Il battito delle ali di una farfalla in Brasile può provocare una tromba d’aria nel Texas. Con questa frase il matematico Edward Lorenz riassunse, in una conferenza del 1979, il cosiddetto effetto farfalla, parte della più ampia teoria del caos. Molti considerano la globalizzazione una concretizzazione dell’effetto farfalla; del resto, mai come negli ultimi decenni il destino di miliardi di esseri umani è stato nelle mani di un’oligarchia – economica, industriale, finanziaria e tecnologica- interessata a instaurare un potere planetario.
Per semplificare al massimo, l’attuale globalizzazione è la realizzazione su scala mondiale delle teorie di David Ricardo, l’economista inglese del primo Ottocento, padre della teoria classica, che fu anche un abile speculatore. Per lui, ogni paese dovrebbe produrre solo le merci in cui ha un vantaggio comparativo rispetto agli altri attori economici, ossia quelle il cui costo di produzione è più basso. Una visione esclusivamente quantitativa ed economicista, oltretutto squilibrata dal lato della domanda. A parte le enormi implicazioni di natura nazionale, spirituale, politica, ambientale, le teorie del brillante operatore di borsa di origine sefardita hanno bisogno, per essere realizzate, di due presupposti decisivi. Il primo è l’esistenza di un mondo irenico, privo di contrasti, retto esclusivamente da considerazioni economiche “razionali”, un’umanità sedata ridotta a partita doppia. L’altro elemento è la presenza di un potere unico sovra ordinato, una centrale “mondialista” in grado di decidere per tutti e imporre la sua volontà.
É quello che sta accadendo con il cosiddetto Nuovo Ordine Mondiale, ma nonostante tutto e per fortuna i bachi del sistema esistono, talvolta imprevedibili. Uno lo stiamo sperimentando con gli effetti del Covid 19, che ha trascinato al ribasso gli scambi commerciali e imposto, se non uno stop, una ridefinizione dell’agenda globalista. Un altro, il “cigno nero”, l’imprevisto che modifica piani e strategie, è il blocco del canale Suez per l’incaglio di una gigantesca nave portacontenitori da duecentomila tonnellate. Non è chiaro per quanto tempo durerà l’indisponibilità del canale. Rimettere in linea di navigazione un colosso del mare non è facile, un incubo logistico con centinaia di navi bloccate o costrette a circumnavigare l’Africa, come già stanno facendo quelle di due dei maggiori gruppi d’armamento, Maersk e Hapag Lloyd.
Suez è una delle rotte marittime più importanti del mondo: vi transita almeno il 12 per cento del commercio globale, l’8% del Gas Naturale Liquefatto e circa due milioni di barili di petrolio al giorno. Per quanto concerne le merci destinate all’Europa dalla fabbrica del mondo asiatica, il suo ruolo è assolutamente cruciale. Le stime divergono, ma ogni giorno di blocco della via d’acqua che unisce Mediterraneo e mar Rosso comporta perdite tra sei e dieci miliardi di dollari.
La crisi pandemica aveva abbassato i noli marittimi in calo da anni, tanto che solo i giganti dell’armamento possono permettersi di proseguire l’attività con margini così bassi. Anche il prezzo del greggio è diminuito, sino all’incredibile fase di prezzo negativo per l’eccesso di prodotto stoccato e non utilizzato. Adesso, viviamo la situazione contraria: i noli sono lievitati vertiginosamente, la circumnavigazione dell’Africa dura settimane e comporta costi altissimi. Secondo Bloomberg, Bibbia dell’informazione economica, spedire un contenitore di quaranta piedi (due “teus”, nel linguaggio del settore) dalla Cina all’Europa può costare fino a ottomila dollari, quattro, cinque volte di più che all’inizio del fatidico 2020. L’effetto è devastante e si innesta su una crisi del commercio marittimo già presente.
Questo comporta un effetto inflazionistico esterno in una fase di grave perdita del potere d’acquisto. Vi è il rischio dell’interruzione delle catene logistiche mondiali lungo la direttrice est-ovest, con effetti disastrosi sull’industria e sugli approvvigionamenti di materie prime, semilavorati e prodotti finiti. Il precedente che conosciamo è la guerra dello Yom Qippur del 1973 tra Israele e i paesi arabi. Il blocco di Suez provocò la più grave crisi petrolifera della storia. In Occidente si determinò il fenomeno della stagflazione: economia ferma, elevata inflazione più disoccupazione diffusa.
