L’arte contemporanea può contare su molti “eventi fondativi”. Il 10 aprile 1917 al Grand Central Palace di New York si aprì una mostra “democratica” (tutti potevano esporre qualsiasi cosa al modico prezzo di sei dollari). Marcel Duchamp, che si definiva “anartista”, dadaista, presunto filosofo, inviò per l’esposizione un orinatoio firmando l’oggetto con lo pseudonimo “R. Mutt 1917”. Anche se alcuni critici d’arte siano propensi a credere che la trovata non fosse di Duchamp, ma di una presunta baronessa tedesca, Elsa von Freytag-Loringhoven, spiritata musa dell’avanguardia nuovayorkese, poetessa bisessuale, artista dadaista, l’idea dell’esposizione dell’oggetto è sempre stata attribuita a Duchamp. Da notare che in argot francese il titolo dell’opera, “Fontaine”, (che comunque non venne esposta), richiama apertamente il sesso femminile. L’idea di Duchamp era che un qualsiasi oggetto scelto da un artista ed esposto in una mostra potesse diventare un’opera d’arte, anche perché riteneva che l’arte fosse indefinibile. Il critico d’arte Angelo Crespi, in un suo puntuto pamphlet: 100 anni di arte immonda. Dall’orinatoio di Duchamp alla merda di Manzoni: come il politically correct ci obbliga ad adorare il brutto, così chiarisce: “Duchamp voleva sbarazzarsi dall’arte della tradizione, da anni rimuginava su come lasciarsi alle spalle due millenni di storia, lucidamente rifletteva su come azzerare il desiderio di bellezza e senso che alberga in ogni uomo.” Certo, è significativo che l’arte contemporanea abbia un orinatoio – oggetto-evento, provocazione intellettuale – come icona della sua fondazione.
La creazione di questa nuova corrente d’arte “latrinesca” ci ha lasciato una serie di ispirati imitatori, eredi, continuatori. Il primo tra questi è un italiano (e ciò ci riempie ovviamente d’orgoglio nazionalista): Piero Manzoni, artista New Dada, creatore della “Merda d’artista”, che così ci ha sobriamente descritto l’epocale evento artistico: “Nel mese di maggio del ’61 ho prodotto e inscatolato 90 scatole di “Merda d’artista” (gr. 30 ciascuna) conservata al naturale (made in Italy)”. Il genio sta nel aver portato alle estreme ma logiche conseguenze l’idea di Duchamp: se è l’artista a determinare cosa è arte, allora tutto ciò che è prodotto da un artista, anche la sua merda, è arte. E arte costosa: in un’asta del 2016, la scatoletta n. 69 ha raggiunto il prezzo di 220mila euri. D’altro canto, vi sono altri esempi ci insegnano che quest’arte stercoraria può essere preziosissima, come il water d’oro progettato per il Guggenheim di New York da Cattellan. Sì proprio lui, quello dei manichini dei bambini impiccati o l’orrido dito medio davanti alla Borsa di Milano. L’artista belga Wim Delvoye ha proposto al museo Pecci di Prato una “macchina per produrre escrementi”, la “Turbo Cloaca”. Il direttore del museo, tale Daniel Soutif, la esaltava come “una grande metafora”, “una forma di riflessione profonda sull’umanità di oggi”. Testuale: “una riflessione profonda”. Colpisce anche il fatto che questo artista, sensibile alla diffusione dell’arte anche nei ceti medi, abbia progettato un simile marchingegno in formato casalingo, una “Mini Cloaca”, installazione che ogni famiglia borghese può esporre in salotto.
Abbiate pazienza, ma la puzzolente lista, che ricaviamo dal citato e meritorio pamphlet di Crespi, non è finita. Tale Paul McCarthy (nulla a che vedere con Beatles), artista americano (“La sua arte è al servizio di una critica impietosa del sistema dei valori dominanti nel mondo occidentale”, scrive seriosamente di lui un critico) ha esposto alla Biennale di scultura di Carrara una enorme Cagata (è la definizione ufficiale dell’opera) in travertino pesante quindici tonnellate, “per combattere il capitalismo”. Nel 2013 costui realizzava a Hong Kong una serie di oggetti analoghi in plastica gonfiabile. Il cinese Zhu Cheng ha plasmato una copia della Venere di Milo in escrementi di panda, venduta a 50 mila euri a un ignoto collezionista probabilmente insensibile agli odori. Andres Serrano, la canaglia che aveva esposto un crocifisso immerso nell’urina, esibiva in una mostra una serie di fotografie rappresentanti vari escrementi di animali, mentre tale Mike Buchet ha esposto 80mila chilogrammi di feci umane in blocchi marroni ben squadrati. Dobbiamo certamente apprezzare il titanico sforzo di raccolta del materiale grezzo e della sua lavorazione. Chiudiamo con il solito Cattelan, che titolò “Shit and die” una sua mostra a Torino. L’ultima, concedetemela: un imprenditore ha inaugurato nel 2015 a Castelbosco nel piacentino un “Museo della Merda”. Commenta Angelo Crespi: “il Rinascimento ci ha lasciato la Cappella Sistina, noi consegniamo ai posteri in eredità il Museo della merda”.
