Andrej Vlassov: l’anima russa tradita da tutti

Quos Deus perdere vult, dementat prius”. La seconda guerra mondiale, incominciata l’1settembre 1939, nella primavera del 1941 è in una situazione di stallo. La firma del trattato tedesco-sovietico dell’agosto 1939 aveva permesso alla Germania di evitare quanto il Führer aveva paventato nel Mein Kampf: il conflitto su due fronti. La Germania tuttavia, nonostante le grandi vittorie ottenute, da ultimo la conquista della Grecia e di Creta, non è riuscita a piegare l’ostinata resistenza dell’Inghilterra, alimentata dalla prospettiva di un intervento imminente a suo favore, secondo un copione già visto, degli Stati Uniti d’America. Il tempo lavora a sfavore dell’Asse. Hitler decide pertanto di dare inizio all’Operazione Barbarossa, nell’intento di prevenire un attacco da est e di impadronirsi delle immense risorse agricole e minerarie dell’ URSS,indispensabili per sostenere una guerra contro la potenza marittima e coloniale degli anglosassoni. È il 22 giugno 1941, “un giorno prima dell’anniversario dell’inizio dell’invasione napoleonica del 1812. Il passo si dimostrò altrettanto fatale per Hitler quanto lo era stato per il suo lontano predecessore” ( B. H. Liddell Hart, Storia della seconda guerra mondiale).

È arduo sostenere ancora oggi che i russi siano stati colti di sorpresa. “Sapevo che la guerra sarebbe venuta, ma credevo di poter strappare altri sei mesi” avrebbe ammesso Stalin dopo l’attacco tedesco (John Erickson, Storia dello stato maggiore sovietico). In realtà, “con l’operazione Barbarossa non era il forte che aggrediva il debole. Era una potenza militare… che assaliva di sorpresa – una sorpresa molto relativa – un avversario notevolmente più forte in uomini e materiali… vi è poi da aggiungere che lo spiegamento dell’Armata Rossa all’Ovest era squisitamente offensivo…” (Adriano Bolzoni, I dannati di Vlassov).

Dopo aver invaso la Polonia insieme ai tedeschi (ma Francia e Inghilterra avevano dichiarato guerra solo alla Germania) Stalin, sfruttando il conflitto in Occidente, nel biennio 1939-40, aveva aggredito la Finlandia, sottraendole l’istmo di Carelia, aveva annesso Lituania, Estonia, Lettonia e aveva preteso dalla Romania la cessione della Bessarabia e della Bucovina. Veniva così violato il limite tra le sfere di influenza tedesca e sovietica stabilito col patto Ribbentrop-Molotov.

Per Viktor Suvorov (ex alto ufficiale del controspionaggio sovietico rifugiato in occidente) gli spostamenti di milioni di soldati, in movimento dagli Urali verso ovest tra l’aprile e il giugno 1941, non lasciano molti dubbi. Pochi giorni prima che i tedeschi sferrassero l’attacco “diverse armate sovietiche erano già schierate lungo la frontiera. Perché?… Diventa chiaro che l’unica credibile intenzione che Stalin poteva avere era quella di cominciare, lui pure, la guerra nell’estate 1941”.

I successi iniziali ottenuti dalla Wehrmacht, con la cattura di milioni di prigionieri, suscitano l’impressione, sia nello stato maggiore tedesco che nell’opinione pubblica internazionale, che anche la campagna di Russia sia destinata a concludersi vittoriosamente con una “Blitzkrieg”, al massimo di due o tre mesi. A ottobre, in effetti, i Panzer sono alla periferia di Mosca e Leningrado, stretta in una morsa, sta per capitolare.

