L’Europa non è solo identità e profonde radici spirituali. C’è anche un’Europa sociale e del Lavoro con cui è necessario fare i conti. Particolarmente oggi, in anni di crisi “globali”. È un’Europa che viene anch’essa da lontano, da esperienze importanti ed insieme da grandi elaborazioni culturali e sociali, che vanno ben oltre i secoli trascorsi. È Storia di relazioni e di valori condivisi, all’interno di una ben salda visione del mondo e delle istituzioni che intorno ad essa si sono affermate, espressioni dell’idea – per dirla con Louis Dumond (Homo aequalis. Genesi e trionfo dell’ideologia economica ) – che “Nella maggior parte delle società e in primo luogo nelle civiltà superiori o, come dirò più spesso, nelle società tradizionali, i rapporti fra gli uomini sono più importanti e hanno un valore più alto dei rapporti fra gli uomini e le cose. Questo primato è capovolto nel tipo moderno di società, dove invece i rapporti fra gli uomini sono subordinati a quelli fra gli uomini e le cose”.
Le corporazioni sono l’espressione più matura di questa “visione”. Alla corporazione medioevale appartenevano non solo gli artigiani produttori ma anche le università, le camere dei mercanti, le compagnie, perfino le confraternite e i monasteri. L’esercizio di ogni mestiere era oggetto di una minuziosa “regola”, che garantiva l’equilibrio e la tenuta dell’organo, tutelando il rapporto tra apprendisti e maestri, sorvegliando la buona esecuzione del lavoro e punendo le frodi, aiutando i suoi membri anche in viaggio e nei periodi di disoccupazione.
Intorno a questi principi si innerva un’epoca e trovano ragioni d’essere le genti europee, senza che questo precluda spazi all’innovazione tecnico-scientifica. Del resto, alla Chiesa, e in particolare ai monaci, si devono eccezionali innovazioni tecnologiche nell’architettura, nella tessitura, nella metallurgia, nell’incisione, nelle tecniche agricole (dall’aratro pesante al sistema dei tre campi al posto dei due dell’antichità classica), nella meccanica e nella misurazione del tempo. È lungo l’inventario dei trattati, elaborati a partire dall’Anno Mille, di medicina, matematica, astronomia, alchimia, architettura, geometria.
Scompaginato dalla Rivoluzione borghese dell’89, questo ordine sociale trova nuova legittimazione grazie alla Dottrina Sociale della Chiesa, fissata nell’enciclica Rerum novarum (1891) di Leone XIII, nella quale strumento essenziale per ricostruire la coesione sociale e la collaborazione tra le classi sono le associazioni o corporazioni operaie, nuovamente tutelate dallo Stato, ordinate e governate “in modo da somministrare i mezzi più adatti ed efficaci al conseguimento del fine, il quale consiste in questo, che ciascuno degli associati ne tragga il maggior aumento possibile di benessere fisico, economico, morale”.
Poi arriverà, nella Fiume dannunziana (1920), la Carta del Carnaro, il progetto volto a liberare il lavoro dall’“ansito penoso e il sudore di sangue” per ricondurlo a un senso di “virtuosa gioia”, in cui esso diventi bellezza e ornamento del mondo, perché “la vita è bella, e degna che severamente e magnificamente la viva l’uomo rifatto intiero dalla libertà”.
Cuore sociale della Carta del Carnaro la funzione pubblica delle corporazioni, che – come afferma l’art. XIII – concorrono, insieme ai Cittadini ed ai Comuni, a formare le basi costituzionali della Repubblica e che, unitamente alla Camera dei rappresentanti (“Consiglio degli Ottimi”, eletto a suffragio universale), esercitano il potere legislativo, attraverso il Consiglio economico (“Consiglio dei Provvisori”, a base corporativa, cioè attraverso le diverse categorie lavorative).
E ancora, nel 1927, la Carta del lavoro base del Sistema corporativo, fissato intorno ai seguenti termini: Nazione, Stato, Lavoro, Lavoratore, Sindacato.
La parabola dell’idea corporativa è segnata, durante la Repubblica Sociale Italiana (1943-1945), ultima spiaggia di un’Idea tornata alle origini rivoluzionarie, dal tentativo di rompere il dualismo lavoratori-datori di lavoro all’interno delle imprese. Con la socializzazione lavoro e capitale vengono pariteticamente rappresentati all’interno dei luoghi di produzione, attraverso il Consiglio di Gestione, espressione per metà di membri scelti fra i soci e per metà di rappresentanti dei lavoratori, e il Capo dell’impresa, responsabile di fronte allo Stato della condotta economica del complesso produttivo, della sua disciplina interna e del suo inserimento nel quadro dello sforzo produttivo nazionale.
La stessa Costituzione italiana è debitrice dell’Idea Partecipativa. L’articolo 46, ancora inapplicato, recita: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”.
Al di là dell’esperienza italiana, tutta la Storia europea è permeata dalle aspettative di un Umanesimo del Lavoro, in grado di affermare – come scriveva il belga Henri De Man, teorico del planismo – un fronte comune di tutti gli strati sociali produttivi. È la visione sintetica del sindacalismo soreliano, impegnato a costruire una nuova aristocrazia del Lavoro, “con la missione di modificare il mondo, cambiandone la valutazione morale”. Sono anche le aspirazioni del distributismo, di scuola inglese, teso a favorire la diffusione della proprietà dei mezzi di produzione e della casa. È l’idea “pancapitalista” di Marcel Loichot, condivisa, negli Anni Sessanta, da Charles de Gaulle. È il progetto di Adriano Olivetti finalizzato a coniugare attività produttiva, comunità e territorio, laddove la fabbrica-mezzo non è solo dispensatrice di profitti, ma anche di cultura e di servizi ed è la base di un’idea nuova di Stato.
Può, oggi, l’Europa dimenticare questa stratificata tradizione sociale e culturale? Non è, piuttosto, doveroso trasferirla nei nuovi contesti socio-economici, farne la base per aggiornate ed ardite elaborazioni pratiche e teoriche?
Il futuro ha un cuore antico e mai come nel campo del lavoro il “cuore pulsante” di una grande Storia può imprimere forza ad una stagione sociale impegnata a dare nuovo valore ai rapporti fra gli uomini e nuovo senso al mondo della produzione. La strada è lunga, ma la sfida affascinante. Importante è discuterne. Soprattutto crederci, sconfiggendo ogni deleterio fatalismo.
2 commenti su “Cosa ci insegna la vera Europa sul Lavoro e i suoi valori”
Bell’articolo, pero’, più che di Europa bisogna parlare di Italia (anche se ancora non era una entità politica) perché é da quel mozzicone di impero romano, cristianizzato da ormai 500 anni, che é partito il meglio del medioevo e che si é esteso all’Europa. Semmai, l’Europa appena ne ha avuto la possibilità ha ricicciato fuor la sua vocazione barbarica e ha tradito quella visione di vita sociale e spirituale aderendo in toto alla riforma protestante e poi all’illuminismo, entrambe iattura delle genti. Ritengo che l’Europa sia stata civile fino a quando é stata italiana dopo di ché é diventata un’altra cosa, una cosa che non ha nulla a che vedere con noi.
Assolutamente d’accordo. Perfetto.