Ci ho provato, ma è impossibile riassumere un racconto perfetto. Dopo appena tre righe mi sono reso che lo stavo riscrivendo parola per parola, punto per punto, virgola per virgola. Insomma stavo copiando “Foglia di Niggle”, una delle pagine più intime di J.R.R. Tolkien e indubitabilmente tra quelle veramente fondative della sua scrittura. In questo breve racconto, pubblicato in Italia nella raccolta Albero e foglia, c’è tutta l’anima di uno tra i sommi letterati del Novecento e, per suggerire un fruttuoso percorso di lettura agli abitanti del nuovo millennio, sono stato a trovare padre Ambrogio Cassinasco, della parrocchia ortodossa di Torino, conosciuto dai lettori di “Ricognizioni” per i suoi preziosi interventi su questioni tolkieniane, oltre che sulle opere di C.S. Lewis. L’idea di questa chiacchierata, per la verità, è sorta mentre stavamo parlando d’altro. “Prima o poi” ha detto a un certo momento padre Ambrogio, “mi piacerebbe riprendere Foglia di Niggle’” e non ricordo affatto quale fosse il tema del discorrere. Rammento solo che ho allungato la mano di fianco alla mia scrivania e ho preso Albero e foglia, vecchia edizione Rusconi. Poi ho riletto il racconto, l’ho annotato e ho scribacchiato sul notes qualche pensiero e qualche domanda, che hanno trovato queste risposte.
Nella produzione tolkieniana “Foglia di Niggle” rappresenta una gemma meno conosciuta rispetto a opere, racconti o poemetti come Il Signore degli Anelli o LoHobbit. Eppure in “Foglia di Niggle” si trova elaborata in forma narrativa una riflessione su un tema universale come quello del viaggio dopo la morte. A prima vista, si potrebbe leggere il racconto come un’allegoria del passaggio attraverso il purgatorio prima di entrare nel paradiso. Ma la struttura fiabesca e simbolica della narrazione induce anche ad altre interpretazioni: dalla riflessione dello scrittore sulla propria arte alla comprensione di ciò che l’uomo è durante la vita terrena e quella ultraterrena…
Il minimo che si possa dire di questo racconto è che “Foglia di Niggle” è una produzione davvero unica nel corpo narrativo di Tolkien. Staccato dal suo universo epico del ciclo di Arda, il testo fu pubblicato quando l’autore era ancora in vita, assieme al saggio sulle fiabe e ad alcune narrazioni in forma di fiaba o di poesia. Eppure ha qualcosa di diverso anche da questi scritti: è un breve racconto incentrato su un artista (la cui opera non è dissimile da quella dello stesso Tolkien), “che doveva fare un lungo viaggio” (inequivocabilmente, la morte). Quanto alla metafora sul purgatorio, è ben vero che da autore cattolico Tolkien avrà pensato l’oltretomba in tal modo, tuttavia lo ringrazio per averci risparmiato l’allegoria, che non era un genere letterario da lui amato (come faceva notare nelle critiche al ciclo di Narnia del suo amico Lewis), e per non averci imposto una griglia dogmatica che sarebbe stata subito sottolineata da alcuni cristiani e respinta da altri. In questo, non ha fatto che presentarci un esempio di “mero cristianesimo” come quello proposto da Lewis nelle sue opere apologetiche.
Quando ci si trova davanti a una narrazione così ricca di significati e di simboli, si rimane sempre colpiti da un particolare elemento rispetto ad altri. Quali figure e quali temi emergono nella sua lettura?
Ricordo di avere letto “Foglia di Niggle” da adolescente, e di avere subito trovato in questo semplice racconto una profondità inattesa, che ne ha fatto, forse inconsciamente, uno dei pochi punti fermi del mio cammino spirituale. Se mi fossi trovato di fronte un’altra variazione dell’aldilà dantesco, lo confesso, ne avrei tratto ben poco spunto. Invece, mi ha aiutato a cogliere il valore del lavoro interiore, anche (e soprattutto) quello misconosciuto dalla scala di valori pragmatici del nostro mondo.
Nell’immagine delle montagne sullo sfondo del paesaggio descritto nel racconto si può intuire il simbolo del confine tra anima e spirito. La delicatezza di Tolkien nel farvi riferimento sembra un dono spirituale oltre che semplicemente artistico, qualcosa che ricorda una simile e velata attenzione che si riscontra su questo tema nelle Sacre Scritture.