Tuttavia l’illusione è di breve durata. Il “generale inverno” (con la temperatura che scende a -40° e gela i motori dei mezzi corazzati), insieme all’aiuto che arriva subito dagli Usa, ufficialmente non ancora in guerra, arresta l’offensiva tedesca. Non va dimenticato che era incominciata con oltre un mese di ritardo, rispetto ai piani iniziali, a causa del colpo di stato in Jugoslavia e per soccorrere gli italiani impantanati nella demenziale campagna di Grecia. Ritardo (di almeno 5-6 settimane) forse decisivo, in quanto non permette ai tedeschi di raggiungere i loro obiettivi prima dell’arrivo del fango autunnale e del gelo invernale. Il mancato intervento del Giappone nell’Asia sovietica (altro esiziale errore del Tripartito) rende disponibili molte divisioni siberiane che salvano Mosca, dopo che il corpo diplomatico si è già trasferito a Kujbyšev, sul Volga.

Protagonista della vittoriosa difesa della capitale è uno dei più carismatici generali dell’Armata Rossa, distintosi a settembre nella disperata difesa di Kiev, uno dei pochi di cui Stalin si fida, anzi il suo prediletto: Andrej Andreevič Vlassov .

Andrej Andreevič Vlassov nasce da famiglia contadina l’1 settembre 1900, ultimo di 13 figli, a Lomakino, villaggio della Russia europea centrale, a circa 200 chilometri da Mosca. Il padre è il sarto del paese. Intraprende gli studi religiosi, ma lascia il Seminario a 19 anni per arruolarsi nell’armata Rossa. Combattendo in Ucraina, nel Caucaso e in Crimea contro le Armate Bianche, si distingue subito per le sue eccezionali capacità tattiche e il forte ascendente sulle truppe, raggiungendo presto il grado di colonnello.

Terminata la guerra civile, approfondisce i suoi studi all’ Accademia militare di Mosca e nel 1930 si iscrive al Partito Comunista. Nei confronti di Stalin nutre un vero e proprio culto della personalità. “Non crederesti cara Anja – scrive in una lettera alla moglie Anna Vlasova, nipote di un kulak, la quale lo lascerà per non ostacolarne la carriera – che gioia nella mia vita! Ho parlato con il nostro più grande maestro. Ho avuto questo grande onore per la prima volta… Non crederesti nemmeno che una persona così grande abbia abbastanza tempo anche per i nostri affari personali”.

La sua ascesa nei gradi dell’esercito è vertiginosa e, paradossalmente, risulta agevolata dall’allontanamento in Cina nel 1938. Quando la Germania infatti attacca l’Urss, Vlassov è ancora vivo “perchè durante gli anni delle ‘purghe’ staliniane nell’esercito e il dissanguamento del corpo degli ufficiali ad opera dei plotoni di esecuzione egli era ben lontano, in Cina, a fianco del generale Ciang Kai-Scek come consigliere militare” ( Adriano Bolzoni).

Nel 1942, con il ritorno della primavera, la Wehrmacht, sostenuta dai Paesi alleati (Finlandia, Romania, Italia, Ungheria, Slovacchia) che devono contribuire a colmare gli spaventosi vuoti che si sono aperti anche nelle sue file, riprende l’offensiva accingendosi ad assestare il decisivo colpo d’ariete prima che il peso dell’intervento americano nel conflitto (ufficiale dal dicembre 1941) diventi determinante, come era accaduto nella prima guerra mondiale.

A Vlassov, dopo i successi ottenuti nell’inverno precedente davanti a Mosca, è affidata un’armata con l’incarico di sbloccare la situazione attorno a Leningado. Si incunea nelle linee nemiche, ma non è sostenuto dalle armate che dovrebbero proteggerlo ai fianchi e in seguito al contrattacco germanico, che si avvale anche del contributo dei volontari spagnoli della divisione “Azul”, le sue forze restano intrappolate in una zona paludosa nei pressi della foresta di Volkhov. Dal quartier generale staliniano viene esortato a resistere e gli vengono promessi ingenti rinforzi e rifornimenti che non arriveranno mai.

Vlassov e i suoi soldati, chiusi nella sacca, sono abbandonati al loro destino. Il generale rifiuta di salire a bordo di un aereo inviato a prelevarlo e ordina una sortita che viene condotta con eroismo e forza della disperazione, ma si conclude con il completo annientamento del suo esercito.