Ovviamente non siamo a questo punto, ma il blocco del canale, unito alla persistenza della crisi economica da pandemia ha già prodotto un aumento del prezzo del barile di greggio in coincidenza con il crollo del PIL dei paesi esposti al coronavirus. Insomma, la globalizzazione disegnata dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) a Marrakesch (1995), completata con l’irruzione cinese (2001), è in crisi e con essa il modello, considerato definitivo – la fine della storia – del libero scambio e dell’abbattimento delle barriere doganali, con il seguito di delocalizzazioni, crisi industriale e produttiva dell’ex mondo “sviluppato”. Il globalismo non è una tigre di carta e certo è presto per pensare che avanzi la de-globalizzazione, ma il sistema è in fibrillazione.
Fin qui i fatti. Abbandoniamo i massimi sistemi e tentiamo di fornire una modesta cartografia pratica della globalizzazione “reale”. Condiamo l’insalata con limoni provenienti dal Sudamerica. Per giungere sulla nostra tavola ha viaggiato per settimane lungo l’Oceano dentro cassoni frigoriferi. Il piroscafo che lo ha trasportato è un gigante del mare lungo centinaia di metri, alto come un palazzone di città. Chi non li hai mai visti resta sbalordito. Le nuove portacontenitori devono essere in grado di trasportare tre o quattromila cassoni.
La stazza della Even Given incagliata è di duecentomila tonnellate. Per costruirla, si sarà dovuto allargare il cantiere e l’ammasso di ferraglia e motori è costato centinaia di milioni di euro. Per ammortizzare i costi, deve correre all’impazzata per il mare con soste brevissime. Brucia migliaia di litri di carburante al giorno, i cui residui vengono sversati in mare. Per consentire il ritmo del commercio globale, si scavano sempre nuovi pozzi di petrolio e di gas naturale. Alcuni metodi di estrazione, come quello dei gas di scisto, il fracking, ovvero la frantumazione idraulica delle rocce, hanno costi ambientali drammatici e un consumo d’acqua immenso. La nostra nave non può approdare se non in porti dei quali è stato artificialmente aumentato il pescaggio. Questo comporta l’esecuzione di continui dragaggi, con immense ricadute geologiche sulle aree costiere e la difficoltà di stoccare, utilizzare o distruggere l’enorme quantità di detriti.
All’arrivo, la velocità di carico e scarico è essenziale: i limoni devono raggiunger in gran fretta il mercato, mentre migliaia di altri contenitori si ammassano per il ricarico lungo banchine sempre più grandi. Da diversi anni, i ritmi di lavoro hanno nuovamente alzato il numero di incidenti. Migliaia di vagoni ferroviari e soprattutto di camion percorrono le vie di comunicazione per consegnare rapidamente le merci, il che rende necessario moltiplicare binari e autostrade.
Finalmente, i limoni arrivano sulla nostra tavola. Ma in Italia non produciamo i limoni più saporiti e famosi? Era davvero necessario mettere il mondo a ferro e fuoco per consumare agrumi provenienti dagli antipodi, il cui unico merito è di costare qualche centesimo in meno di quelli nostrani? É davvero la ragione economica l’unico criterio esistenziale, oppure ha senso conservare le specificità produttive di ogni paese, che sono anche potenti elementi di identità e cultura materiale?
Pensiamo al paesaggio agricolo pazientemente realizzato nei secoli, ai saperi antichi che oggi chiameremmo multidisciplinari, alla vita concreta di ogni popolazione. L’Africa, fino agli anni 60, era povera ma non conosceva la fame. Adesso, con l’imposizione delle monocolture sotto il ricatto del debito di organismi come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, dilagano povertà ed emigrazione, mentre pochi si arricchiscono e si disperde la sapienza antica delle popolazioni. La miseria è la peggiore consigliera, per cui gli stessi colossi del mare che hanno trasferito in Occidente limoni e manufatti, esportano nei paesi poveri i rifiuti tossici della civiltà dei consumi.
Le industrie che si fregavano le mani, all’inizio degli anni Duemila, per la possibilità di abbattere il costo del lavoro spostando le produzione, oggi sono in crisi perché i manifattori in conto terzi di ieri, a cui avevano consegnato macchinari e affidato know-how, hanno imparato rapidamente la lezione e adesso producono autonomamente. Quanta miopia nel globalismo alla Ricardo, che funziona solo in una dimensione imperiale – la Compagnia delle Indie ieri, i giganti multinazionali di oggi – concentra la ricchezza verso l’alto e rende impotenti nazioni intere, private delle conoscenze e dei mezzi per tornare a un’economia a dimensione umana.
