La via per sottrarsi all’orrore transumano è quella del pellegrino, che trova la sua forma perfetta nei Racconti divenuti tesoro del cristianesimo orientale e occidentale. Una scelta che ha contraddistinto maestri come Cristina Campo, Giovannino Guareschi, Domenico Giuliotti e Giovanni Papini
Due mani candide aprono il libro poggiato sulle ginocchia, la lampada accanto alla scrivania riflette una luce fredda, fioca e gli occhi iniziano a muoversi lentamente scorrendo la prima pagina “Per grazia di Dio sono uomo e cristiano, per azioni grande peccatore, per vocazione pellegrino della specie più misera, errante di luogo in luogo. I miei beni terrestri sono una bisaccia sul dorso con un po’ di pan secco e, nella tasca interna del camiciotto, la Sacra Bibbia. Null’altro”.
Così Cristina Campo si accingeva a leggere I racconti di un pellegrino russo, uno dei capolavori della letteratura cristiana, sul quale, anni più tardi, avrebbe scritto parole cariche di una profondità densa, frutto di un riflessione spirituale in grado di coglierne la verità ultima. La bellezza di questo racconto, o meglio di questa fiaba, ci dice la Campo, sta tutta in una peculiarità straordinaria, quella di mostrarsi senza maschera, “cioè quello che tutte le grandi fiabe sono copertamente: una ricerca del Regno dei Cieli, l’inseguimento di una visione ignota e inesplicabile”.
I racconti di un pellegrino russo non sono allora neppure semplicemente una fiaba, ma la più vera e la più sincera di esse. E il suo eroe, il pellegrino, è il migliore tra i protagonisti, il più coraggioso, non solo perché si mostra senza veli al lettore, dedicando la sua intera esistenza alla preghiera incessante, in un costante anelito verso Dio, ma soprattutto perché, in un impeto dettato dall’amore divino, dalla Grazia, “diserta di colpo la terra amata e ogni bene” e libero di tutto, parte con la sua bisaccia, facendosi mendico, un beato folle dal cuore in fiamme del quale il mondo intero si fa beffe e che il mondo “che è dietro quello vero” soccorre e guida con meravigliosi segni e portenti”.
E ancora non basta, perché quello del pellegrino russo, che sembrerebbe un movimento tutto esterno, è in realtà qualcosa di molto diverso, opposto a quello insegnato dalla mistica occidentale. Il nostro mendico non esce da sé per gettarsi in Dio, “ma si potrebbe parlare di un doppio e simultaneo movimento dello spirito che si ritrae cercando Dio nella segreta stanza del cuore e trova in quel centro l’infinito nel quale lanciarsi”.
Ecco allora quale è il cuore dei Racconti, l’avventura di un’anima che rende colui che la compie un beato folle dal cuore in fiamme disprezzato dal mondo. E Cristina Campo, parlandoci del pellegrino ci parla del cristiano, di colui cioè che ha trovato la strada per vivere integralmente da uomo. Il pellegrino lascia ogni cosa e abbandonata la zavorra del mondo si dedica a Dio, Dio soltanto. E i Racconti, che a una prima lettura paiono l’iperbole della vita cristiana, si riflettono per ciò che sono veramente: l’unica via possibile.
Il pellegrino respira al ritmo di Dio
L’uomo è veramente tale e riscopre la sua essenza quando cerca Dio, quando si fa pellegrino per guarirsi dall’essere un esiliato, come ci dice Chesterton, perché solo così si dimostra in grado di lasciare il peso di questo mondo ritornando libero e riuscendo ad assistere e a vivere quei prodigi di cui prima la vista gli era annebbiata.
Essere un vero uomo significa dunque essere in stato di Grazia, direbbero i più rigorosi. Sì, è vero, eppure al vero pellegrino non basta ancora, perché a lui che senza averlo deciso sente nel cuore la necessità impellente di continuare a camminare senza fermarsi, non riesce di farlo seguendo un gruppo. In qualsiasi epoca e in qualsiasi situazione sociale egli si trovi a vivere, il suo cammino è per lo più solitario e quasi mai lineare. Solo e isolato, lontano da tutti, si sente finalmente in grado di respirare.
Il pellegrino è un irriducibile, l’uomo, vero uomo, in cerca del Dio, vero Dio, non si accontenta, non si ferma, sa che non andrà in Paradiso in comitiva e stacca il gruppo per esplorare più avanti, per salire un altro po’ e vedere ciò che gli altri non riescono ancora a scorgere. Un uomo eccezionale, diremmo, eppure è ciò che ognuno è chiamato a fare in questa vita, cercare la prossima. Non esistono altre possibilità per il cristiano se non quella di prendere la bisaccia e partire, come molti prima di noi hanno fatto e da cui ancora oggi possiamo prendere esempio.