Difficile dire che cosa sia passato per la mente di quest’uomo di fronte allo spettacolo dei suoi soldati sacrificati dal Comando Supremo e lasciati morire di fame, annegati nelle paludi, fatti a pezzi dalle bombe nemiche. “Sembra che Vlassov fosse rimasto disgustato dalla durezza delle direttive di Stalin e dalle immense perdite che esse procuravano”, scrive Henri Michel (Storia della seconda guerra mondiale).

La tragica fine della sua armata deve averlo scosso così profondamente da trasformarlo in un “nemico mortale” ( Adriano Bolzoni) del dittatore comunista, facendogli anche comprendere che il vero nemico del popolo russo era il comunismo. Alcune settimane dopo, l’11 luglio 1942, i tedeschi, che sono sulle sue tracce, lo catturano in un villaggio dove si era nascosto in una legnaia, forse proprio in attesa del loro arrivo . Dopo aver camuffato inizialmente la sua identità, si fa riconoscere. Ha deciso di collaborare: è il generale sovietico più famoso e più decorato dell’Armata Rossa e la sua missione da questo momento diventa quella di liberare la Russia da Stalin e dal regime comunista.

Il progetto che Vlassov ha concepito e propone al Quartier Generale del Führer è quello di dar vita a un grande esercito di liberazione nazionale russo antisovietico, in grado di offrire un sostegno decisivo alle armate del Reich. Tale esercito può essere facilmente formato col riarmo di milioni di prigionieri russi e intensificando l’azione di propaganda psicologica sul nemico per accelerare il fenomeno già in atto (e di considerevoli proporzioni) di intere formazioni dell’esercito russo (soprattutto quelle costituite da Ucraini, Russi bianchi, Caucasici, Usbeki, Cosacchi) che passano dalla parte dei tedeschi e si battono con loro in odio al comunismo.

Molti altri generali nei campi di prigionia aderiscono al progetto e sono disposti a seguire Vlassov che intende realizzare un piano veramente organico e riunire in un grande esercito di liberazione le unità sparse che già collaborano con i tedeschi. “Centinaia di migliaia di russi già affiancavano in modi diversi la Wehrmacht, incorporati o aggregati in formazioni ausiliarie, di lavoratori, di polizia e sorveglianza locale o anche combattenti… Si doveva e si poteva invece creare un esercito, chiamare i combattenti a raccolta, arruolare i volontari tra gli innumerevoli prigionieri, organizzare una mobilitazione popolare” (Adriano Bolzoni).

L’idea di Vlassov incontra il favore anche di molti generali tedeschi e su proposta del colonnello Martin, capo del servizio propaganda della Wehrmacht, viene istituito un “Comitato Russo” anti-staliniano. Nel dicembre 1942 appare a Smolensk il manifesto programmatico che propone i seguenti punti essenziali: collaborazione con la Germania e gli altri popoli della nuova Europa per la creazione di una Russia senza bolscevismo e capitalismo; abolizione dei Kolchoz e restituzione delle terre ai contadini; libertà per tutti i popoli che compongono la Russia, annullamento di tutti gli accordi e i contratti segreti tra Stalin e gli angloamericani, amnistia per i detenuti politici, ripristino del commercio, dell’artigianato e della piccola industria, abolizione del lavoro forzato, diritto degli intellettuali di operare liberamente per il bene del popolo, abolizione del terrore e della violazione dei diritti dell’uomo. Il momento è ancora propizio, ma il peccato di “hybris” che offusca sia Hitler che Himmler, fa sì che il piano venga inopinatamente accantonato.

I sovietici nel biennio 1941-42 hanno subito, nell’apparato economico e militare, perdite enormi, “all’apparenza irreparabili” (H. Michel), eppure le loro riserve sembrano inesauribili. Il “generale Fango, il generale Inverno e il generale Distanza” ( B. Mussolini) hanno posto fine alla speranza di una “Blitzkrieg” e gli americani, attraverso i porti del Mar glaciale artico (Murmansk e Arkangel), il golfo Persico e la Transiberiana, sostengono massicciamente l’URSS con un flusso ininterrotto di rifornimenti di ogni genere e del più moderno materiale bellico (carri armati, cannoni, aerei, esplosivi, vagoni ferroviari, camion, navi, grano, carne in scatola, persino i famosi Valenki, gli stivali anticongelamento…).