La nostra fede cristiana presenta l’essere umano come una tripartizione di corpo, anima e spirito (1 Ts 5:23), e accenna a un misterioso ma chiaro “punto di divisione dell’anima e dello spirito” (Eb 4:12). La patristica ortodossa, senza pretese di operare una precisa “anatomia” interiore, cerca di spiegare anima e spirito come quelle componenti interiori dell’essere umano che sono rivolte, rispettivamente, verso il creatore e verso la creazione. Mentre lo spirito si nutre attraverso la comunicazione con Dio, la preghiera e la vita sacramentale, l’anima si nutre di tutto quanto può riflettere l’armonia del cielo nella nostra vita: l’arte, la musica, la poesia, la narrazione, e così via. Il nutrimento dell’anima (nelle sue forme non degenerate: queste ultime impedirebbero il contatto con lo spirito) costituisce la base attraverso la quale cielo e terra possono entrare in risonanza, e perciò il lavoro di chi (come Niggle, o come – ovviamente – Tolkien) sa creare un armonioso “mondo intermedio”, è indispensabile al cammino spirituale di molti esseri umani.
Nel corso della sua storia l’uomo ha spesso cercato di costruire mappe precise dello dell’anima e dello spirito. Lo hanno fatto religioni storiche come quelle orientali e lo hanno fatto invenzioni moderne come la teosofia e lo spiritismo. In cosa la narrazione tolkieniana si differenzia da tutto questo e in che cosa è utile per l’uomo d’oggi?
La rimozione di Dio dall’equazione umana spinge a cercarne un sostituto nel mondo dell’anima, con risultati catastrofici: è il dramma stesso della caduta, il tentativo di mettere la creatura, per quanto “sottile”, al posto del creatore. Si arriva perciò a creare complicate “mappe” dell’aldilà, naturalmente l’una diversa dall’altra, e ognuna di esse pesantemente influenzata dal vissuto, dalle idiosincrasie e dai capricci del proprio autore. Lewis, ne Il grande divorzio, mette in bocca al suo ispiratore, George MacDonald, che lo accompagna in un viaggio ultraterreno, l’esortazione a considerare queste esperienze come un sogno, senza pretendere di descrivere la vita dopo la morte (in modo molto chiaro, dice: “non avrò alcun Swedenborg o Vale Owen tra i miei figli”, un riferimento molto chiaro per chi sa qualcosa di questi due autori). Tolkien si comporta allo stesso modo con la storia di Niggle, un uomo che è in grado di influire sul mondo dell’anima, ma lo fa inconsciamente, ritrovando dopo il suo “viaggio” i frutti del suo lavoro interiore, e anche in questo caso come un passo intermedio verso il vero viaggio a cui tutti siamo chiamati.
L’epilogo delle vicende di Niggle e di Parish evoca una sorta di complementarità delle loro attitudini, che potremmo definire “la praticità dello spirituale” e “la spiritualità del pratico”. Nel racconto di Tolkien la consapevolezza di tale complementarità può essere compresa e applicata già durante la vita terrena, prima del Grande Viaggio?
Direi che la storia di Niggle e Parish può essere una buona metafora per illustrare i paradossi evangelici degli ultimi che scoprono di essere i primi, e dei primi che si ritrovano ultimi. Nella mia vita di parroco mi capita spesso di scoprire profondità interiori in persone che appaiono del tutto insignificanti, e viceversa. Qualunque cosa possiamo pensare della vita dopo la morte, come accennava anche Lewis nei suoi saggi teologici, “avremo delle sorprese”. I valori del pragmatismo, tanto esaltati da secoli di conquista del mondo materiale, rischiano di essere sottoposti a un netto ridimensionamento, pur senza essere disprezzati o considerati in sé negativi.
Pagina dopo pagina, anzi direi riga dopo riga, l’Albero e la Foglia di Niggle diventano immagini sempre più cariche di simbologia e di rimandi. Ve ne sono alcuni che la colpiscono in particolare?
