La strage di Gorla. Quando i “bravi” americani bombardavano gli inermi bambini italiani

Ascolta: se tutti devono soffrire per comprare con la sofferenza l’armonia eterna, che c’entrano qui i bambini? Rispondimi per favore…” ( Ivan Karamazov, ne I fratelli Karamazov, di Fëdor Dostoevskij).

Oggi, o Dio, gli Innocenti Martiri Ti hanno reso testimonianza, non a parole, ma con la morte” (preghiera della S. Messa del 28 dicembre in suffragio dei Santi Innocenti, i bimbi trucidati da Erode).

Il 20 ottobre 1944 purtroppo è una giornata bellissima, quasi primaverile. Il cielo di Lombardia, quel venerdì, è straordinariamente limpido. Alle ore 11,27, sul quartiere milanese operaio di Gorla, si scatena l’inferno. Uno stormo di bombardieri americani B24 “Liberator” provenienti dalla Puglia, prende di mira il sobborgo, privo di obiettivi militari e della benché minima protezione contraerea; una bomba da 500 libbre centra in pieno la tromba delle scale del complesso scolastico “Francesco Crispi”, facendo a pezzi in pochi secondi circa 200 bambini (184 dentro la scuola e altri 18 nei dintorni), tutti tra i 6 e gli 11 anni. Stessa sorte per le 14 maestre, i 4 bidelli, un’infermiera e la Preside, oltre che per molti genitori accorsi, dopo il suono del preallarme, a riprendersi i figli. Il numero complessivo dei civili inermi massacrati durante l’incursione sarà di oltre 600, a cui vanno aggiunte altre centinaia di feriti più o meno gravi.

A Gorla, dove sorgeva la scuola bombardata dagli americani, oggi si può vedere un monumento in bronzo dello scultore Remo Brioschi (che non volle compenso). Rappresenta una madre velata, con gli occhi rivolti a terra e le braccia protese, sulle quali è adagiato il corpo del figlio morto, e sotto la statua si trova la cripta con i resti delle piccole vittime. L’opera è stata eretta nel 1947 e inaugurata solo nel 1952, grazie ai sacrifici e alle lotte sostenute da un comitato genitori sorto per impedire che si cancellasse la memoria della tragedia. Battaglia non facile, visto che inizialmente il Comune di Milano aveva destinato il terreno della scuola alla costruzione di un cinematografo e “una parte della popolazione… tra cui il parroco d’allora, osteggiava la costruzione di questo monumento, dicendo che quello non era un luogo sacro e preferiva che con i fondi che sarebbero stati raccolti (i genitori si erano autotassati, n.d.a.), si fosse costruito un asilo in parrocchia” (Elisa Rumi, sopravvissuta alla strage). Successivamente, a opera ultimata,ricorda ancora Elisa Rumi, “i responsabili dell’eccidio offrirono una forte somma perché il monumento venisse demolito”. “Gli americani – conferma Graziella Ghisalberti (anche lei sopravvissuta) – erano pronti a pagare perché si distruggesse questo monumento”.

Tutte le grandezze della terra e il sangue stesso dei martiri/ Non varranno il fatto di non essere stati della terra./Di non avere questo sapore terroso./ Di essere stati strappati al principio,/ All’origine, al punto d’origine di questa vita terrestre./Di non avere questa piega e questo sapore d’ingratitudine./Di un’amarezza/ Terrosa” ( Charles Péguy, Il mistero dei Santi Innocenti). Le salme dei bambini, che dapprima erano state sepolte nel cimitero di Greco e in altri limitrofi, a poco a poco, negli anni ’50, vennero recuperate e “dai vari cimiteri della zona fu possibile riunire le diverse cassettine ossario e, a gruppi, accompagnarle con una cerimonia religiosa, ricoperte da drappi rosa o azzurri, al luogo della tumulazione” ( Elisa Rumi).

Su questa strage di innocenti, così come sugli altri crimini di inaudita ferocia compiuti in Italia dai cosiddetti Alleati fra il 1943 e il 1945, vige tuttora, da parte del nostro sistema massmediatico, un’omertà quasi assoluta. La ragione è facilrensibilemente comp: “il bombardamento di Gorla è rimasto vivo nel ricordo degli abitanti del quartiere, grazie al Monumento Ossario da loro fortemente voluto, ma in altre zone della città è un ricordo completamente rimosso, anche perché, nel dopoguerra, era un avvenimento scomodo da ricordare, essendo stato compiuto da quelli che erano rappresentati come i ‘liberatori’”. (Achille Rastelli, Bombe sulla città).

