Mi scrive un amico che la chiesa è diventata per lui come un tormento. Potrebbe essere possibile il contrario quando la siepe di protezione alla Fede è ormai un filo spinato per ferire l’anima perché ogni parola che sentiamo non è offerta ma spinta nello stomaco per poi sfondare la mente e intorbidirla?
D’altra parte sappiamo che ci sono stati momenti dalla storia in cui, a un tratto, è avvenuto qualcosa che ha determinato un cambiamento, una discontinuità che precludeva il tornare indietro.
É successo con la testa mozzata di Luigi XVI e poi con l’eccidio dello Zar: si è voluto coscientemente compiere un gesto che rendesse impossibile tornare indietro.
Così è stato con il colpo di mano che ha distrutto la liturgia, ultimo esperimento del ‘900 in cui l’uomo è stato sostituito a Dio. Siamo tra Scilla e Cariddi: persistere nell’andare avanti (l’idolo del progresso) sfocia nella dispersione e nello smarrimento, voler tornare indietro per ricostituire il passato così com’era è operazione illusoria.
Forse potremmo tentare di camminare… a ritroso verso il Regno dei Cieli, cioè arretrare guardando di fronte a noi con la consapevolezza dei rischi connessi quando ci si pone contro corrente, e oggi ce ne sono tanti …
Tutto questo pensare, però, induce angoscia, inquietudine e spinge a un certo errare; diventeremo cristiani erranti? Per contenere questi sentimenti cerco aiuto nella biblioteca che negli anni ho catalogato nella mia memoria e l’altro giorno, dopo la mail del mio amico, l’occhio è caduto su un antico poema: De Reditu (Il ritorno) scritto nel V sec. d. C. da Rutilio Numaziano (?IV – ?V sec d.C.) (ed. Einaudi 1992), un resoconto in versi del suo ritorno in Gallia, dove era nato.
Passando attraverso le maglie della protezione antipandemica ho richiesto il testo in biblioteca; sono anni che la frequento e non mi ero mai neppure accorto che le porte dell’ingresso erano sempre aperte, figuriamoci del campanello! Un piccolo foglietto lo indicava, non ci avevo mai badato, e, con una certa carica di mistero, dalla porta semi aperta, un braccio mi ha allungato il volumetto.
Ho iniziato a leggere, ma la mente intorpidita rimaneva attorcigliata e un vago senso di noia stava lì come un dito puntato a domandarmi ragione di una scelta del genere; gli occhi scorrevano le parole, e ancora boccheggiavo; d’un tratto un verso mi ferma e seduce: l’oblio dell’affronto cancelli il ricordo di una triste offesa (I, 119). L’offesa che evoca Rutilio è il sacco di Roma del 410 d.C.; fin dall’inizio il mio intuito mi stava guidando fin qui?
Quando Alarico prese Roma, Rutilio era a Ravenna con la corte; come tutti fu colpito da questa iniuria. Sarà questa una delle ragioni che lo spingeranno cinque o sei anni dopo a decidere il viaggio in Gallia? Cercare un luogo dove poter continuare a vivere la romanitas, sebbene distante e senza escludere la possibilità di un possibile ritorno?
Molti non avevano forse già cercato rifugio sull’Isola del Giglio (I, 330-335)?
Una ferita, si sa, rimane tale, anche se cicatrizzata, figuriamoci quando è costantemente sollecitata come sperimentiamo noi nei confronti della Fede, a sua volta offesa ogni giorno, da parte di chi dovrebbe preservarla davanti a tutti. È difficile vivere in un regime d’impostura dove si sostituisce alla realtà la propria idea, portando alla rovina la realtà e quindi gli uomini. Puoi mai diventare giusto affidarsi all’oblio dell’affronto?
A questo punto decido di riprendere il testo da capo, per meglio capire … questo è il viaggio di Rutilio, ma forse anche il mio.
Molti baci posiamo sulle porte della città,/lasciandola e controvoglia, /…/ Ne chiediamo perdono con lacrime (I, 43-45).