Ora, questo lungo e (ce ne scusiamo) fastidioso elenco escrementizio che ci descrive una manifestazione di disgustosa bruttezza, non rappresenta purtroppo il fondo dell’abisso dell’arte contemporanea. Ci sono livelli ancora più bassi, come la necrofilia e la blasfemia, di cui non vogliamo parlare.
Scrive Stefano Zecchi: “Mai secolo come il Novecento ha tanto teorizzato il brutto nell’arte, accettando che in un’opera ci potessero essere elementi volgari, inespressivi, dissonanti, negativi. La teorizzazione del brutto nelle forme dell’arte ha portato alla tolleranza del cattivo gusto nei comportamenti quotidiani”. Uno dei più importanti e acuti storici dell’arte del ‘900, Hans Sedlmayr, i cui libri andrebbero ristudiati e ristampati, così accusa l’arte contemporanea in uno dei suoi libri, Perdita del centro: “L’elemento notturno, pauroso, morboso, molle, morto, putrefatto e sfigurato, il tormentato, dilaniato, ottuso, osceno, l’invertito, il meccanico, tutte queste sfumature, attributi e aspetti di ciò che non è umano, s’impadroniscono dell’uomo […]. Essi trasformano l’uomo in un rudere e in un automa, in un lemure e in una larva, in un cadavere e in uno spettro, in una cimice e in un insetto, essi lo dipingono brutale, crudele, abbietto, osceno, mostruoso, meccanico. In diverse correnti della pittura moderna compare l’una o l’altra combinazione di questi tratti antiumani, dove in sostanza dominano, nel cubismo la morte, nell’espressionismo il caos ardente, nel surrealismo la fredda demonia del più profondo gelo infernale”.
E’ certamente nei primi anni del Novecento che si consuma visibilmente il divorzio tra realtà e rappresentazione pittorica e scultorea, tra arte e bellezza, tra visione e significato razionale della produzione artistica. L’arte figurativa rinuncia al reale, alla prospettiva, alle forme razionali e compiute, all’uso comprensibile della rappresentazione e dei colori, per diventare assai spesso irrazionale, repellente, in-significante, in-forme, de-forme, oscura, infera, primitiva, mostruosa.
Ora, perché? Perché siamo arrivati al punto di giustificare come arte queste infamie? Certo espressioni di mostruosità non sono mancate in tempi precedenti come, ad esempio, i demoni-mostriciattoli di Hieronymus Bosch o di Matthias Grünewald, ma avevano una funzione edificante, come le rappresentazioni medioevali delle danze macabre.
Quindi, da quando e per quale causa è avvenuta questa irruzione del brutto, dell’orrido, dell’insignificante nell’arte? Poiché esiste una metafisica della storia, Sedlmayr individua con precisione tempi, cause e “untori” di questa pandemia dell’orrido nell’arte. Siamo nel terribile periodo della Rivoluzione Francese, che fa scorrere fiumi di sangue per tutta Europa: è il periodo del trionfo del teismo, della massoneria, dell’odio anticattolico. In quel periodo “qualcosa” accadde a livello metafisico che si riverberò sul mondo dell’arte: “I “Sogni” di Goya sono stati eseguiti nel 1792, cioè quando la rivoluzione francese raggiunge il suo culmine […]. Siamo nei decenni in cui molti artisti vengono posseduti da forze demoniache […]. Nell’arte, spesso gelida, di J. H. Füssli [autore dell’infero dipinto L’incubo, NdR] sono innegabili gli elementi derivanti da una autentica allucinazione; […] J. Flaxman ha la visione del volto del diavolo. E’ come se nell’uomo si sia aperta una porta verso il mondo degli inferi”. William Blake, pittore, poeta, teosofo, simpatizzante della rivoluzione, ostile a ogni forma di autorità, antireligioso narrò più volte di aver assistito a spaventose apparizioni demoniache. Da meditare anche la considerazione di Dalmazio Frau, studioso, critico e pittore, nel suo testo Crociata contro l’arte: “La Rivoluzione Francese è in realtà una ribellione satanica non soltanto contro la Monarchia e la Chiesa, ma anche contro tutto ciò che è Bellezza”.
Questa demonica azione “artistica” contro la Bellezza, riprende, dopo la parentesi romantica e decadentista, ai primi del Novecento, con l’affermazione rabbiosa della cosiddette “avanguardie”: dadaismo, surrealismo, espressionismo e così via. Di nuovo si manifesta una ben spiegabile saldatura tra “arte” dell’in-forme e del de-forme, sovversione politica e demonismo occultistico, teosofia. Tristan Tzara, fondatore del dadaismo, era comunista, così come i “poeti” surrealisti Louis Aragon e André Breton. I pittori surrealisti, soprattutto tedeschi, erano spesso militanti social-comunisti. Nella produzione surrealista è dominante un caos assoluto proclamato e ricercato. Il Marchese de Sade era un idolo dei surrealisti. Ben noti i casi di Pablo Picasso e di Renato Guttuso, organici al Partito Comunista.