Sebbene i tedeschi abbiano ancora l’iniziativa, il logorio subito è tale da far temere un inevitabile collasso se le perdite (vista l’impossibilità di colmarle) dovessero continuare a rimanere così elevate. “Nelle alte sfere dirigenti tedesche si sapeva benissimo già prima dell’offensiva dell’estate 1942 (che mira al petrolio del Caucaso, n.d.a.) che la situazione generale della guerra era disperata. Restavano solo pochi mesi per realizzare almeno gli obiettivi già fissati” (Andreas Hillgruber, Storia della seconda guerra mondiale).

Alla luce di tale valutazione oggettiva da parte degli stessi alti comandi della Wehrmacht, non ci si domanderà mai abbastanza come sia stato possibile non capire il significato politico e strategico della collaborazione offerta dal generale Vlassov che, se pienamente accettata e valorizzata fin dall’inizio, avrebbe rappresentato un fattore decisivo per risolvere vittoriosamente il titanico scontro sul fronte orientale e mutato l’esito dell’intero conflitto.

Quant’altre mai, ci paiono illuminanti le affermazioni del generale Reinhard Gehlen (nel 1942 capo dei servizi di spionaggio militare dell’Est) riportate da Adriano Bolzoni: “Ci eravamo resi conto… che la Russia, questo immenso Paese così ricco di potenziale umano e di risorse naturali, non avrebbe potuto essere conquistata o meglio liberata dal comunismo se non con l’aiuto degli stessi russi… Era con i russi che si poteva battere l’URSS. Se Hitler lo avesse capito, non ci sarebbe stato impossibile guadagnare masse incalcolabili di russi alla nostra causa; sarebbe bastato far leva… sul profondo, intensissimo odio che avevano accumulato nei confronti del comunismo… Ma Hitler rifiutò sistematicamente di credere a questa possibilità”.

Il Führer guarda con diffidenza la formazione di grandi unità combattenti russe anticomuniste. Il pregiudizio razzista è dirimente. Gli slavi restano sostanzialmente inaffidabili perché “Untermenschen” e il progetto di Vlassov di una grande Russia indipendente, anticomunista e anticapitalista, è in contrasto con i piani di smembramento dell’URSS previsti per dopo la guerra. A questo si deve aggiungere che “Hitler originariamente aveva rifiutato qualsiasi aiuto di ‘estranei’ perché questo rientrava nella sua concezione di dominio; cosicché il problema fino alla svolta verificatasi sul piano bellico… non fu quello di costringere alleati e vinti a collaborare militarmente alla sua guerra… ma viceversa quello di rifiutare la collaborazione offerta” ( Andreas Hillgruber). Secondo questa logica ottusa, il progetto Vlassov viene svalutato e concepito unicamente come un’ arma per incentivare le diserzioni nell’Armata Rossa. Così, per un anno, l’apporto del generale consisterà nell’organizzare conferenze e nel firmare i volantini della propaganda nazista…

Solo quando le sorti della guerra, dopo Stalingrado, iniziano a evolvere sfavorevolmente per l’Asse, nella primavera del 1943, a Vlassov viene permesso di recarsi al fronte per iniziare la sua azione di proselitismo. È accolto con simpatia sia dagli ufficiali tedeschi di prima linea che dalle popolazioni locali, ma la sua azione di propaganda è tenuta sotto stretta sorveglianza. Si tollera di malanimo che egli continui a parlare di una futura Russia indipendente e il generale Keitel il 18 aprile 1943 gli intima di rientrare nel campo di prigionia. Si tratta di un folle errore politico e tardiva sarà la resipiscenza di Goebbels: “Se noi avessimo seguito sin da principio una politica più lucida all’Est, oggi non saremmo in una posizione tanto critica come l’attuale”.