Straordinari mendichi di tutte le epoche hanno attraversato la nostra terra e molti hanno lasciato ai posteri segni inequivocabili del loro passaggio. Inevitabile citare Giovannino Guareschi, il quale si definiva un franco tiratore, un isolato. Sempre in cammino, ricercando la verità vivendola in prima persona, solo contro tutti, non era certo un gregario, come lui stesso diceva:“non posso avere comandanti, non posso essere aggregato a reparti organici, non posso ottenere encomi né promozioni. Posso, tutt’al più, ricevere una pallottola fra le spalle da coloro per i quali ho combattuto”.
Giovannino scriveva queste parole il 15 novembre 1955, dal Carcere delle Roncole, come definiva casa propria dopo il ritorno dagli anni di detenzione. Uno scrittore per il quale nella propria cella, fosse alle Roncole o a Parma, era sempre primavera e che da dietro le sbarre gridava al mondo di aver scelto la libertà. Un uomo che vedeva tutto ribaltato, perché quel che cercava è il contrario di ciò che questo mondo vorrebbe e perché ha continuato a viso aperto la sua marcia incessante, dettata dalla propria coscienza e dalle intoccabili leggi di Dio. Camminando da solo senza sosta, a volte in tondo dentro a una prigione, con il suo lanternino, ha trovato la primavera nell’inverno, la libertà nella prigionia, Dio dentro a un lager e scoperto, stando appeso alla sua croce a testa in giù, che ribaltando la prospettiva dalla quale si guarda, tutto acquista finalmente senso.
Elogio della cicala
Eccolo di nuovo il beato folle dal cuore in fiamme, che abbraccia la morte di sé per amore della Volontà di qualcuno di più grande, che dichiara guerra alla modernità, apparentemente invincibile, quella stessa malefica creatura che Domenico Giuliotti definiva una “sozza baldracca turpiloquente, vestita d’oro e ripiena di vermi, dov’ha toccato ha appestato” e a cui lui stesso, con la stessa ferocia di una belva, dichiarava apertamente guerra.
La modernità che il vero uomo rifugge perché sa che il vero Dio non potrà mai scendere a patti con essa e perché l’homo modernus, raziocinante ma cieco, freddo calcolatore, non è in grado di abbandonarsi a Lui. Il commovente Elogio alla cicala di Giuliotti, una delle più alte prove di poetica che io abbia mai letto, descrive proprio questo:
“Come sei previdente formica! Come sei giudiziosa, formica! E come ti ammirano i ben pensanti, o animaletto savio, che vai sempre in processione, con un chicco in bocca, verso il tuo sotterraneo granaio! Tutti ti ammirano formica, solo il Poeta ti detesta.
O cicala pazza di sole, che sei fatta di sole e accresci il sole! Più ardi più vibri, più vibri più canti. E quando non canti più il solleone è finito, e sei morta.
Tu sei l’immagine del Poeta, tu simboleggi il Santo, tu vivi nel sole come il Poeta nel canto, come il Santo in Dio.
Ardere, cantare, vivere un giorno solo divampando, vivere nel fuoco, esser fuoco. E morire per eccesso di canto e per eccesso d’amore”.
Di nuovo traspare il nostro pellegrino russo, che ha perso la testa per Dio e ha trovato la strada in Lui. Una follia d’amore che nessuno comprende, alle volte nemmeno una parte di noi, come scriveva la nostra belva cattolica, “il poeta che è in te capirà, il borghese che è in te mi odierà. E io aspetterò con pazienza, che il primo dia lo sfratto al secondo”.
Il nostro mendico, vero uomo e vero cristiano, incarnazione vivente della cicala, arde in Dio e in Lui si consuma, per Lui canta nella sofferenza e ride nel pianto.
Il mendico di ogni tempo e di ogni luogo non è il saltimbanco di Dio, il cristiano non è cioè colui che rifiuta, aggira o non vede la sofferenza, ma è folle proprio perché l’abbraccia, così come la cicala non è la sprovveduta e allegra cantrice.
Scrive Guareschi in una commovente lettera alla moglie Ennia, durante il periodo del carcere: “I giorni della sofferenza non sono giorni persi: nessun istante è perso, è inutile, del tempo che Dio ci concede. Altrimenti non ce lo concederebbe”.
La grandezza di un uomo sta racchiusa in tre virtù: la capacità di credere a Qualcuno di più grande di sé, la coerenza di prestargli fede e la capacità di soffrire per ciò in cui crede. Giovannino abbraccia la sua sofferenza, la mette nella bisaccia e continua il pellegrinaggio.
Farsi piccoli perché Dio ci riconosca suoi figli
La vera natura dell’uomo vero uomo traspare allora quando si è in grado di trasfigurare la propria sofferenza nel momento stesso in cui la si prova. Si tratta di qualcosa di più alto addirittura l’offerta di sé e di qualcosa di estremamente più difficile. Il misticismo del mendico sta tutto nel ritenersi indegno della propria immolazione e la sua grandezza sta nel soffrire per accettazione e partecipare della sofferenza di Dio solo per pietà verso il Creatore. Non c’è orgoglio, non c’è più neanche il barlume del più piccolo atto di eroismo: tutto è cancellato di fronte alla consapevolezza della propria piccolezza e in questa natura ritrovata inizia così a cantare come la cicala, a ardere veramente e a cogliere i prodigiosi segni e portenti di Dio, che nulla promette al corpo, ma tutto concede all’anima.
