La famosa tesi di Platone, per cui la città per essere ben governata deve avere a capo i filosofi e, per converso, la città meglio governata è quella affidata ai filosofi, bisogna riconoscere che di primo acchito lascia sempre un po’ perplessi. Anche perché di solito i filosofi non godono fama di possedere né l’abilità né lo spirito pragmatico necessari per affrontare le dinamiche della politica. Ma la ragione per assegnare ai filosofi il compito di governare la politeia era chiara: essi, in quanto amanti del sapere e cercatori della verità delle cose, sarebbero in grado di individuare più di chiunque altro il discrimine tra bene e male, e dunque anche di operare al meglio per il bene della città.
Ora, che tutti i filosofi abbiano chiara contezza del bene e del male, e siano pertanto capaci di agire per il bene comune, è ovviamente ancora tutto da dimostrare, ma si può convenire che, almeno in teoria, abbiano gli strumenti intellettuali per comprendere filosoficamente quale sia la funzione della politica e che il buon governante deve mirare alla elevazione morale e materiale della comunità.
Non per nulla in questo disgraziato periodo, contro la dissennatezza della politica e in difesa della città, si sono levate almeno due voci autorevoli, anche se pressoché isolate nella palude del silenzio accademico, sicché è riapparso all’improvviso come plausibile proprio quell’antico ideale platonico ormai relegato fra le curiose utopiae.
Tanto che, se da questa miserabile “corsa al Quirinale”, per usare la elegante formula adottata da un giornalismo altrettanto elegante, il cui esito nefasto si annuncia scontato, emergesse per miracolo una figura come quella di un Agamben, penseremmo che tutto non è ancora perduto e che sia ancora possibile uscire dalla immonda prigione in cui stiamo precipitando grazie ad un potere politico altrettanto immondo.
Ma, come sempre, non è tutto oro quel che riluce, anche dalle parti della filosofia. Infatti, a smorzare i nostri recenti entusiasmi è venuta una frase lapidaria di Cacciari. Lapidaria in senso letterale, perché precipitata come una grossa pietra sulla intelligenza, il buon senso e la ragione di chi combatte per una nuova Liberazione.
La frase stupefacente è stata: “obbedisco alla legge anche se la ritengo ingiusta, perché è la legge”.
Il nostro non si è accorto che così, in quattro e quattr’otto, ha buttato a mare, o meglio, da quel ponte “di Calatrava” che nessuno potrà mai perdonargli, la missione del dotto, la cultura filosofica, l’affanno speculativo di secoli intorno alla giustizia e alla legge e infine anche tutta una storia personale. Non si è accorto neppure che un concetto simile, a suo tempo, è stato espresso da un mucchio di persone che hanno tentato inutilmente di risparmiarsi la forca o l’ergastolo.
Operazione dunque non da poco per uno rapito ultimamente anche da profonde suggestioni teologiche, e impegnato da altrettanto profonde riflessioni sull’essenza del diritto, il cui nucleo incandescente sta proprio nel problema del rapporto tra legge e giustizia, e quindi in quella idea di legge giusta da opporre dall’arbitrio del potere.
Il riferimento era al famigerato obbligo vaccinale imposto progressivamente dal governo a tutti i viventi e che presto potrebbe essere esteso anche alle cose inanimate, se ci fosse bisogno di esaurire le scorte. Un po’ come, in un tempo ormai remoto, la vecchia zia addetta a somministrare ai nipoti l’olio di ricino che curava tutti i mali, si beveva quello avanzato per “non sprecare la grazia di Dio”.
Ora il nostro filosofo, pur ritenendo ingiusta la norma che ha introdotto surrettiziamente l’obbligo di sottoporsi alla inoculazione del famoso siero, afferma che il comando va comunque rispettato perché impartito dalla legge, e basta. Dunque neppure perché, come accade a tanti, vi si è costretti col ricatto da necessità di sopravvivenza, ma in ossequio al principio per cui la legge va obbedita indipendentemente dal suo contenuto. Eppure le conseguenze pratiche di un simile postulato dovrebbero essere chiare a tutti. Se ne accorsero anche Isacco ed Ifigenia, mentre il coltello stava per essere affondato.
La legge è uno strumento indispensabile per il vivere civile e nasce con le esigenze di coesistenza. Per dare un ordine ai rapporti umani in vista di una vita buona in seno alla comunità e comporre nel governo del tutto le esigenze particolari.
Ma le leggi umane non cadono dal cielo come i dieci comandamenti, occorre una guida che formuli le leggi che, per mantenere una buona funzione regolatrice, devono anche essere obbedite.