I duecento bambini assassinati dagli americani non erano e non sono politicamente corretti. Nell’autunno 1944 è convinzione diffusa che la fine della guerra sia questione di settimane. Ma è solo una pia illusione, che non tiene conto della “germanica rabies”. Infatti, nonostante i tremendi rovesci subiti su tutti i fronti durante l’estate, con la conseguente perdita dell’Ucraina, dei Balcani, della Francia e dell’Italia centrale , la Germania continua a contendere al nemico, con le unghie e con i denti, ogni palmo di terreno. A est l’Armata Rossa è stata fermata sulla Vistola, a ovest, contro americani e inglesi, resiste la linea Sigfrido che si appoggia alla barriera naturale del Reno, mentre in Italia il fronte è ormai stabilizzato sotto linea Gotica che corre lungo l’Appennino tosco- emiliano, da La Spezia a Rimini. La strategia tedesca è quella dello “Zeitgewinn” (guadagno di tempo): si spera ancora, da una parte nella possibilità di una rottura dell’alleanza fra le plutocrazie occidentali e l’Unione Sovietica e, dall’altra, nella messa a punto di “nuove armi” (di cui in effetti esistono dei prototipi) le quali potrebbero ribaltare in extremis le sorti del conflitto o determinare almeno una situazione di stallo tale da creare i presupposti per una pace di compromesso.

Tutte le risorse del globo sono mobilitate contro la Germania, eppure gli anglo-americani, pur avendo il completo dominio dell’aria, non sono ancora riusciti a strangolare l’apparato bellico e industriale tedesco. Nel 1943, addirittura, “la produzione industriale tedesca raggiunse nuovi massimi, grazie soprattutto alla riorganizzazione dell’apparato produttivo attuata da Albert Speer, il ministro incaricato della Produzione Bellica, alle misure di difesa contraerea e alla consueta capacità dei tedeschi di riprendersi rapidamente anche dai colpi più duri” (B.H.Liddel Hart, Storia della seconda guerra mondiale).

Nonostante l”olocausto dall’aria” e il Feuersturm (tempesta di fuoco) che divora le città del Reich, la volontà di resistenza del popolo tedesco è intatta: “Unsere Mauern brachen, aber unsere Herzen nicht!” (Crollano i nostri muri, ma i nostri cuori no!). Negli alti comandi alleati si fa strada pertanto l’idea che solo intensificando l’offensiva aerea – che è già devastante – sulla popolazione civile, si possa spezzarne il morale e piegare definitivamente la Germania. Ben presto diviene prevalente la teoria terroristica dell’”area bombing”, sostenuta dal capo del Bomber Command della RAF, il famigerato Maresciallo Harris, soprannominato, dai suoi stessi aviatori, “Butcher Harris” (Harris il Macellaio), al quale nei primi anni ’90 è stato fatto erigere in memoria un monumento a Londra.

Il metodo consiste nel saturare il bersaglio con la massima quantità possibile di esplosivo usando il maggior numero possibile di apparecchi… Egli è convinto che colpire una donna tedesca mentre va da casa al lavoro equivale a colpire un soldato in trincea: azione legittima in entrambi i casi” (Storia della seconda guerra mondiale, a cura di Enzo Biagi). Colpire selvaggiamente i civili, oltre che le vie di comunicazione, le istallazioni industriali e militari del nemico, diviene ben presto l’obiettivo primario dei cosiddetti Alleati. “Secondo i teorici di questa forma di attacco, la popolazione civile, sconvolta e terrorizzata, avrebbe dovuto insorgere e premere sul governo nazionale per forzarlo alla resa” (Achille Rastelli). È il “moral bombing” antenato delle bombe… filosofe (pardon, “intelligenti”) usate in Iraq e Afghanistan, contro gli… stati “canaglia”.

