sostanze inebrianti possono rivelarsi un pericolo per la società, è certamente un pericolo anche il farne a meno. L’esperienza americana lo ha ampiamente dimostrato. Non è una questione meramente giuridica, quanto sociologica, se l’alcol è reso irreperibile, subito si verrà a formare una miriade di microproduttori clandestini, fra i quali la criminalità si sviluppa più o meno velocemente in base al carattere etnico e del territorio, ovvero dello stato su cui insiste tale economia sommersa. Non è sufficiente indagare il fatto da questi due punti di vista. Questo perché la “questione alcolica” è eminentemente culturale. Dove saremmo senza l’alcol? (scilicet, discorso simile per il tabacco nelle società dei nativi nordamericani e nell’islam).
Questione sociologica. Senza l’alcol saremmo privi di uno spazio sociale fondamentale e condiviso, un atavico retaggio tribale maschile, se vogliamo, che ancora oggi conserva un minimo attrito d’ancoraggio alla realtà.
Regola di vita: diffidate degli astemi. Questa regola non vale solo per il sottoscritto. Vale per tutti. Dietro un astemio si nasconde non spesso, ma volentieri, un mentitore seriale, un infido mendace patologico il quale sa di non potersi permettere di bere. Lo si avverte subito dalle panzane salutiste che racconta con la voce rotta dal timore d’essere scoperto.
Principio di vita: in vino veritas. Senza stare a scomodare Alceo: il bugiardo non può permettere all’alcol di rivelare la verità al posto suo, o sul suo conto, facendo crollare un’impalcatura di menzogne costruita meticolosamente per lunghe stagioni d’ipocrisia della vita.
Questione storiografica. L’intera civiltà occidentale è stata costruita sul vino. E viceversa. Il vino ha costruito la civiltà. La prima cosa che fece Noè uscito dall’arca, asciugatosi al sole, fu piantare una vigna. I Greci incanalarono il consumo dell’alcol, neutralizzandone gli aspetti deleteri, con la loro peculiare maestria filosofica, in un modo simile a quanto fatto con lo sport nei confronti della guerra: inventarono il simposio. In questo modo era possibile declinare nel momento gioioso il concetto di limite, ente di ragione fra le tante invenzioni del genio ellenico, cifra della mentalità greca. “Simposio” significa letteralmente “bere insieme”. Bere, però, quel giusto, to metrion, con tanto di simposiarca o di maestro di mescita. L’architriclino, come viene nominato nella Palestina ellenizzata dell’episodio evangelico – φέρετε τῷ ἀρχιτρικλίνῳ – noto come le Nozze di Cana (Gv 2,1-11), in cui Gesù, così è scritto, manifestò la sua gloria. Chi ha paura della gloria di Dio? Tra costoro si nasconde senz’altro anche chi ha paura del vino.
Il simposio aveva certamente una funzione ludica, ma contemporaneamente permetteva a persone appartenenti al medesimo gruppo sociale di riunirsi per discutere di temi politici, di scambiarsi opinioni e visioni della vita. Durante il simposio poeti e aedi si alternavano nel cantare e ricordare ai partecipanti la storia comune delle differenti famiglie, in modo da rafforzare il senso di appartenenza dei diversi membri della comunità. Filosofi e sofisti dibattevano sul senso della vita, sugli dei, sull’archè, sul far sembrare più forte l’argomento più debole.
Certo, anche i Greci erano umani, perciò a volte esageravano, come i compagni di Odisseo in casa della maga Circe. Sia di monito oggi questo episodio, mai fuori luogo in una società globale che, in modo più o meno occulto, da maghe e streghe di vario potere e estrazione culturale, è globalmente governata.
Il vino, inoltre, fa emergere il meglio e il peggio di quel che si è. In ogni caso rende sicuri e baldanzosi i timorosi. In guerra e in amore. Il vino è fondamentale nella discussione perché aiuta a porre l’amore e il desiderio a una distanza tale da poterne parlare, in questo senso. Il vino aggiunge qualcosa, un quid, a una civiltà, come ben evidenziato da Platone nel suo capolavoro, il Simposio.
Tutt’altra cosa sono gli zozzoni ubriachi che schiamazzano e bestemmiano per le strade delle nostre città. Questo fenomeno è generato non a per colpa dell’alcol, pur essendone esso la causa materiale, ma dal modo sbagliato e incivile di bere: bere cose sbagliate nel modo sbagliato. Bere per bere, non bere perché si abbia sete, fisica e metafisica! Come dice Scruton: “Un buon vino dovrebbe sempre essere accompagnato da un buon argomento e l’argomento dovrebbe essere condiviso da tutta la tavolata”.
Impossibile non valutare l’impatto e la portata ontologica del passaggio dal simposio antico alla Messa cristiana. Il ruolo del vino è stato trasformato (transustanziato) da Dio stesso in bevanda di vita eterna. In questo modo, “fate questo in memoria di me”, dalla civiltà pagana si è passati alla res publica christiana fondata sul Sacrificio di Cristo nel Santo Sacrifico della Messa, banchetto unico ed eterno, terreno e celeste della Comunione dei santi, nell’attesa di quei Cieli e Terra nuovi della Nuova ed eterna alleanza.
O almeno così fu per venti secoli, prima che qualche burocrate in maniche di camicia, mezzo astemio nonché avaro di sense of humour, non inventò una nuova religione per mezzecalzette e quaraquà non più disposti a versare né sangue, né vino, ma litri d’acqua in sacrificio davanti alle promesse immanentiste di mammona.
Ma cacciamo l’umor nero istantaneamente stappando una bottiglia del vino o del liquore che preferiamo, contempliamo l’intero, il bello, la vita. Proponiamo buoni argomenti ai sodali, sorridiamo alle donne, coccoliamo i nostri bambini, consigliamo la giusta esuberanza ai giovani, consoliamo il cuore dei vecchi, teniamoci vicino i cani, viviamo in pieno il tempo che ci resta. Nell’attesa del Bello e della Vita.