Tuttavia la legge, come ogni atto imperativo, poiché è un prodotto del potere politico dominante, dipende dai fini che questo si propone: può essere strumento di buona amministrazione, secondo la propria vocazione, ma anche un mezzo di potere fine a se stesso. Con tutte le gradazioni del caso. Di qui la necessità di elaborare un criterio di valore su cui misurare la aderenza della legge alla propria funzione fondamentale di difesa e miglioramento della comunità. In una parola, a quella propria “giustizia” che giustifica anche il dovere di obbedienza.
Infatti la riflessione politico filosofica nei secoli si è sforzata di elaborare un concetto di giustizia che fissasse i limiti del potere e mantenesse ferma l’idea di una legge che vive in funzione del bene comune. Il problema della legge giusta e della giustizia in generale, a sua volta ha aperto il tema scabroso del rapporto tra politica e morale.
In ogni caso la legge ingiusta è senz’altro quella che tradisce i principi fondamentali del vivere comune e si trasforma in arma che il potere usa contro la compagine sociale. Ora, è stata proprio la necessità di sottrarre la legge al mero arbitrio del potere che ha indotto il pensiero occidentale a cercare il dover essere della legge, cioè la sua giustizia sostanziale in criteri oggettivi, capaci di limitare l’arbitrio del potere politico. È la storia di quel diritto naturale, quale sistema di principi che devono guidare e delimitare il potere perché precedono la legge, che esso è chiamato ad imporre.
Così la legge è giusta quando il potere rispetta quei limiti etici e giuridici che devono tenerlo ancorato sull’orizzonte del bene comune e di una promozione morale e materiale. In questo senso si potrebbe dire con Agostino che la legge o è giusta o non è, perché la legge ingiusta tradisce la propria funzione e la propria ragion d’essere.
Ma, se la legge è ingiusta, e tradisce se medesima, cade la ragione della sua obbedienza. perché la stessa obbedienza può tradursi in un atto criminoso da punire, e tante conseguenze luttuose derivano puntualmente da leggi giustificate soltanto dalla volontà politica di chi le impone arbitrariamente.
Proprio sul dovere di non obbedire all’ordine ingiusto è stato costruito a Norimberga quel processo che fu per eccellenza processo politico, ovvero senza base giuridica, ma riaccese l’attenzione sulla necessità di riconoscere un diritto naturale che precede e deve ispirare il diritto positivo, ovvero la legge scritta. Occorreva stabilire a ritroso il criterio etico in base al quale stabilire il limite della obbedienza al comando in ragione della sua “ingiustizia”. Un filosofo del diritto come Radbruch ebbe il compito di elaborare una formula, in sé discutibile per la sua indeterminatezza, ma capace di fornire a quella operazione postuma una veste grosso modo giuridica. La formula suonava così: laddove la legge scritta sia incompatibile con i principi di diritto sostanziale “ad un livello intollerabile”, la legge statutaria deve essere disapplicata dal giudice. Con ciò cade altresì l’obbligo di obbedienza.
Al di là della funzione politica e didattica di quel processo, tornò dunque prepotente sul tappeto il problema della legge ingiusta e della necessità di tenere vivo quel concetto al fine di infrangere il dogma della assoluta imperatività e obbligatorietà del comando, e quindi di ogni legge.
Insomma, il problema della obbedienza alla legge non può essere staccato da quello della giustizia che lo precede, il cui respiro metafisico ha segnato la storia del pensiero. Il conflitto tra obbedienza e ingiustizia della legge potrebbe essere annullato soltanto nella città perfetta vagheggiata da Platone, in cui si potrebbe anche fare a meno delle leggi. Ma è cosa che non ci appartiene.
Se la legge va obbedita in ogni caso, anche se ingiusta, si dissolve lo stesso interesse per la giustizia o ingiustizia della legge. Il discorso intorno alla giustizia della legge perde di significato come quello sul sesso degli angeli. Ma, al contrario di questo, non diventa per incanto anche privo di conseguenze pratiche. Infatti significa solo che il legislatore viene liberato da ogni imperativo etico e insieme da ogni possibile limite anche politico. Significa arrivare a quella abolizione della politica di cui vediamo le inquietanti avvisaglie proprio nell’indottrinamento programmato delle masse e nella correlativa globalizzazione di un potere arbitrario e catastrofico, che non trova ostacoli sul suo cammino.
In questa prospettiva va collocata l’uscita di Cacciari sul dovere di obbedire alla legge a dispetto della sua riconosciuta ingiustizia. Il paralogismo può nascere senz’altro dall’idea, in sé corretta, che la legge, per essere tale, deve avere la forza di essere osservata, e che l’obbedienza, tenendo in vita la legge, soddisfa senz’altro una esigenza oggettiva di ordine sociale. È indubbio che, se le leggi non vengono obbedite, si genera quello stato di anarchia che scuote gli equilibri nella vita comune.