Nel 1944, con gli angloamericani sbarcati in Normandia e l’Armata Rossa quasi sulla Vistola, viene finalmente meno l’intransigenza di Hitler nei confronti del progetto di Vlassov. Himmler stesso fissa un incontro con il generale per il 20 luglio 1944. Il giorno non potrebbe essere più sfavorevole: è quello del fallito attentato al Führer organizzato dal colonnello Claus Von Stauffemberg, e l’incontro viene rimandato al 16 settembre. Questa volta le proposte di Vlassov sono accettate ed egli assume a novembre il comando della “Russkaia Osvoboditel’naia Armija”, l’esercito di liberazione russo ( ROA), che ha come bandiera la croce azzurra di Sant’Andrea.

Quasi un milione di uomini, da organizzare ed equipaggiare nel centro di addestramento di Heuberg, vicino a Ulma. Ma è troppo tardi. La situazione militare è irrimediabilmente compromessa; si sono persi tre anni preziosi in cui sarebbe stato facile, se in Russia si fosse condotta una guerra di liberazione anziché di sterminio, mobilitare su vasta scala tutte le forze antisovietiche determinando il rapido collasso dell’Armata Rossa dopo i pesanti rovesci iniziali. Basti pensare all’Ucraina, la quale, sottomessa dai bolscevichi nel 1920, e vittima nel 1932 del genocidio per fame (milioni di morti) attuato con la carestia provocata dal regime, altro non aspettava che di poter insorgere contro i soviet e accoglie subito i tedeschi come liberatori. Basti pensare alle popolazioni delle nazionalità oppresse che seguiranno l’esercito tedesco in ritirata pur di non rimanere sotto il comunismo. “La dittatura staliniana e il bolscevismo erano stati imposti… con la violenza e con il terrore: tutti i tentativi di indipendenza delle varie repubbliche russe erano stati stroncati nel sangue… le popolazioni russe affamate e stanche del potere moscovita erano pronte ad abbracciare qualsiasi bandiera pur di ottenere la libertà… In ogni villaggio, in ogni città il potere sovietico si sgretolò con l’arrivo delle truppe tedesche… sorsero spontaneamente i comitati di Liberazione (KONR), i movimenti indipendentistici, i gruppi armati per la lotta nazionale” (Massimiliano Afiero, I volontari russi anti-comunisti).

I tedeschi, tuttavia, non avevano mostrato il minimo interesse per queste aspirazioni indipendentistiche e, in un rapporto a Mussolini, il generale Messe, comandante del corpo di spedizione italiano in Russia (CSIR) aveva stigmatizzato la loro miopia: “Se la volontà di potenza, la perfetta organizzazione militare, lo spirito di disciplina, avevano consentito ai tedeschi la conquista di enormi territori, solo il senso di giustizia e la comprensione delle esigenze e dello spirito delle popolazioni avrebbero potuto garantire il consolidamento di tale conquista… Il popolo tedesco ha dimostrato sul fronte orientale di possedere al più alto grado le prime qualità, ma non si può affermare che esso abbia dato prova di possedere in eguale e sufficiente misura le seconde”. Così “le popolazioni deluse, tornarono ad identificare il russo come loro protettore e il tedesco come il loro più acerrimo nemico” (Massimiliano Afiero), e gran parte delle truppe che si erano comunque arruolate per combattere ad est vengono mandate, per sfiducia e timore di diserzioni, in Francia, Belgio, Jugoslavia con compiti di retrovia.

Una particolare menzione, per chi vuole avere un quadro esauriente del contributo offerto dai russi anticomunisti alla causa dell’Asse durante la seconda guerra mondiale, meritano anche i combattenti che non appartenevano al ROA di Vlassov. Sono le unità di Cosacchi, Turkmeni, Caucasici impiegate in Italia contro le bande comuniste dedite ad azioni di guerriglia e attentati terroristici nel Friuli orientale, il cosiddetto “Adriatisches Küstenland”, il “Litorale Adriatico”. Queste unità erano state fatte giungere dalla Polonia nell’estate 1944 e avevano dato vita, insieme alle famiglie che avevano seguito i soldati, ad un vero e proprio stanziamento in Carnia, destinata a diventare, secondo le promesse ricevute dai nazisti, la loro nuova patria: il “Kosakenland”.