Rutilio pensa a Roma accolta fra le celesti volte stellate (I, 48), ma io penso alla chiesa che mi ha accolto, mi ha illuminato e, ora, è in mano ai barbari e mi sembra che Rutilio descriva il mio stato d’animo quando, rivolgendosi a Roma nell’ultimo addio, osserva che qualunque cosa gli possa succedere sarà fortunato e felice al di là di ogni altro desiderio se ritterrai (Roma) per sempre di ricordarti di me.(I, 163-4). L’autore racconta di sé, ma qualcosa dentro di me si (com)muove…
Quando Roma cadde nelle mani di Alarico, lo sconcerto fu enorme; san Girolamo, che Roma la conosceva bene e l’aveva dovuta lasciare, perché scornato, si chiedeva poco prima del famoso sacco del 410 “se Roma perisce, chi mai si salverà?” E, quando venne sapere della sua caduta, scrisse in una lettera (n° 126) di essere piombato per lungo tempo in silenzio, perché in quei momenti c’era spazio solo per le lacrime.
Non a caso san Girolamo (lettera n° 127) e lo storico greco Olimpiodoro (frammenti 3-4) scrissero che in quell’assedio di Roma gli abitanti furono ridotti a mangiarsi l’un l’altro.
E quante forme di antropofagia abbiamo visto nell’ultimo secolo?
Cosa si può fare quando Alarico è a Roma? Roma non è caduta a causa di Alarico, si è svuotata dall’interno fino a quando l’Alarico di turno se ne è impadronita. Nel suo poema Rutilio tesse le lodi di Roma, con pochi tratti ne ricorda la grandezza, la forza dei suoi ideali, ma non si sottrae al presente.
Non si può che congetturare sul motivo della sua partenza frettolosa, visto, però, il legame profondo con la romanità di cui sono testimoni i versi che occupano il primo libro del poema, la sua sembra una fuga e la patria lontana, la Gallia in quel momento abbastanza pacificata, sembra l’unico posto possibile per continuare a vivere gli ideali (culturali) di Roma: scappo dal luogo, dove sto cercando di andare!
Come spiegare diversamente il fatto che sceglie di intraprendere un viaggio per mare in una stagione, l’autunno, allora non favorevole agli spostamenti, ma i tempi erano quelli che erano e viaggiare per terra esponeva a pericoli giudicati più seri di quelli che un tempo inclemente poteva riservare.
Il ritorno (De Reditu) è una scelta per eccellenza nella civiltà occidentale; si potrebbe dire che il viaggio di ritorno sia alla radice della nostra cultura. I versi pervenuti del De Reditu tratteggiano solo il percorso tra Civitavecchia e Pisa con molte tappe che hanno in filigrana lo stesso andamento dei viaggi di Ulisse ed Enea.
Così come la presa di Roma già richiama alla mente la caduta di Troia. Racconta forse ciò che non può, apertamente, riportare. Un viaggio di ritorno che è anche espressione di forza e di affermazione di sé. Nell’Anabasi, racconto del ritorno in Grecia dell’esercito allo sbaraglio, Senofonte illustra un esempio di reazione alla devastazione: i Greci hanno intrapreso una guerra, ma si trovano in un vicolo cieco che li obbliga a tornare indietro; questo diventa possibile quando qualcuno ormai deprivato di tutto si alza in piedi e, nudo, inizia ad accendere un fuoco e altri si levano per dare una mano (Anabasi, IV, 4,12).
Ritornare non è anche sinonimo di convertire/cambiare il cammino intrapreso che a nulla porta se non alla distruzione? Tentare una soluzione per un bene che appare perduto?
Bisogna mettere in conto dei rischi, ovvero delle tentazioni, la più subdola è, come si accennava, la malinconia del passato. Si tende a conservare il bene perduto fermo nel tempo e questo lo rende ingombrante e paralizzante, perché la malinconia ci seduce al punto di illuderci con il miraggio di ‘ricostruire il passato’.
Il passato non è un bene in sé. Rutilio è fuggito dal caos di Roma con la speranza di poter conservare, almeno nella sua terra nativa, il ‘cosmo’ rappresentato dalla civiltà romana e che Rutilio con poche parole dipinge in modo estremamente efficace: hai fatto (Roma) di genti diverse una sola patria (I, 62).