Altrettanto significativa l’adesione di molti di questi artisti a sette esoteriche, occultistiche, talvolta demoniache. Piet Mondrian aderì alla teosofia, come Kandinskij. Breton era dedito all’occultismo, Wright, l’architetto della famosa, o famigerata, “casa sulla cascata”, era stato introdotto agli insegnamenti dell’occultista Gurdjieff. Anche Paul Klee e Wassily Kandinsky furono influenzati dalle ideologie della setta teosofica e occultistica di Helena Blavatsky.
Scrive lo psicologo Roberto Marchesini nel suo libro La rivoluzione nell’arte: “Scopo dell’arte [contemporanea, NdR] è sorprendere, urtare, sconvolgere; negare, rifiutare, ridicolizzare percezioni, valori, schemi attuali, infrangere ogni tabu. Questa è l’essenza della Rivoluzione: la negazione, il superamento di ciò che esiste attualmente; […] la demolizione di ogni valore, ogni pensiero, ogni punto di riferimento; la negazione continua, incessante, inesausta di ogni affermazione. La devastazione demoniaca, dionisiaca, shivaita di ogni cosa. Dell’essere stesso”.
Tiriamo le somme: la bellezza, checché ne pensino superficialmente i contemporanei, non è una questione di “gusto personale”, di “ciò che piace”. La Bellezza è metafisicamente consustanziale al Buono e al Vero. Secondo il tomismo, è un Trascendentale, assieme, appunto, al Buono e al Vero. E’ sempre l’Aquinate a definire le caratteristiche perché qualcosa possa essere definito “bello”: claritas, integritas, debita proportio. La Bellezza deve fondarsi sull’adesione al vero, sull’armonia, l’ordine, la simmetria. C’è una Bellezza che Dio ha iscritto nella Natura, come dimostra la proporzione aurea, il numero aureo (la Divina Proportione del matematico francescano Luca Pacioli) presente nei fiori, nelle conchiglie e in innumerevoli manifestazioni naturali, che ci fa sentire come bello ciò che è ben proporzionato come il Partenone, ciò che è chiaro non tanto in senso cromatico quanto di comprensibile. Il Creato è Bello perché opera di Dio (“Ed Egli vide che ciò era buono” leggiamo nella Genesi). Se fedele, nelle sue invenzioni, alle leggi del Creato, l’uomo può diventare a sua volta “sub-creatore”, come ci ha insegnato J.R.R. Tolkien.
In alcune correnti “artistiche” moderne e contemporanee e in alcuni suoi “prodotti” si intravvede un odio profondo, viscerale, rabbioso, di chiara origine gnostico-infera contro il Creato – in quanto Creato da Dio – contro il reale, l’esistente, tutto ciò che è vitale, organico, ordinato e sovraordinato. Quest’odio si manifesta con la negazione della forma, con una tellurica pulsione a insozzare, a deformare, a rappresentare ed esaltare il brutto, l’orrido, l’osceno, l’ambiguo, il pervertito, l’invertito. E’ il grido delle streghe, rappresentazioni di un Caos primigenio, nel Macbeth di Shakespeare: “Bello è il brutto e brutto è il bello.” E’ una perversione che si allea, in tempi recenti, con quella incarnata dalla sovversione comunista prima e liberal poi. I due fenomeni, quello “artistico” e quello politico, hanno la stessa origine oscura e lo stesso fine: la decostruzione della Civiltà e dell’uomo. Le distruzioni dei monumenti, in USA e in Europa, da parte dei Black Lives Matter, degli Antifà, degli antirazzisti e multiculturalisti carichi d’odio, sono un attacco non solo alla nostra storia civile, ma anche alla Bellezza dei simboli e delle rappresentazioni. E’ la stessa malvagità che impone a molte università anglosassoni di eliminare dai programmi di studio i classici, i filosofi e gli autori europei perché “bianchi” e “colonialisti”, che ha costretto un college inglese a togliere una lapide che recava incisa la famosa poesia di Kipling “If”.
“Il Bello è lo splendore del Vero” ci ammoniva Platone. Se onoriamo, difendiamo, rappresentiamo il Bello contro la perversione, la decostruzione e la sovversione, difendiamo anche la Verità. Per quanto possa apparire strano, compiamo anche un atto politico: l’Ordine contro il Caos, la difesa della polis contro la barbarie, contro il tribalismo, contro l’oscuro signore di Mordor, contro le nere orde di Gog e Magog che oscurano i nostri orizzonti.
2 commenti su “L’arte contemporanea come Cloaca Maxima”
Bellezza e verità vanno di pari passo. L’arte deve contenere la bellezza, l’armonia, la proporzione. Non facciamoci prendere in giro dai falsi artisti, ricerchiamo la bellezza e lasciamo a questi pseudo artisti le loro opere, che se le mettano in casa loro, in bella vista!
Una interpretazione che si avvale di concetti ideologicamente così desueti, non mi pare che faccia procedere di un passo nella comprensione. Solo, ancora una volta, l’immarcescibile reazione di chi ha la verità al guinzaglio