La terapia per le varie crisi – che sono in verità momenti in cui il sistema si libera delle sue scorie a spese dei popoli – è, invariabilmente, l’assunzione in dosi più massicce dei veleni di cui abbiamo già sperimentato gli effetti. Il globalismo è l’enfatizzazione dell’assenza di limiti, così come, al contrario, un’economia legata ai veri bisogni umani, alla natura, ai suoi ritmi e alle sue possibilità di riprodurre risorse, è educazione al limite, alla custodia anziché al saccheggio del creato.
Un esempio sono le cosiddette “terre rare”, i minerali da cui sono ricavati i materiali indispensabili al funzionamento delle tecnologie informatiche, telefoniche e di telecomunicazione, senza le quali la globalizzazione si ferma. Mentre chi estrae certi minerali in condizioni drammatiche muore in Africa e altrove, e la Cina assume una posizione pressoché monopolistica nella lavorazione, ogni giorno noi gettiamo via telefoni e computer inondando casa nostra di altri rifiuti pericolosi (radiazioni, residui tossici e non solo). Produci, consuma e crepa, letteralmente. Dobbiamo per questo tornare ai carri trainati dai buoi, comunicare con segnali di fumo o legando messaggi alle zampine dei colombi? Evidentemente no, ma la globalizzazione è lo stadio terminale di un atteggiamento “proprietario” verso la natura e l’uomo stesso.
La ragione economica come movente unico dell’agire umano non solo è clamorosamente falsa, ma ha già determinato disastri enormi, guerre, sfruttamento dell’uomo sull’uomo, indifferenza verso gli esseri viventi e la Terra, casa comune. Per calcoli errati di politica industriale, l’Unione Sovietica – capitalismo di Stato – ha praticamente prosciugato il lago di Aral, il secondo più grande del mondo. Oltre al disastro ambientale, ha distrutto l’economia e la storia di una regione grande come l’Italia settentrionale. La deforestazione selvaggia di vaste aree degli Stati Uniti dalla seconda metà dell’Ottocento fece diventare terre fertilissime “bad lands”, terre cattive dalle quali era scomparso l’humus nutritivo, steppe spazzate dai cicloni e dalle tempeste di vento che prima non le raggiungevano. Milioni di famiglie finirono in povertà e dovettero affrontare l’emigrazione: è il racconto di John Steinbeck nel romanzo Furore, portato sul grande schermo da John Ford.
Tutto ciò dimostra che la globalizzazione senza limiti, la cieca imposizione dell’accrescimento economico (di pochi) a danno di tutti gli altri, non funziona a medio e lungo termine. I benefici economici di breve periodo non compensano i sacrifici e i costi umani, sociali e di civiltà. Chi scrive ricorda un aneddoto della sua carriera di funzionario doganale: una mattina ricevette una telefonata allarmata dall’ISTAT di Roma, convinta che le statistiche economiche fossero state falsate. Risultava infatti un’esportazione da 500 milioni di euro, quasi mille miliardi delle vecchie lire. Nessun errore: si trattava della bolletta riepilogativa della costruzione di una enorme nave da crociera. Gli statistici, tuttavia, non avevano torto: gran parte di quell’enorme somma non era andata al cantiere e ai fornitori nazionali, ma a appaltatori e subappaltori provenienti dal mondo intero a cui era stato esternalizzato gran parte del lavoro. Chi ha frequentato o visitato i cantieri navali e quelli delle grandi opere sa di che cosa parliamo, con tutto ciò che consegue in termini di perdita di competenze e specializzazioni nazionali, sicurezza e qualità.
Quanti viaggi, quanti passeggeri occorrono per ammortizzare un costo tanto grande? Per quanto tempo le macchine devono correre al massimo e l’apparato pubblicitario deve convincere milioni di persone a “consumare” crociere, ammazzando nel frattempo il turismo di prossimità? La ruota gira vorticosa: cantieri sempre più grandi, tempi e ritmi di produzione ristretti, altro petrolio e altro gas sversato e bruciato. Il GPL, gas di petrolio liquefatto, viaggia in gran parte attraverso tubazioni, ma il suo trasporto marittimo obbliga alla liquefazione del prodotto a oltre centonovanta gradi sotto zero, al trasporto in cisterne costosissime per la coibentazione e gli immensi apparati di conservazione della temperatura. Sulla banchina d’arrivo, ci deve essere un impianto di rigassificazione.