L’afflusso dei Cosacchi nel Litorale, oltre alla lotta contro i partigiani, prevedeva la loro lunga sistemazione, e a questo fine, a giudizio dei nazisti, le montagne orientali e la pianura rispondevano egregiamente, come un riflesso, alle terre cosacche: una seconda patria con affinità geografica e psicologica” ( Pier Arrigo Carnier, L’armata cosacca in Italia). Alla loro guida si trovano generali zaristi veterani della guerra civile 1918-21, come Pjotr Krassnoff, ataman dei cosacchi del Don, il più alto rappresentante del governo Cosacco in esilio che lottava per una grande Russia ortodossa e monarchica destinata, dopo la vittoria, ad essere governata “dal legittimo capo della dinastia dei Romanov”.

Mentre contro le bande titine in Jugoslavia combattevano valorosamente le divisioni di cavalleria cosacca agli ordini di comandanti leggendari come Helmuth Von Pannwitz, nobile di origini baltiche, e Andrej Schkuro, epico combattente della controrivoluzione, che sogna la riscossa dei Bianchi, per salvare l”Europa dal comunismo. “Noi cosacchi russi combattiamo contro questa peste del mondo dove l’incontriamo: nelle foreste polacche, sui monti della Jugoslavia, sulla solatia terra italiana”.

Nel gennaio 1945, quando a ovest si sta esaurendo l’offensiva delle Ardenne, l’Armata Rossa ha infranto le difese del fronte dell’Est. È caduta Varsavia e le armate di Konev raggiungono Częstochowa, la città della Madonna Nera. “Una immensa valanga di uomini – non solo soldati tedeschi ma russi che con essi riparavano in occidente, minoranze nazionali dell’URSS, estoni, lettoni, lituani, e, ancora, mandrie di bestiame, animali selvatici respinti dalla guerra comparvero improvvisamente ai confini della Prussia orientale con la forza di un cataclisma naturale” (Adriano Romualdi, Le ultime ore dell’Europa).

Quasi mezzo milione di Russi anticomunisti sono impegnati sul fronte occidentale, circa 150.000 in Jugoslavia e mezzo milione si battono disperatamente sulle rive dell’Oder. Molti reparti del ROA, insieme alle numerose unità di combattenti europei, come i francesi della “Charlemagne”, si fanno decimare per coprire la ritirata delle ormai esangui divisioni germaniche. Nel marasma generale, all’inizio di aprile, Vlassov si trova nei pressi di Praga, dove è in atto un’insurrezione contro i tedeschi. Gli viene chiesto di schierarsi con gli insorti, ma lealmente si rifiuta di voltare le spalle alla Wehrmacht. Solo quando due divisioni di SS si avvicinano con l’ordine di radere al suolo la città operazione “Apocalisse”), muove con le sue truppe sulla capitale cecoslovacca costringendo i tedeschi a ritirarsi ed evitando un inutile massacro. ÈAleksandr Solženicyn ad abbattere il muro di omertà sull’ episodio: “Capirono tutti i ceki ‘quali russi’ salvarono la città? La storia è stata travisata, si afferma che furono le truppe sovietiche a salvare Praga: non avrebbero avuto il tempo di farlo”

Vlassov e l’esercito di liberazione ripiegano verso ovest seguendo la ritirata dei tedeschi per arrendersi agli anglo-americani e sperando, dal momento che indossano la divisa dell’esercito tedesco, di essere trattati secondo le Convenzioni di Ginevra. Ignorano che per loro è stata decisa la “soluzione finale”. Tutti i soldati prigionieri del ROA, insieme ai profughi che li hanno seguiti ( in totale oltre due milioni di persone, forse tre ), verranno ( tra il 1945 e il 1946) consegnati ai sovietici che li trucideranno subito o li faranno scomparire nei Gulag.