Infatti, negli Alleati (sic!), “l’equiparazione obbligata della loro vittoria al trionfo del Bene sul Male (maiuscole nostre) generarono la persuasione che ogni loro azione fosse lecita” (Piero Buscaroli). È la logica puritana degli “Wasp” (White Anglo- Saxon Protestant), convinti da sempre di essere il popolo eletto, in base alla quale, tanto per intenderci, è stato giustificato e rimosso dalla memoria storica, in nome del “progresso”, il genocidio del popolo dei Pellerossa attuato scientificamente e con fanatica ferocia nella seconda metà dell’ ‘800. Di conseguenza, a guerra finita, i vincitori “non furono perseguitati… neppure per crimini pubblici ed evidenti, per il solo fatto che avevano vinto. Né i loro archivi, divenuti ‘res nullius’, furono saccheggiati e divulgati. Furono anzi ‘classificati’, ossia celati e protetti” (P. Buscaroli).

Hollywood e il sistema massmediatico controllato dei “gendarmi della memoria” faranno il resto… “Di contro a una cifra di circa 10.000 persone vittime, tra il settembre 1943 e l’aprile 1945, di atti di violenza da parte di truppe germaniche, le vittime della guerra aerea, in Italia, nello stesso periodo, sono state stimate nella cifra di 42.420. Anche la modalità di questa guerra aerea meriterebbe qualche considerazione. Già prima dell’8 settembre 1943, i bombardamenti alleati su alcune città italiane avevano assunto, nel senso letterale del termine, un carattere terroristico, cioè lo scopo di esercitare sulla popolazione civile, come allora si disse, una ‘pressione psicologica’” (Roberto Vivarelli, Fascismo e storia d’Italia). Piero Buscaroli (“E Churchill disse: Distruggete l’Italia”, Corriere della sera del 5 febbraio 1995), cita al riguardo un toccante e drammatico ricordo personale: “Come sempre in tutti i bombardamenti… i caccia della scorta svolgevano un lavoro più personalizzato e minuto scendendo a mitragliare quei poveri diavoli che si trovavano per strada, nei piazzali, fuori dai rifugi. Uno dei più vividi ricordi dell’autore… risale alla primavera del 1945, quando buttandosi, insieme con la propria bicicletta… dentro il profondo fossato che fiancheggiava a quei tempi la via Emilia, tra Imola e il Piratello, riuscì a salvare, quattordicenne, la vita, da un mitragliamento condotto, forse dieci metri di quota, da tre “Lightning” bimotori. Una maestra, non altrettanto veloce, rimase bersaglio di quei giovialoni americani, e il suo sangue macchiò a lungo la strada”.

Racconti di questo genere, da parte dei sopravvissuti, sulle imprese dei killer anglo-americani in Italia, fino a qualche anno fa erano numerosissimi, ma nessuno storico di professione ha avuto il cuore di raccoglierli e divulgarli in un’opera organica, e nessun cenno sull’argomento è ovviamente presente nei testi scolastici. Eppure – insiste Vivarelli – “Chiunque abbia vissuto durante quegli anni nelle regioni dell’Italia centro-settentrionale, sa per esperienza che la presenza di aerei alleati era quotidiana, e sa che questi aerei assumevano come proprio bersaglio qualsiasi essere vivente si presentasse alla loro vista, non importa se si trattava di uomini, donne, vecchi o bambini, e persino bestiame, tutti facilmente riconoscibili dato che, ormai indisturbati, questi velivoli leggeri svolgevano le loro azioni a bassa quota”.

Non si può non ricordare, a questo punto, anche quanto avvenuto sul lago d’Iseo solo pochi giorni dopo l’eccidio di Gorla, la domenica del 5 novembre 1944, quando fu mitragliato, davanti al porticciolo di Siviano, – stavolta gli avvoltoi erano inglesi della RAF – il vaporetto diretto da Tavernola a Montisola. Trasportava 112 passeggeri, in gran parte donne e bambini, oltre ai giovani componenti dell’Orsa Calcio, che andavano a disputare una partita. Bilancio della carneficina: 43 morti tra cui due gemelline di 9 mesi, Maria e Lisetta) e 33 feriti. Volavano così bassi, dirà una sopravvissuta, che si potevano vedere in faccia i piloti. Annita Nazzari. allora diciassettenne, non dimenticherà mai la scena di un “bambino di tre o quattro anni che teneva in mano la testa della mamma staccata di netto. Piangeva così tanto perché voleva rimettergliela”.

Sei ancora quello della pietra e della fionda,/uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,/ con le ali maligne, le meridiane di morte…” ( Salvatore Quasimodo, “Uomo del mio tempo”).