Siamo entrati anche noi nel medesimo caos; dopo ciò che è ‘accaduto’ con il concilio occorre partire per ricostruire il tempio, voi siete il tempio del Dio vivente, ricordava san Paolo (1Cor 3,16): costruire un luogo dove abitare dopo l’accaduto.
Noi dobbiamo tornare alla Fede! Questo non è possibile sottraendosi, o retrocedendo nella nostalgia di un tempo e in simboli che sono scomparsi per sempre, ma occorre avanzare con fermezza.
Tre secoli dopo la caduta di Roma un grande cristiano, il Venerabile Beda, nel sermone 70 per la festa di Tutti i Santi affermava: la Chiesa cattolica sparsa in lungo e in largo per tutto il mondo, formata nel suo stesso capo Gesù Cristo, si è fortificata sempre di più, non col resistere ma col sopportare (non resistendo sed persistendo).
Se resistiamo, infatti, non facciamo che il gioco di chi dall’interno sta distruggendo la chiesa, gli consegniamo, in qualche modo, la nostra forza, rischiamo la nostra identificazione.
Quando la pressione si fa più intensa e la nostra Fede sembra essere spazzata via, sarà la capacità di tollerare a fare la differenza se saremo in grado di sopportare avendo cura di coltivare il silenzio e la quiete dentro di noi, come nella Passione di Gesù.
Dobbiamo misurarci con una cruda e crudele realtà: un tempo i papi vendevano privilegi e indulgenze oggi, sempre per lo stesso desiderio di potere, svendono pezzi di dottrina e buon senso.
A noi tocca scegliere se decidere di essere i custodi della parte più piccola e disprezzata (ma temuta) compendiata dalla liturgia antica. Custodire quel poco che però è anche uno straordinario simbolo di speranza, nel momento più buio della Chiesa, anche se il futuro non ci vedrà come protagonisti.
Il testo di Rutilio è mutilo, ma molti codici l’hanno trasmesso e ciò è la prova che il suo viaggio giunse a compimento e che, in qualche modo, sopravvisse alla necessità di lasciare Roma e riuscì, senza averlo preventivato, a lanciare un messaggio attraverso i secoli, a trasmetterci un ultimo lembo di quella civiltà.
È trascorso un po’ di tempo da quando ho terminato il libro; quel giorno l’intorpidimento si sciolse senza trasformarsi, come temevo, in accidia…
I tempi, però, sono quelli che sono e sempre ricerco il luogo segreto per piangere con Cristo, lontano, tollerando che quasi sempre il senso profondo della nostra vita ci sfugge, come un vapore in una grotta. Ogni epoca ha il suo Alarico.
Circa un secolo dopo Rutilio un altro romano decise di abbandonare Roma, un cristiano da una Roma intenta a farsi sempre più cristiana; cercava un luogo nascosto, lontano da tutto; mi riferisco a Benedetto da Norcia che appena mise piede a Roma … ne fuggì!
San Gregorio Magno, che ne tramanda la vita, mi sarà buona compagnia.
2 commenti su “A ritroso verso il Regno dei Cieli”
Cosa dire? Mi sono accorto che la commozione e una lacrima avevano anticipato quelle dello scrivente!
Sono molti i punti che mi colpiscono in questa lettura di corpose riflessioni che in fondo, pur nella mia estrema povertà di pensiero, sento molto vicine alle mie; e anzi, con lieta meraviglia, trovo qui fiorite in magnifiche espressioni. Tuttavia, quell’invito a “costruire un luogo dove abitare dopo l’accaduto” è uno sforzo in più che bisogna affrontare, quasi una ulteriore sofferenza dell’anima già così travagliata da tutto lo stravolgimento in corso, così cresciuta com’era nella sua prima età, fra sicure e rassicuranti certezze che mai, all’epoca, si potevano immaginare in pericolo. Ai semplici come me suggerirei di rinvenire questo luogo nel Cuore Immacolato di Maria, l’unico in cui si possa trovare speranza di pace, di conforto e di salvezza.