La descrizione di Niggle come un pittore che sa dipingere le foglie meglio degli alberi è una splendida metafora del perfezionismo umano, che sa fissarsi su molti dettagli rischiando di perdere di vista il quadro generale (questo ha ispirato il detto, molto più diffuso in inglese che in italiano, del “perdere di vista la foresta a causa degli alberi”). È in particolare una descrizione agrodolce della società contemporanea, che, assorbita nell’interesse per le singole “foglie”, riesce spesso a trascurare il senso stesso della vita.
Nel racconto, due Voci fuori campo prendono in esame alcuni fatti della vita di Niggle: mentre una ne evidenzia le mancanze, l’altra mette in primo piano i meriti. Hanno un ruolo particolare oltre a quello immediatamente percepibile del giudizio.
Può sembrare controintuitivo rispetto a quello che ho appena detto, ma qui, invece di pretendere di ricostruire le motivazioni delle Voci (il dialogo non avviene solo fuori campo: avviene proprio al buio), mi concentrerei sulle “foglie” dei singoli dettagli. L’esame fatto a Niggle dalle Voci è di una chiarezza impressionante, e ogni parola ha il suo peso (proprio come immagineremmo che sia quando si traggono le conclusioni di una vita intera). Trovo estremamente interessante che sia la seconda Voce, quella che ha il compito di trovare la migliore interpretazione dei fatti, ad avere l’ultima parola sul destino dei “viaggiatori”.
L’opera e la vita di Niggle sono completamente misconosciute e malgiudicate dai “tecnici” del suo paese. Ancora una volta, Tolkien dice che l’essenziale è invisibile agli occhi della tecnica e della logica puramente terrena.
L’intera vita di Tolkien, la vita di un tranquillo studioso creatore di universi interiori, si può leggere in parallelo con la vita di Niggle, ma anche con la vita di chiunque cerchi per prima cosa il Regno di Dio e la sua giustizia. È una garanzia per essere messi da parte da un mondo che ha come primo scopo soltanto l’interesse individuale. Il consigliere Tompkins, che desidera impadronirsi della casa di Niggle e che avrebbe fatto volentieri iniziare il viaggio di Niggle prima del tempo (la metafora è chiarissima nella sua crudezza) è il perfetto esempio opposto, di chi sa fare la voce grossa ma, volendo salvare la propria vita, finisce per perderla. Non a caso, disprezza i suoi stessi colleghi ed è disprezzato da loro.
L’immagine finale è quella della regione di “Niggle’s Parish”, che la Seconda Voce definisce come la migliore introduzione alle Montagne. In che regione ci troviamo? Dove ci porta?
Ci porta a concludere che l’attività dell’anima, anche se non è direttamente o coscientemente rivolta a Dio, è il requisito indispensabile per affrontare il viaggio spirituale, e ogni attività interiore (in certa misura anche quella di Parish, il vicino “pratico” ma poco profondo, attività guidata comunque da sani e robusti principi di buon senso) costituisce l’indispensabile trampolino di lancio per il secondo e più importante viaggio. In questo caso possiamo essere grati a chiunque ci abbia fornito una “Terra di Mezzo” che ci prepara ai veri valori spirituali e ci fornisce un’ancora per non perdere il contatto con il nostro creatore.
4 commenti su ““Foglia di Niggle”: Il Grande Viaggio secondo Tolkien. Intervista a padre Ambrogio Cassinasco”
Grazie per la preziosa informazione.Potrebbe dirmi se la traduzione italiana della Rusconi è ancora reperibile o se bisogna cercare presso altri editori? In questo caso mi auguro che non sia Bompiani che con le ultime “rielaborazioni” è riuscito a rovinare la bella traduzione del Silmarillion di Francesco Saba Sardi.
La ringrazio se vorrà darmi qualche notizia .
La saluto cordialmente
Giuliana Gavini
Grazie a lei per l’attenzione. L’attuale edizione in commercio è quella di Bompiani, che però ha la stessa traduzione di Francesco Saba Sardi pubblicata da Rusconi.
Io non so come ringraziarvi! Da amante di Tolkien mi accorgo di saperne pochissimo. Ho una sete di spirituale infinita, soprattutto dopo questi lunghissimi, folli mesi! Grazie.
Ivan
Bellissima descrizione di un libro che non conoscevo. La spiegazione é appassionata e appassionante e costituisce un’ottima introduzione alla lettura che mi accingero’ ad intraprendere.
Grazie per il consiglio. Corrado Corradi.