Venerdì 20 ottobre 1944. Dall’ aereoporto di Castelluccio dei Sauri (provincia di Foggia), alle ore 6.30, tre squadriglie di bombardieri si levano in volo dirette verso la Lombardia, al comando del colonnello James B. Knapp. Gli obiettivi da colpire sono gli stabilimenti Breda di Sesto San Giovanni e quelli dell’Isotta Fraschini e dell’Alfa Romeo nella parte occidentale di Milano, sospettati di produrre parti utili per i missili V1, lanciati su Londra come rappresaglia per i bombardamenti terroristici subiti dalle città tedesche.

Le acciaierie Falck e le fabbriche della Caproni invece vengono risparmiate perché i Falck e i Caproni aiutano i partigiani e sabotano sia i tedeschi che il governo della RSI . Le condizioni sono ottimali: giornata tersa e luminosa ( nei giorni precedenti il vento ha spazzato il cielo), inesistenza di valida difesa contraerea, assenza della caccia germanica, ritirata durante l’estate per difendere lo spazio aereo del Reich. Durante la mattina la formazione nemica viene avvistata, e alle 11.14 suona il preallarme (o piccolo allarme). Dieci minuti dopo, le sirene danno il vero e proprio allarme (o grande allarme), seguito dalle bombe delle prime due squadriglie che cadono sull’Alfa Romeo e l’Isotta Fraschini.

La terza squadriglia, quella che dovrebbe colpire lo stabilimento Breda, sbaglia, forse per un errore tecnico, la direzione e, invece che su Sesto San Giovanni, viene a trovarsi su Gorla. L’errore (se di errore si tratta), non essendo possibile correggere o invertire la rotta, non è più rimediabile e la missione va considerata fallita. Le bombe però sono già innescate, quindi devono per forza essere sganciate. Riportarle alla base è, in questi casi, troppo pericoloso. La visibilità è perfetta, i piloti americani sanno che sotto di loro ci sono solo civili inermi. Basterebbe sganciare il carico in aperta campagna, lontano da centri abitati, oppure nel mar Adriatico (è la rotta seguita nell’andata e che gli aerei devono ripercorrere per il ritorno). Invece i piloti, con agghiacciante freddezza, sganciano su Gorla, ben sapendo di infierire su una popolazione indifesa.

Quando alle 11.14 suona il preallarme, i bambini dell’Istituto “Francesco Crispi” incominciano a scendere, con i loro insegnanti, nel rifugio. “L’edificio ospitava poco più di 200 bambini, alcuni quel giorno però non erano a scuola perché malati o perché avevano bigiato, vista la bella giornata. La scuola ospitava due turni, uno al mattino e un altro al pomeriggio. Quando suonò il primo allarme alcune maestre cominciarono a far preparare i bambini per scendere al rifugio, ma mentre questa attività era ancora in corso ( mettere via penne e quaderni in cartella, dare le ultime istruzioni eccetera), suonò il secondo allarme. Alcune maestre si attardarono per chiedere se si trattava del grande allarme o del cessato allarme,.. altre invece autorizzarono i più grandi a tornare a casa, se avessero voluto. Sulle scale si accalcarono quindi circa 200 bambini che dovevano andare al rifugio, altri che correvano avanti per uscire… Portare al rifugio 200 ragazzini non era un’impresa semplice; pare che i primi a raggiungerlo, quelli della prima elementare, fossero appena arrivati, quando la bomba s’infilò nella tromba delle scale, con il suo scoppio provocò il crollo delle stesse e, di conseguenza, quello del rifugio” (A. Rastelli). “Da notare che sul tetto della scuola c’era la croce rossa: purtroppo è servita da tiro a segno…” ( Graziella Ghisalberti

nell’intervista, reperibile su internet, concessa il 21 ottobre 2020 ).

Dalle macerie saranno estratti vivi 6 bambini. Si salva solo la quinta maschile “perché era al piano terra e il maestro Modena fece scavalcare la finestra agli scolari” (Graziella Ghisalberti). Il destino sembra infierire sui bambini delle famiglie più agiate che frequentano il primo turno fino alle 11.30; il secondo, al pomeriggio, è riservato a quelli delle famiglie più numerose e meno abbienti che a mezzogiorno possono usufruire della refezione. “Nella sfortuna si ebbe la circostanza favorevole che le scuole elementari ‘Francesco Crispi’… svolgevano un doppio turno di lezioni con 250 alunni che frequentavano la mattina e 250 il pomeriggio, altrimenti, se i bambini avessero frequentato tutti nella mattinata, la strage sarebbe stata di dimensioni bibliche” (Fabrizio Carloni, “Milano ’44, la strage degli innocenti”, sul Secolo d’Italia del 20 ottobre 2000).

