Direttore delle edizioni Ares e della rivista “Studi cattolici”, Cesare Cavalleri è uno dei pochi, pochissimi, intellettuali di razza che il cattolicesimo italiano abbia conosciuto nel dopoguerra. Il fatto che sia morto ieri, nella sua Milano adottiva, non riesce a inibirmi nel preferire il presente “è” invece che il passato “è stato”: perché, se non bastasse la sua adamantina levatura, ma da sola comunque basta, il confronto con il panorama attuale ci fa comprendere il valore della sua intelligenza, che lui ha sempre preferito esercitare un’ottava sotto il clamore generale. Pubblichiamo il ricordo di Paolo Gulisano (a.g.)
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Il mio incontro con Cesare Cavalleri risale al 1990. Ero un trentenne aspirante pubblicista e scrittore che aveva iniziato ad affiancare alla propria attività di medico delle collaborazioni con piccole riviste, quando iniziai a scrivere per “Studi Cattolici” e “Fogli”, il che mi rendeva decisamente orgoglioso.
Fu così che nella storica sede dell’Ares in Via Stradivari incontrai il Direttore, ovvero Cesare Cavalleri. Ero piuttosto emozionato: si trattava dell’editore che aveva lanciato un mito della mia giovinezza come Eugenio Corti, un poeta, un editorialista brillante che seguivo da tempo con ammirazione. Entrai nel suo studio, non senza emozione e me lo trovai di fronte con tutte quelle caratteristiche lo contraddistinguevano: la gentilezza, l’affabilità, un senso dell’umorismo quasi british. Anche l’aspetto esteriore era quello che mi attendevo: a quel tempo indossava il suo celebre papillon, con cui l’avevo visto raffigurato in varie fotografie. Era un segno di eleganza, ma anche un pochino di anticonformismo, il segno distintivo di un’artista. Un’artista che non faceva dell’estetismo fine a se stesso. Un vero gentleman.
Nella chiacchierata che avemmo (e che ricordo bene a distanza di oltre trent’anni) emerse nettamente lo spessore di fede dell’uomo, una fede intensa ma sobria, assolutamente non clericale. Il fatto che fossi un medico lo portò a toccare nella conversazione argomenti bioetici, che gli stavano molto a cuore, mentre io ero ansioso di parlargli delle mie passioni letterarie.
Dopo quel primo incontro ci furono diverse altre occasioni di incontro, anche se non si poteva parlare di una vera e propria amicizia. C’era da parte mia un atteggiamento di deferenza: mi rivolsi a lui per anni usando il “lei”. Poi le circostanze della vita e il fatto che nel frattempo avevo trovato altri editori interessati a pubblicare le mie cose resero questi incontri più rari.
Nel corso degli ultimi anni, ho avuto modo di fare di nuovo capolino all’Ares e ho ritrovato Cesare. Sembrava che fosse trascorso pochissimo tempo: mi ha accolto con la consueta cortesia, e con una straordinaria curiosità intellettuale per quello che gli andavo proponendo. A questo punto, avendo anch’io ormai i capelli grigi e non essendo più un ragazzo, mi ha concesso il privilegio di dargli del tu, con mia grande gioia.
Le occasioni di incontro degli ultimi anni sono state sempre preziose, per le conversazioni, per la saggezza da lui dispensata. L’editore-gentiluomo era divenuto definitivamente un maestro, uno dei buoni maestri di cui il nostro tempo ha disperatamente bisogno. Maestro e testimone, anche nel modo in cui ha affrontato la malattia, con una consapevolezza sempre serena, vivendo questa prova con la fede solida e tranquilla che lo ha sempre caratterizzato.
Al ricordo di Cesare Cavalleri, che non sbiadirà molto presto, non posso che aggiungere la gratitudine per quello che ha dato a tutti coloro che lo hanno incontrato, che lo hanno letto, che hanno ricevuto la sua testimonianza.