Maurizio Pallante introdusse la distinzione tra beni e merci. I primi sono tutto ciò che davvero serve alla vita; alcuni sono immateriali, come la convivialità, la comunità, la cultura, oltre naturalmente al cibo, l’acqua e l’aria. Le seconde rappresentano ciò che può essere compravenduto. La differenza è evidente: non a tutto può essere assegnato un prezzo, non tutto può essere oggetto di commercio. Di qui la nozione di “beni comuni”, da sottrarre agli appetiti privati. La globalizzazione reale si è appropriata della salute (Big Pharma e le lotte vergognose per farmaci e vaccini) e di beni come le risorse idriche e le reti di comunicazione. Un sistema composto di enormi cartelli privati non solo domina il mercato, ma si sottrae facilmente al pagamento delle imposte. La caratteristica della tassazione è la territorialità, ma il sistema si è fatto sfuggente, extraterritoriale, virtuale o reale secondo convenienza.
Attraverso meccanismi come quelli di trattati come il TTIP, per ora accantonato, ma che ritorna sotto le mentite spoglie di un analogo accordo con il Canada, il globalismo istituisce perfino tribunali privati, il cui scopo è sterilizzare il residuo potere degli Stati, trascinati sul banco degli imputati con durissime pene pecuniarie e gravi rappresaglie commerciali. Stalin si chiese beffardamente di quante divisioni militari disponesse il Vaticano per imporre i suoi punti di vista. Il globalismo ha armi di dissuasione finanziaria ed economica potentissime, ma, alla peggio, può contare anche sulla forza delle armi. I mondialisti sono apolidi, ma hanno una sede, gli Stati Uniti e un’influenza superiore a quella del governo federale sugli apparati industriali, riservati e militari.
La partita è finita, dunque, irrimediabilmente perduta? Non ancora e non del tutto. Vedremo quali cambiamenti porterà il dopo-Covid, quale sarà il ruolo del gigante cinese, quale impatto geopolitico e antropologico avrà il Grande Reset, che contiene alcuni elementi incompatibili con la globalizzazione sperimentata nell’ultimo ventennio. In più, la competizione mondiale potrebbe cambiare la mappa delle rotte commerciali (la Via della Seta cinese, ma anche la futuribile rotta artica se i russi riuscissero ad abbattere i costi delle navi rompighiaccio che sperimentano). Il globalismo sta subendo gli effetti della pandemia, ma sta anche utilizzando la paura per imporre un’agenda che, in parte, avrà l’effetto di ricentrare e rilocalizzare la vita e l’economia. Episodi come quello di Suez dimostrano che l’ingranaggio ha le sue falle.
Il problema è la “narrazione”. La globalizzazione fa male, rende ricchissimi i ricchi, onnipotenti i forti e inizialmente aiuta alcuni dei più miseri. Colpisce tutti gli altri: negli interessi concreti, nel modo di vivere e di essere, in tutto ciò che è cultura, costumi, principi di ciascun popolo. Ci dicono il contrario: è all’opera un immenso apparato di condizionamento e direzione. Ma dovrebbe essere chiaro che è meglio un limone a chilometro zero di una nave grande come un grattacielo che viaggia veloce per il mondo per portarci i limoni degli antipodi, insieme con prodotti in buona parte inutili destinati a una rapida, programmata, obsolescenza.
Tanto rumore per nulla, se il gigante del mare si incaglia e se un virus cambia le abitudini di una generazione. Forse la corsa del globalismo è più simile di quanto pensiamo alla ruota in cui spreca la vita il criceto in gabbia. Chissà che il moloch globale non abbia più una sana e robusta costituzione e, sia, in fin dei conti, un gracile Golia.
2 commenti su “Il globalismo gracile”
“La partita è finita, dunque, irrimediabilmente perduta? Non ancora e non del tutto. Vedremo quali cambiamenti porterà il dopo-Covid, quale sarà il ruolo del gigante cinese, quale impatto geopolitico e antropologico avrà il Grande Reset, che contiene alcuni elementi incompatibili con la globalizzazione sperimentata nell’ultimo ventennio.” Credo che il Grande Reset sia il ricondizionamento, il riposizionamento del sistema mondialista. La partita non è finita perché il diavolo fa le pentole ma non i coperchi … ma è certo che l’intero ed enorme apparato al servizio del mondialismo sta attuando, ovunque sia in grado di esercitare il proprio potere, una spaventosa azione nei confronti dei popoli, al fine di ridurli a docili agglomerati pseudo-umani.
Descrive una realtà che abbiamo sotto gli occhi e che ci sforziamo di non vedere… per paura!? per ignavia!? Boh! La critica é puntuale e sostenuta da incontrovertibili dati di fatto, chiedere che quest’articolo venga letto alle superiori é utopia ma sarebbe veramente utile.