Nei secondi successivi al crollo della scuola cadono su Gorla e sui quartieri di Turro e Precotto 170 bombe da 250 kg, portando a 614 il conto totale dei morti. In suffragio delle loro anime, il 26 ottobre il Cardinal Schuster, tra i primi ad accorrere sul luogo del disastro, celebrerà in Duomo una Messa solenne.

Anche la scuola di Precotto viene bombardata. Qui, però, i bambini riescono miracolosamente a salvarsi. Sono in cortile a giocare e fanno in tempo a scendere nel rifugio un attimo prima che divampi la tempesta di fuoco. “Quel mattino – ricorda Piera Nanetti (allora in prima elementare) – non volevo andare a scuola perché il vento aveva spazzato il cielo e potevano bombardare, ma mia mamma mi ci portò. Ricordo i bombardieri, si sentiva dal rumore che erano pesanti di bombe… le scaricarono su di noi, anche se sul tetto delle scuole era dipinta una grande croce. Eravamo là sotto (nel rifugio, n.d.a.), quando esplose il mondo e noi restammo sepolti. Gridavo con la bocca piena di calcinacci. Per grazia di Dio don Carlo Porro individuò subito il punto più giusto dove scavare per estrarci, trovando l’uscita di sicurezza, altrimenti saremmo tutti morti perché poi il rifugio crollò”.

Ricorda ancora Graziella Ghisalberti: “La mattina le lezioni finivano alle 11.30, quindi io e le mie amiche al suono dell’allarme siamo uscite per correre a casa… ma quando ho alzato gli occhi e ho visto tutte quelle bombe che cadevano sono tornata indietro verso la scuola per scappare nel rifugio… ma sulla porta della scuola la maestra dei maschi, Norma Grazzina, mi sbarrò la strada, io urlavo e lei non voleva farmi entrare, mi ha rimandato via… La maestra ‘cattiva’ in realtà mi stava salvando la vita, lei invece è morta con gli altri…. La mia ‘colpa’ era di essermi salvata. Mi rimandarono in Brianza (dove la famiglia era precedentemente sfollata, n.d.a.) perché le altre mamme non potevano sopportare la mia voce quando chiamavo mamma… La mia ‘colpa’ l’ho riscattata lottando tutta la vita perché i 184 Piccoli Martiri di Gorla non siano dimenticati”. “In quel marasma accorse anche la mamma di Edoardo (il cuginetto di Graziella, n.d.a.) e, alzati gli occhi ai ruderi fumanti, vide ai piani alti un corpo che penzolava appeso a un calorifero: era una bimba. ‘Nel rifugio saranno tutti salvi’, urlava scavando con le unghie. Edoardo fu trovato dai vigili del fuoco soltanto il giorno dopo e mamma Angioletta se lo prese in braccio… Lo portò a casa e con l’aceto si ostinava a farlo rinvenire’” (Lucia Bellaspiga, su Avvenire del 20 ottobre 2014).

Sempre nel già citato Bombe sulla città di Achille Rastelli, a proposito del bombardamento di Guernica del 26 aprile 1937 (definito giustamente “controverso”) si legge che “passò alla storia come il primo bombardamento strategico a fini terroristici… I morti in quell’occasione, poi, furono decisamente inferiori ai 1645 universalmente noti e l’importanza di questo attacco aereo fu esagerata dalla propaganda e resa ancor più celebre dal quadro di Pablo Picasso… ma ai primi di giugno il capo del governo basco, Aguirre, riferì a Indalecio Prieto, ministro della Difesa del governo repubblicano di Valencia, che i morti non erano più di 200…”.

Ora, cimentiamoci in un modesto sforzo di immaginazione: che risalto nazionale e internazionale avrebbero avuto i 200 morticini di Gorla (di cui nessuno in Italia sa nulla, a parte gli abitanti – ma quanti, poi? – del quartiere), se la carneficina fosse stata attribuibile ai tedeschi? Avrebbero acceso l’ispirazione di un Pablo Picasso o (almeno) di un Renato Guttuso?