Stesso destino per i Cosacchi che avevano combattuto in Italia e Jugoslavia e si erano lasciati disarmare e concentrare nella valle della Drava, vicino a Lienz, e in Carinzia. Nella notte del 2 di maggio, dopo una fitta nevicata, avevano valicato il Plöckenpass per arrendersi all’ottava armata britannica. Per convincerli a cedere le armi era stato fatto credere loro che sarebbero stati riequipaggiati con armamento inglese per costituire una “Legione Cosacca”. “Gli ufficiali russi, memori delle nobili tradizioni dell’Armata imperiale – scriverà il nipote di Krassnoff – non potevano immaginare un tradimento così vile”.

Molti che tentano una resistenza per non venire ammassati sui vagoni bestiame che li consegneranno ai sovietici vengono massacrati a colpi di baionetta. Ecco la ricostruzione dell’eccidio fatta molti anni fa per i lettori del “Borghese” da Piero Buscaroli: “Il rapporto del tenente colonnello Malcom comincia: ‘…Diverse migliaia di persone si stringevano in un compatto quadrato di ispirazione difensiva primitiva quasi animale: le donne e i bambini al centro, gli uomini sui lati. Un gruppo di quindici o venti preti erano riuniti su un lato, coi paramenti sacri, immagini e bandiere religiose. Alle 7.30 cominciarono a celebrare…’ Dopo un preavviso di mezz’ora, Davies (maggiore inglese, n.d.a.) ordinò di caricare alla baionetta la folla di oranti disperati. Fu un’orgia di violenza durata ore intere per strappare piccoli gruppi dalla massa. Mentre le cariche si susseguivano, la folla continuava a cantare e a pregare. Furono bastonate le donne, i preti. A decine incominciarono a fuggire nei boschi e si impiccavano agli alberi. Altri si gettarono nella Drava da un alto ponte”.

La tragedia di oltre due milioni di russi consegnati dagli Alleati ai sovietici dopo la fine della guerra è stata definita da Alexandr Solženycin, che aveva conosciuto i superstiti del genocidio nei Lager di Arcipelago Gulag, “l’ultimo segreto della seconda guerra mondiale”. È stata la denuncia di Solženycin a spingere qualche storico coraggioso (come Lord Nicholas Bethell) sulle tracce del segreto. Nondimeno, ancora oggi, nonostante l’apertura degli archivi, le rivelazioni e i libri dei sopravvissuti, l’omertà dei mass-media sull’argomento è assoluta. Quasi nulla si sa “dell’enorme fenomeno della collaborazione attiva -anche militare- prestata alla Germania dai russi anticomunisti… ma anche e soprattutto di quella che è stata la spaventosa tragedia di milioni di russi condannati ad essere sterminati o a sparire nei Lager dell’URSS perché consegnati contro la loro volontà dai governi alleati alla macchina omicida di Stalin… Della vicenda dei rimpatri forzati di russi non solo prigionieri degli Alleati, ma anche ex prigionieri russi liberati dai campi dall’arrivo delle truppe anglo-americane, profughi, fuggiaschi e persino esuli finiti in Occidente anche prima dell’inizio della guerra, il mondo libero conosce ben poco… Si è trattato di una vicenda infame, di un autentico genocidio. Milioni e milioni di vittime… E non solo quanti di loro appartennero… alle formazioni militari che affiancavano la Wehrmacht… ma anche centinaia di migliaia di altri russi che in modi diversi erano scampati dai campi di lavoro e prigionia in Germania e nei territori occupati; eppoi ancora, senza nessun rispetto mai per le leggi dell’umanità e del diritto d’asilo, altre masse di russi di ogni sesso ed età, che nel marasma della guerra avevano cercato scampo e rifugio nelle zone dell’Ovest… Tutti furono consegnati, spesso proditoriamente e vilmente, al carnefice di Mosca” (Adriano Bolzoni).

