Il “caso Palamara”, conclusosi con la radiazione dalla Magistratura di Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, rappresenta la classica punta d’iceberg della crisi profonda della giustizia italiana.
La vicenda al centro del processo, riguardante la riunione notturna all’hotel Champagne del 9 maggio del 2019, nella quale, secondo l’accusa, Palamara, cinque consiglieri del Consiglio Superiore della Magistratura (tutti dimessi e ora a processo disciplinare) e i politici Luca Lotti e Cosimo Ferri discussero le strategie sulle future nomine ai vertici delle procure, è infatti l’atto finale, ma certamente non conclusivo, di un processo degenerativo che ha cause complesse e di vecchia data.
Al di là delle facili polemiche politiche e giornalistiche, la questione va vista ed affrontata partendo soprattutto dal corpo vivo della Magistratura e del suo governo autonomo. Giunge a proposito, in tale ottica, il volume “In vece del popolo italiano – Percorsi per affrontare la crisi della magistratura”, curato da Alfredo Mantovano (Edizioni Cantagalli, pagg. 102, Euro 13,00) consigliere della Corte di Cassazione, che raccoglie gli atti del quinto convegno nazionale del “Centro Studi Rosario Livatino”, tenutosi a Roma il 29 novembre 2019.
La vicenda di Palamara fa da sfondo ai diversi contributi, senza però condizionarne il valore “scientifico” e ricostruttivo, ma anche senza ignorare ipocritamente – nota Mantovano – “ciò che tutti sanno, e sapevano, in termini di attribuzione dei posti direttivi, di gestione della formazione, di giudizio disciplinare, di peso delle correnti, di straripamento della giurisdizione in ambiti non propri”.
Il valore di “In vece del popolo italiano” è di offrire un’analisi a tutto tondo della crisi della Magistratura, attraverso una serie di interventi qualificati, che ne fissano i punti nodali.
Mauro Ronco, Professore emerito di Diritto penale all’Università di Padova, svolge un esame diacronico relativo all’interpretazione evolutiva che hanno subìto le numerose disposizioni costituzionali concernenti la magistratura, individuando tra i fattori di criticità: la politicizzazione della giustizia, quale effetto della scelta marxista di una parte non irrilevante della magistratura italiana (“Essa – nota Ronco – individuava nel giudice l’agente sociale, che, avvalendosi della discrezionalità interpretativa, avrebbe dovuto perseguire tramite la giurisdizione un modello alternativo di Stato”); il cambiamento del quadro costituzionale, iniziato con Maastricht; il collasso della legalità, per la progressiva perdita di significato dell’art. 101 della Costituzione (“I giudici sono soggetti soltanto alla legge”) con il rovesciamento dei rapporti di potere tra la classe dei politici e la classe dei giudici; una diversa caratterizzazione professionale delle due funzioni magistratuali (inquirenti e giudicanti).
Gian Carlo Blangiardo, Presidente dell’ISTAT, offre un’ampia analisi dei dati statistici disponibili sulla Magistratura italiana, con una significativa sottolineatura in merito al sistema giudiziario visto dai cittadini (nel 2018 la fiducia espressa dai cittadini italiani nei confronti del sistema giudiziario, misurata secondo una scala da 0 a 10, è risultata essere mediamente pari a 4,4: in aumento rispetto al 2017 (quando era pari a 4,1), ma in calo rispetto al valore di 4,6 rilevato nel 2011), posizionando l’Italia tra i Paesi in cui l’indipendenza della giustizia è considerata piuttosto negativa.
Carlo Guarnieri, Docente di Sistemi giudiziari comparati presso l’Università di Bologna, analizza la realtà organizzativa della magistratura, giungendo alla conclusione che “l’attuale assetto della nostra magistratura non sembra garantire la qualità delle capacità professionali dei suoi componenti. Anzi, proprio la debolezza delle valutazioni di professionalità lascia ampio spazio a pressioni di vario tipo, specie nel processo di nomina alle posizioni di maggiore rilievo. Il dilatarsi poi dei margini di discrezionalità interpretativa rende sempre più illusoria la “soggezione” del giudice alle norme del sistema giuridico”.
Domenico Airoma, Procuratore della Repubblica aggiunto del Tribunale di Napoli Nord, svolge un’analisi inquietante sul sistema correntizio, a partire, nel 1964, dalla nascita di Magistratura democratica, finalizzata – si poteva leggere nei suoi orientamenti programmatici – “ad aprire e legittimare a livello legale (…) nuovi e più ampi spazi di lotte delle masse in vista di nuovi ed alternativi assetti di potere”, fino ad arrivare ad assumere, con la stagione di Tangentopoli, un ruolo preponderante rispetto al sistema politico, al punto da fare sentire investito il sistema giudiziario della missione di giudicare la politica stessa e non solo gli atti dei politici, se di rilievo penale. “Significativo di questo radicale mutamento di prospettiva – nota Guarnieri – è il rapporto intercorrente fra magistratura e Partito Comunista Italiano. Con l’esplosione di Tangentopoli, il Partito Comunista individua nella magistratura lo strumento più incisivo per portare a compimento quel lungo processo di conquista del potere formale, spazzando via quel che rimaneva della cosiddetta prima Repubblica. Tuttavia, è lo stesso P.C.I. che dovrà fare, di lì a poco, i conti con la meccanica del processo innescato”.
Sulla strada delle “riforme necessarie e possibili” Mantovano, a sintesi delle diverse analisi, arriva a formulare quattro proposte: la separazione delle carriere dei giudici e dei pm; il trasferimento del giudizio disciplinare “a una corte disciplinare terza, non elettiva”, magari composta da ex presidenti di Cassazione e giudici costituzionali; la revisione del concorso per entrare in magistratura; la selezione con criteri “manageriali” dei capi degli uffici.
Si tratta di interventi di “buon senso” e a costo zero per il bilancio dell’amministrazione pubblica che richiedono tuttavia un’azione legislativa e quindi politica, difficilmente realizzabile – a ben guardare – laddove tale azione deve fare i conti con quel rovesciamento dei rapporti di potere tra la classe dei politici e la classe dei giudici che ha contrassegnato l’ultimo trentennio della Storia italiana e che sta alla base della crisi della giustizia.
L’auspicio è che intorno ad iniziative quali quelle promosse dal Centro Studi Rosario Livatino cresca, dentro e fuori la magistratura, un vasto movimento d’opinione in grado di favorire l’auspicata riforma ed una più vasta presa di coscienza sul ruolo del giudice. Quello stesso ruolo che Papa Francesco si è sentito in dovere di stigmatizzare nel discorso ai membri del Centro studi e che è riportato in chiusura di “In vece del popolo italiano”, parlando della tendenza allo “sconfinamento del giudice in ambiti non propri, soprattutto nelle materie dei cosiddetti ‘nuovi diritti’, con sentenze che sembrano preoccupate di esaudire desideri sempre nuovi, disancorati da ogni limite oggettivo”.
1 commento su “Oltre la crisi: idee per riformare la Magistratura”
Riformare lo Stato spetta ai politici in modo politico! Punto e basta!
Unica soluzione: Presidenzialismo francese. E basta con questi cattolici delle decisioni condivise! Significa solo zero responsabilità e mai nessuno che paghi per i propri errori.
Occorre una struttura decisionale, che scontenti, non che spartisca le fette!