Chi ha bombardato chi? In un’intervista (reperibile su internet) a Sergio Francescatti, all’epoca uno dei 6 bambini sopravvissuti, condotta da Lucia Ascione su TV 2000 nel corso della trasmissione “Bel tempo si spera” del 31 ottobre 2019, la parola “americani” è un’espressione tabuistica, nel senso che non viene pronunciata praticamente mai, da nessuno. Solo negli ultimi secondi del servizio si dice che, in occasione dell’anniversario della strage (si badi, dopo 75 anni di silenzio delle autorità USA…), il sindaco Sala aveva auspicato le scuse del governo americano e che “il console generale americano a Roma, la signora Lee Martinez, ha avuto parole di pietà e partecipazione”.

L’intervista (inframmezzata dalle strazianti testimonianze di altri sopravvissuti e da fotografie d’epoca in cui compare per 4 secondi quella di un manifesto con la scritta: “Milano ferita dai liberatori anglosassoni”) dura 22 minuti scarsi (poi il programma prosegue con un argomento diverso, politicamente più corretto) e l’unico velato riferimento ai responsabili del crimine è la manciata di secondi (al minuto 8 circa) in cui l’intervistatrice, interrompendo brevemente il Francescatti, avverte, ma proprio di sfuggita, che Gorla si trovava sotto “una pioggia di bombe sganciate purtroppo dagli Alleati. Si è parlato dopo di un vero e proprio errore umano, meglio, il bersaglio originario viene mancato e viene deciso di scaricare quel carico di morte”. ( sic!)

I criminali di guerra americani responsabili della strage non sono mai stati né perseguiti né processati. I governi che si sono succeduti in Italia dopo la sconfitta, hanno accuratamente evitato di sollevare la questione e di pretendere dagli USA non solo scuse ma l’apertura di un’inchiesta. Col piano Marshall, oltre al resto, è stato comprato anche il silenzio sulle atrocità anglo-americane avvenute durante il conflitto, una raccapricciante pagina di storia tuttora da scrivere. Il perdono, doveroso per un Credente, non può esimere dal cercare e riconoscere la verità storica e dal rendere onore alle vittime.

Nota (eufemisticamente) ancora Rastelli: “Un certo cinismo da parte degli analisti della 15° AF ( di cui faceva parte la formazione che ha bombardato i bambini, n.d.a,) tuttavia, traspare a posteriori: in nessuna delle relazioni che ho avuto occasione di esaminare ho trovato il benché minimo riferimento a questa strage, e non penso che ne fossero rimasti all’oscuro, dato il clamore che ne faceva la propaganda della RSI. Inoltre, circa cinquant’anni dopo, due aviatori… da me contattati non ricordavano niente di specifico riguardo all’operazione del 20 ottobre, e anche questa è una rimozione del ricordo abbastanza singolare”.

Del resto, per anni si fece circolare l’idea che gli autori del massacro fossero gli inglesi “giudicati più crudeli, mentre gli statunitensi avevano fama di essere ‘buoni’”… ( dal sito Associazione Gorla Domani)

Così “solamente dopo l’inizio del nuovo millennio… alcuni superstiti cercarono di contattare, attraverso il giornalista Leo Siegel, la Console americana nella metropoli meneghina; dopo settimane di attesa arrivò la risposta che ci si aspettava: la Console Deborah E. Graze rifiutò di inviare il giorno della Commemorazione anche solo un semplice mazzo di fiori, non tanto per riconoscere le proprie colpe ma come gesto di Carità Cristiana verso i bambini morti” (dal sito “I piccoli martiri di Gorla”, creato dai parenti delle vittime). “Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me” ( Giov. XV, 18-19)

Solo nel 2019 (ribadiamo: dopo 75 anni!), d una sollecitazione del sindaco Giuseppe Sala (“credo che sia doveroso che il governo americano si scusi, sapendo che noi siamo qua per perdonare”), la nuova Console americana di Milano, Elizabeth Lee Martinez, ha risposto con un comunicato di (quasi) 13 righe ( leggibile su internet) esprimendo le “condoglianze alle famiglie delle vittime di questa infausta e terribile tragedia occorsa durante la guerra” (sic!) e auspicando che “Stati uniti e Italia, alleati nella Nato, continuino insieme ad affrontare le sfide emergenti” (sic!).