Durante la conferenza di Yalta del febbraio 1945 che decreta la cessione ai sovietici di mezza Europa (il prezzo da pagare per l’eliminazione di quello che poi Churchill chiamerà “il porco sbagliato”), Stalin aveva preteso la consegna di tutti i russi ( senza distinzione alcuna) nelle mani degli Alleati. Sono dissidenti che devono sparire. Roosvelt e Churchill “consapevolmente avviarono due milioni di esseri umani allo sterminio” (Piero Buscaroli).

I russi del ROA contano sulla protezione occidentale, molti sono addirittura convinti che, dopo la resa della Germania, la guerra continuerà contro l’Unione Sovietica. “Non si sarebbero mai arruolati nella Wehrmacht con l’Armata di Vlassov, se non fossero stati spinti al limite del sopportabile, costretti alla disperazione, se non avessero covato un odio inestinguibile contro il regime sovietico” (Alexsandr Solženycin, Arcipelago Gulag). Vlassov si arrende alle forze USA nei pressi di Plzeň il 9 maggio 1945. Quando è riconosciuto, un ufficiale gli lascia intendere che per lui ci sarebbe la possibilità di un rifugio sicuro più a ovest, ma il generale lo rifiuta. Da uomo d’onore, chiede asilo anche per i suoi ufficiali e i suoi soldati. “Sapeva che la causa della libertà era perduta per la sua gente e la Russia… la sua propria morte non aveva peso” (Nikolaj Tolstoy).

Alla fine di aprile aveva respinto anche l’offerta di asilo di Francisco Franco che gli avrebbe mandato un aereo speciale per portarlo in salvo in Spagna. Americani e inglesi, secondo gli accordi stabiliti con l’Armata Rossa, devono sgombrare la Cecoslovacchia; i reparti del ROA, da loro disarmati, sono lasciati ai sovietici e solo in pochissimi riusciranno a fuggire. Catturato il 12 maggio (“Spara, mezzo uomo”, dirà al commissario politico che lo ha fatto prigioniero), Vlassov viene condotto a Mosca, dove è rinchiuso, interrogato e torturato nella Lubjanca. Dopo un processo in cui deve rispondere di alto tradimento, spionaggio e attività terroristiche contro l’URSS, sarà impiccato, insieme ad altri generali dell’esercito patriottico di liberazione, il 2 agosto 1946.

Lui, il traditore, l’apostata (ma quale allora la differenza con Von Stauffemberg?), era stato tradito tre volte: da Stalin nella sacca di Volkhov, dai tedeschi, che non gli avevano mai veramente creduto, e dagli angloamericani. In realtà “Tutto ciò che fecero Vlassov e i suoi collaboratori fu fatto proprio per la Patria… La Germania era considerata dai ‘Vlasovisti’ esclusivamente come un alleato nella lotta contro il bolscevismo…erano pronti a resistere alla forza armata di qualsiasi tipo di colonizzazione o smembramento della nostra Patria” ( Sinodo dei Vescovi della chiesa Ortodossa Russa all’estero).

In pochi ebbero la ventura di sfuggire alla tragica fine, tra questi i soldati del generale Holmston-Smylovsky, grazie alla provvidenziale intuizione di non fidarsi né degli americani né, degli inglesi, e di dirigersi invece verso il Liechtenstein, chiedendo e ottenendo asilo in questo piccolo Principato culla del Cattolicesimo Romano. Tra i cosacchi disarmati vicino a Lienz, alcuni riuscirono a fuggire nelle vallate intorno alla città o sulle montagne del Voralberg. Dopo la guerra, fra il Tirolo orientale e la Carinzia, nella Lesachtal, vagavano centinaia di cavalli abbandonati, scappati dai campi dove i cosacchi si erano arresi agli inglesi. “Agili, lucidi nei mantelli lavati dai temporali, girovagavano liberamente per pascoli e boschi, taluni ancora con le selle” ( Pier Arrigo Carnier).

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