Tuttavia l’ordine non è un valore in sé, che vive indipendentemente da quello della legge e dalle finalità che essa persegue attraverso l’obbedienza. Se la legge è ingiusta perché arbitraria, l’obbedienza e l’ordine si mettono al servizio dell’arbitrio. Della esattezza di questa considerazione il governo ha avuto la bontà di fornirci un esempio eccellente: ha imposto ad un popolo senza più voce in capitolo uno strumento inutile per la salute, ma utilissimo per controllare il controllo delle pecore bianche e il conteggio di quelle nere. Dunque l’obbedienza delle pecore bianche entra al servizio degli abusi di poteri di cui è vittima diretta. Un capolavoro di sadomasochismo integrato che potrebbe impegnare futuri e inediti studi psichiatrici.
Insomma, o il rispetto della legge soddisfa l’esigenza di ordine sociale, in quanto questo rappresenta un aspetto del buon vivere comune e quindi un vantaggio per la collettività, oppure si tratta dello strumento con cui il potere protegge se stesso e si mette al riparo dalle possibili reazioni di chi subisce l’arbitrio. Altrimenti dovremmo concludere che ogni repressione violenta con cui un potere tirannico ripristina l’ordine sociale sia cosa buona e giusta.
Ancora una volta, se l’obbedienza alla legge prescinde dalla bontà oggettiva della legge stessa, e dalla innocenza dei suoi ideatori, essa si può capovolgere nel cieco aiuto portato ad una tirannide nefasta.
Nel linguaggio comune è giusto un vestito adeguato alla persona, un paio di scarpe, una operazione matematica, il tempo per la semina o per la vendemmia. Ingiusto è ciò che si presenta discordante, difforme, disordinato. La legge ingiusta è quella che tradisce la propria funzione ordinatrice di una buona vita comunitaria prospera e pacificata, secondo i principi superiori dell’etica e della ragione.
E allora, se il filosofo si accorge, come il più disarmato uomo della strada, che la legge, anzi il profluvio di norme che sconvolgono senza criterio e senza ragione tutta la compagine socio economica di una nazione, sono abnormi nella forma e nel contenuto, cervellotiche e arbitrarie, ottusamente vessatorie, violentemente ricattatorie, perché mai dovrebbe imporsi di obbedirle?
L’obbedienza in questo caso offre un pessimo e scoraggiante esempio a chi impiega tutte le proprie energie, con sacrifici disumani, per dare forza ad una resistenza ogni giorno più eroica che lotta in nome del bene comune e contro una tirannia brutale ipocritamente travestita, oscura e quindi più inquietante, negli obiettivi finali che sembra essersi posta.
3 commenti su “Se il filosofo vede l’ingiustizia e se ne accontenta”
Articolo ineccepibile, limpidissimo per stile ed idee come sempre lo sono tutti quelli della signora Patrizia. Anche io sono rimasto di sasso di fronte all’affermazione del filosofo, al punto che non mi riusciva di riconoscerla come sua, non volevo crederci. Ma in una intervista al quotidiano La verità, qualche giorno dopo, la pezza mi è parsa peggiore del buco : “Se esiste una legge io obbedisco, pur avendo il diritto di criticarla. Certo, se la legge mi rendesse complice di una lesione di altrui libertà, avrei diritto di disobbedienza (sic!). Ma in questo caso il vaccino riguarda soltanto me, non vado in giro a obbligare gli altri o a fare il delatore” (sic!!). Mi vaccino e basta, per poter lavorare”.
Solo l’ultimo periodo ha senso, per quanto concettualmente privo di collegamento, a mio parere, con tutto il resto della dichiarazione. Talmente deludente che c’è quasi da sperare si tratti di un travisamento dell’articolista.
Non sapevo che questo signore fosse un filosofo.
Eccellente articolo
Giustamente si rammenta Norimberga. La difesa degli assassini di milioni di persone era che “obbedivano agli ordini” cioè alle “leggi”. Ma il nostro filosofo salottiero è solo uno con una vita dispendiosa e che “doveva” rientrare nel circo mediatico. La sensazione che trasmette è miserevole ma 1) lo è per una minoranza del popolo italiano 2) si spera che questa “deviazione” non solo venga rapidamente dimenticata ma, magari, premiata con una qualche candidatura o incarico. Basta poco per mettersi al servizio del principe del mondo e gli emolumenti sono eccellenti