Non conosciamo gli usi e i costumi americani – è il commento rivolto all’insulso comunicato, sul sito dei Piccoli Martiri – ma nella nostra cultura si può parlare di condoglianze nell’immediatezza di un evento luttuoso… si può arrivare ad una, due settimane di ritardo. Non 75 anni… Avremmo preferito… che la Console avesse incardinato la sua lettera sul termine ‘scuse’ invece di ‘condoglianze’, non tanto per dover riconoscere le colpe…quanto per ammettere che quell’episodio non è costato la vita a duecento soldati di un esercito nemico armati di mitragliatori, pronti a combattere, ma a duecento bambini di una scuola elementare armati di quaderni e matite colorate… che non avevano colore politico, che non potevano essere considerati obiettivi militari da annientare per vincere la guerra. Comunque, noi siamo qui. Pronti anche a perdonare se arriveranno delle vere scuse sentite, magari con una corona di fiori…”.

Dopo 76 anni, l’anno scorso, il 20 di ottobre, per la prima volta, “il consolato americano ha partecipato alla commemorazione con Anthony Deaton, Console per la stampa e la cultura” (Alberto Giannoni, su “il Giornale.it”) e un mazzo di fiori bianchi è stato deposto ai piedi del monumento.

Oggi, a settantasette anni di distanza, nell’Italia “democratica” e “antifascista” qualcuno lamenta che nessun presidente della Repubblica sia mai venuto a portare una corona di fiori agli scolaretti massacrati. Meglio così… senza intrusi! “Sine macula enim sunt ante thronum Dei” (Apocalisse di San Giovanni, XIV, 1-5).

8 commenti su “La strage di Gorla. Quando i “bravi” americani bombardavano gli inermi bambini italiani”

  1. Grazie per averci ricordato questo tristissimo evento occultato di proposito dai media di regime.
    Nessuno è senza macchia davanti al trono di Dio, ma non si possono contare le stragi degli inermi operate nella storia dai “liberatori mangia-hamburger”.
    Naturalmente il silenzio ridondante degli antifascisti, oltre allo sconcerto, procura vergogna.

    claudio servalli

  2. Mia nonna materna mi ha spesso raccontato dei “pippo”, gli aerei che passavano a mitragliare chi trovavano sulla Varesina, la strada che va da Varese a Milano. Io sono originario di Bollate, dove avvenne un’altra strage analoga a gennaio 45. Il mio testimone di nozze abitava lungo la ferrovia e un giorno mi raccontò qualcosa (mi limito qua a dire che si ritrovò le coperte bucate dai proiettili e che la sua casa fu usata come prima infermeria).

  3. Elena Albertelli

    Era prassi normale che gli aviatori americani mitragliassero a bassa quota le donne di Trieste e Gorizia che andavano in Friuli per procurarsi qualcosa da mangiare.

  4. Chi vince le guerre scrive anche la storia e oscura tutto ciò che non si vuole far sapere. Chi ha vinto è assassino come il perdente; le intenzioni e le azioni di morte sono le stesse. Nei conflitti gli uomini, dell’una e dell’ altra parte, sono uguali per aderire all’atrocità della violenza, per l’ubbidienza incondizionata a ordini superiori, per l’annebbiamento totale della coscienza personale. E chi studia la Storia o chi la scrive commette l’errore di non essere obiettivo e “razionale”, cioè di aderire alla ratio, alla realtà dei fatti. Così si esalta sempre un vincitore e si demonizza un vinto. Da qui il pericolo di non imparare mai nulla dallo studio del passato, se non c’è il supporto di una visione ampia, veramente umana, scevra da pregiudizi e supportata da una coscienza pulita e viva.

  5. Sono presente anch’io con voi nel commemorare quegli angeli e quei martiri, insieme ai molti altri che subirono torture, indicibili violenze (vedi alla voce “marocchinate”), saccheggi, uccisioni solo perché dalla parte sbagliata della storia. Incolpevolmente tra l’altro. Da allora l’Italia, violentata, ha abbassato la testa per non rialzarla più: oggi è una colonia tra le più disprezzate, laboratorio delle peggiori devianze come ben si vede in quest’epoca “pandemica”.

    Senza contare che non ci rialzeremo più: i nuovi italiani disprezzano la loro nuova patria e ne sconoscono storia, tradizioni e civiltà.

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