“Nomen omen” – dicevano gli antichi: il nome è un presagio ed un destino. Vale per gli uomini. Vale anche per gli aggregati politici e per le scuole di pensiero. Il nome ed i simboli sono – passateci il gergo “commerciale” – come il “brand”, il segno distintivo di un’azienda, sintesi d’immagine (il logo), di comunicazione (lo slogan), di Storia e di reputazione. Anche i partiti politici non possono farne a meno. I simboli ed i valori che ad essi sottendono rappresentano una sintesi di storie e di idee/programmi, di aspettative e di identità, in grado di dare forma alle comunità che vi si riconoscono.
Per Samuel Coleridge, uno dei padri del romanticismo inglese “un simbolo … partecipa sempre della Realtà che rende intelligibile; e mentre la enuncia nella sua completezza si afferma come parte vivente di quella Unità che rappresenta”. Il “nomen” gioca – con il simbolo – un ruolo fondamentale. Per questo deve essere utilizzato con attenzione, soppesato per ciò che rappresenta e per come viene recepito. Lascia perciò perplessi l’idea, lanciata, su “il Giornale”, al centrodestra da Marco Gervasoni, di dirsi “conservatori” (“Oltre liberali e sovranisti: diciamoci conservatori”).
Gervasoni è un attento studioso dell’arcipelago populista e sovranista (suo il saggio “La rivoluzione sovranista”, edito da Giubilei Regnani nel 2019). É parte in causa di una riflessione in progress, a cui continua a dare contributi significativi e spunti provocatori. L’idea di “revisionare” la formula sovranista, che ha caratterizzato parte dell’ultima stagione, provoca qualche dubbio, laddove la prospettiva appare un ritorno alla tradizione conservatrice, quale sintesi di libertà e di radici, di moderazione e di appartenenza. Sia chiaro: la premessa di Gervasoni è giusta laddove egli evidenzia come, a causa della pandemia, tutto non sarà più come prima, anche in ragione della violazione delle libertà individuali a cui l’emergenza ci ha sottoposti (il riferimento è a quanto ha scritto Paolo Becchi) e dell’emergere di un iper statalismo di tipo nuovo (così come denunciato da Marcello Pera). “Mentre la sinistra nel mondo – scrive Gervasoni – si identifica con il partito del lockdown, quasi compimento ideologico di un percorso secolare, i moderati e le destre non possono limitarsi a una posizione semplicemente liberale e libertaria, di sola, giusta, contestazione degli esperimenti autoritari in corso”.
Ciò che stona è riconoscere alla “tradizione conservatrice” un’attualità ideale e simbolica che francamente non appare adeguata ad affrontare le sfide in corso e quelle che verranno. A cominciare dal valore suggestivo e “mobilitante” del conservatorismo, che ha una nobile e ricca storia intellettuale, ma che appare ben poco capace di attrarre le opinioni pubbliche, di creare consensi, di motivare programmi ed azioni.
La battuta più facile e scontata è infatti quella di dire che, oggi, in Italia c’è ben poco da conservare. Lo abbiamo visto proprio in occasione dell’emergenza sanitaria, la quale ha reso palesi i ritardi cronici del nostro sistema-Paese, non solo a livello infrastrutturale quanto soprattutto nella capacità di gestione dei territori, delle risorse, delle competenze.
C’è indubbiamente da ricostruire i principi, i valori condivisi, le forme comunitarie, dopo anni di individualismo assecondato anche da un centrodestra a trazione liberale. Ma c’è anche, in ambito sociale e politico, da puntare su nuovi modelli partecipativi, su politiche inclusive (in grado di affrontare la povertà dilagante), sulle famiglie e sull’aiuto ai minori. E ancora da affrontare sono le questioni della mobilità sociale, della legalità (a cominciare da quella contrattuale) e della modernizzazione nazionale. Con quali strumenti? Negando qualsiasi intervento pubblico o piuttosto guardando ad ipotesi “planiste” (di programmazione) da anni accantonate? C’è spazio idealmente e programmaticamente per un sovranismo laburista, in grado di scompaginare vecchi schematismi ideologici, creando le condizioni per realizzare nuove, suggestive sintesi?
Più che cercare sigle e vantare storiche appartenenze è urgente guardare alle idee guida e ai programmi. E poi, di conseguenza, alla selezione delle classi dirigenti. Per tutto questo ci vuole una nuova volontà politica, in grado di misurarsi senza falsi moderatismi. Magari guardando più che alla tradizione conservatrice alle effervescenze di un nuovo futurismo, suggestivo e capace di sfidare il domani, a partire dall’oggi.