Giovanni Papini, poeta cristiano convertito dopo anni turbolenti di ricerca, scrive una pagina bellissima arrivato ai momenti ultimi della sua vita:
“Mi stupiscono talvolta coloro che si stupiscono della mia calma nello stato miserando nel quale mi ha condotto la malattia. Ho perduto l’uso delle gambe, della braccia, delle mani e sono divenuto quasi cieco e quasi muto. Ma non bisogna tenere in picciol conto quello che mi è rimasto ed è molto ed è meglio… (…) Ho salvato, sia pure a prezzo di quotidiane guerre, la fede, l’intelligenza, la memoria, la immaginazione, la fantasia, la passione di meditare e di ragionare e quella luce interiore che si chiama intuizione o ispirazione”.
Lo scrittore che avrebbe potuto vantare di essere un immolato e avrebbe potuto compiacersi della propria condizione non lo fa. Da vera cicala quale è continua il suo canto e ringrazia Dio di non aver perso la voce interiore, per continuare a ardere.
Qualche pagina più avanti spinge la propria meditazione oltre e in un lampo di vero misticismo:
“Il dolore in apparenza maligno e crudele diventa un principio e un mezzo di catarsi. Il tormento è per gli spiriti privilegiati, lume che rivela, antidoto che disavvelena, fuoco che sublima. Un miracolo ancora più incredibile, raro ma stupendo, si avvera in certe anime di santi e di poeti: il dolore, arrivato alla sua estrema pienezza, esplode in gioia, fiorisce in felicità. Dinnanzi al succedersi e all’incalzare delle sventure e delle torture, una delle due: o l’uomo si accascia e si dissolve oppure chiama a raccolta le sue ultime forze e risponde eroicamente alla sfida crudele del destino. La sua disperazione è ricompensata dalla speranza; il suo gemito di orrore si trasforma in voce di vittoria; e, finalmente, la sua notte oscura si riempie all’improvviso di splendore. (…) Il canto di Daniele nella fossa dei leoni, il canto di Francesco nei giorni dell’agonia finale, il canto di Beethoven nella tristezza della sordità e della solitudine, sono tra i momenti più eccelsi che il genere umano possa ricordare quando non vuol vergognarsi di sé medesimo”.
Poteva forse Papini spiegare in maniera più eccelsa la condizione in cui l’uomo trova se stesso? E ciò che fa più riflettere in questa pagina altissima, è questo: né Daniele nella fossa dei leoni, né san Francesco nei momenti finali della propria vita e nemmeno Beethoven ormai anziano e sordo, erano consapevoli di innalzare a Dio il più bel canto di lode. Pare dunque che la grazia più grande che il Padreterno possa concedere ai suoi mendichi, una volta spogliati di se stessi, sia quella di tenere davanti a loro un velo perenne in grado di celare il loro cammino e la loro figura.
Don Divo Barsotti, monaco e scrittore spirituale, per tutta la sua vita si chiese cosa Dio volesse da lui e solo gli ultimi giorni della sua vita Dio gli tolse il velo e gli mostrò i frutti della sua vita. Giovannino Guareschi morì solo, nella convinzione di essere uno scrittore senza la capacità di farsi comprendere.
Anche se avessero voluto innalzarsi come vittime sacrificali, questi poeti, questi uomini, veri uomini, non lo avrebbero potuto fare, perché la loro virtù è stata quella di essersi creduti, fino alla fine, soltanto uomini in lotta con il mondo in quanto soltanto cristiani in grado di vere una straordinaria attraversando soli il fuoco che sublima e l’antidoto che disavvelena, con il solo desiderio di cercare Dio, senza rendersi conto di averlo trovato a costo di abbandonare se stessi durante la scalata. “Ho guardato i fiori del biancospino della vitalba, del gelsomino e del tiglio d’orto, con occhio disattento e vagante, senza accorgermi che ciascuno di quei fiori nascondeva un messaggio e annunziava un miracolo”.
Caro Papini, cari mendici di tutti le epoche, Dio vi ha resi veramente beati su questa terra, celandovi che il vero miracolo lo ha coltivato dentro di voi.
Fonte: rivista di studi trimestrale “mondopiccolo, idee per uomini vivi”, numero II.
1 commento su “Per grazia di Dio sono uomo e cristiano”
Sono purtroppo certa che il libro “la gnosi al potere” di Angela Pellicciari, sia la spie-
gazione esatta della situazione in cui è immerso il mondo attualmente. E ritengo che non ci siano più rimedi umani, MA SOLO IL RITORNO DI CRISTO!
PREGHIAMO TUTTI PERCHE’ QUESTO AVVENGA IL PRIMA POSSIBILE!