Ci sono molte solitudini. Dopo averle sperimentate, siamo convinti che la più profonda, la più intollerabile, sia la solitudine dell’anima. Per chi ha un orientamento religioso, pesa come un macigno sentirsi abbandonati dalla chiesa che consideravamo madre e maestra. Sono sempre i poeti quelli che capiscono più e meglio gli stati del cuore. Thomas S. Eliot nei Cori della Rocca si chiedeva se è l’umanità ad avere abbandonato la chiesa (“meno chiese e più osterie!”) o, al contrario, è lei ad aver lasciato soli i suoi fedeli. La malattia diagnosticata da Eliot è la mentalità moderna, che ha detronizzato “tutti gli dèi, salvo la Lussuria, l’Usura e il Potere. (…) Avete bisogno che vi dica che persino le modeste conoscenze / di cui vi potete vantare nella società perbene / difficilmente sopravvivranno alla Fede a cui debbono il loro significato? Dove il mio Verbo non viene pronunciato, / nella terra delle lobelie e delle flanelle da tennis / il coniglio s’intanerà e il pruno tornerà a far visita, / l’ortica fiorirà nell’aiuola di ghiaia, / e il vento dirà: qui vi furono dei dignitosi senzadio: / loro unico monumento la strada d’asfalto / e un migliaio di palline da golf smarrite”.
L’ineffabile monsignor Paglia, l’amicone di Marco Pannella, lo stesso delle pitture omo nel duomo di Terni, ha pronunciato sconcertanti parole in difesa dell’attuale legge italiana sull’aborto. Un buon punto di partenza, afferma il prelato. Subito, Avvenire, il quotidiano migrante, si affretta a rilanciare con un articolo in cui assicura che la legge 194 “non è una legge contro la vita e può essere accettata dai cattolici”. Il motivo? Sarebbe una norma “che regolamenta: una legge che regolamenta un fenomeno, che lo rende una questione pubblica, non una legge che promuove o che serve a dichiarare una questione di principio”. Contrordine, confratelli: il male, dunque, non è più tale; è solo qualcosa di cui prendere atto per regolarlo, come fa un semaforo con il traffico. È quasi divertente rispondere al giornale dei vescovi della Chiesa in uscita (da se stessa) che, se le parole hanno ancora un senso, una legge che permette la soppressione dei figli dell’uomo è oggettivamente contro la vita, almeno nel senso (ex) cattolico.
Hanno vinto, nella palude postmoderna, le streghe di Macbeth: brutto è il bello, e bello è il brutto, su per la nebbia e l’aria unta. Nella nebbia della solitudine del cuore, sfumano le dichiarazioni di Jorge Mario Bergoglio, indignato per la povertà indotta dal Covid 19. Ha ragione, per carità, ma non sono quelle le parole che ci si aspetta dal vicario di Cristo, dal successore di quel Pietro che disse a Gesù: tu solo hai parole di vita eterna. Per la chiesa conta solo l’uomo di carne: lo spirito è abolito, silenziato per non dispiacere al mondo. Per quelli che un tempo erano i principi non negoziabili, vale la fulminante battuta di Groucho Marx: questi sono i miei principi. Se non vi piacciono, ne ho altri. Tutto si fa per l’otto per mille, un posto da ballerina di fila e una parte di figurante nel grande spettacolo della Modernità.
Quando la solitudine afferra con più forza, e ci si chiede smarriti se non si è sbagliato tutto nella vita, se non abbiamo sempre difeso principi stupidi o sbagliati, non resta che volgere lo sguardo a chi ha saputo infondere speranza, fortezza e fornire munizioni a una battaglia etica e culturale che conosce soprattutto disertori. Uno dei rimedi contro la demoralizzazione montante resta Gilbert K. Chesterton, il grande scrittore inglese. Pazienza se la sua causa di canonizzazione è ferma, con grande gioia dei cattolici “adulti”, in quanto lo si accusa di antisemitismo. Bastano alcuni suoi aforismi per recuperare un po’ di speranza. Ad esempio, la polemica con Aldous Huxley: quando il signor Huxley creò la sua orribile utopia materialistica fu particolarmente attento ad evitare questa contraddizione. Il punto di Brave New World (Il mondo nuovo) non è che la religione è l’oppio dei popoli. Il punto è che l’oppio è la religione dei popoli.
Abbiamo ritrovato tra le carte da riordinare una vecchia edizione dell’Uomo eterno, saggio storico di Chesterton. Già la frase del risguardo è scintillante, un sorso d’acqua fresca nell’arsura del tempo. “Se mai esiste, cos’è che rende l’essere umano soltanto umano?” Questa è la domanda che G.K. Chesterton si pone in questa esplorazione classica della storia umana. Rispondendo al materialismo evolutivo del suo contemporaneo (e antagonista) H.G. Wells, Chesterton afferma l’unicità umana e il messaggio unico della fede cristiana. Scrivendo in un periodo in cui il darwinismo sociale era rampante, egli replicò dicendo che l’idea secondo la quale la società ha subìto un progresso da uno stato di primitivismo e di barbarie verso la civiltà, è semplicemente e piattamente imprecisa. Il barbarismo e la civiltà non sono palcoscenici successivi nel progresso del mondo.
L’uomo Eterno, saggio storico del 1925, non è affatto un libro di teologia, come potrebbe suggerire il titolo; non è neppure un trattato di filosofia della storia, per quanto Chesterton sia stato un attento lettore e straordinario esegeta di giganti come Tommaso d’Aquino. Non è neppure un saggio antropologico o una confutazione del darwinismo, tanto popolare all’epoca. È tutte queste cose insieme e nello stesso tempo. L’uomo eterno è uno sguardo d’aquila, panoramico e penetrante, sull’essere umano e la sua singolare amicizia con il Creatore, diventata più forte, definitiva attraverso l’incarnazione. Il movente immediato del libro fu rispondere a Schema della Storia, un noioso, pretenzioso e insopportabile tomo di H.G. Wells, il celebre scrittore britannico considerato un padre della fantascienza, tra i primi sostenitori dello Stato mondiale.
Wells si proponeva di dimostrare con notevole petulanza verbale che l’essere umano è il risultato aleatorio dell’evoluzione e Gesù Cristo non fu altri che un uomo superiore, come Maometto o Budda, i cui insegnamenti degenerarono poi in religione. Infine, Wells intendeva sostenere che le religioni – tutte in generale, ma specificamente la cattolica, quella che più fa (faceva…) infuriare atei e modernisti – sono incapaci di affrontare le sfide dell’uomo moderno. Tesi purtroppo oggi rafforzata dal tradimento dei chierici. Indignato, quasi istigato dall’intemerata di Wells, Chesterton scrisse un libro godibile, incendiato di bellezza, in cui propone la sua visione della storia, ridicolizzando la pomposa erudizione da topo di biblioteca con cui Wells pretendeva di legittimare le sue ipotesi – diventate nel tempo obsolete, altrettante falsità smentite dalle acquisizioni scientifiche successive.
La tesi centrale lanciata da Chesterton è che l’uomo non è il frutto dell’evoluzione, ma dell’azione creatrice divina e l’uomo chiamato Cristo è veramente il figlio di Dio. Uno scandalo per il pensiero contemporaneo, ma anche, ormai, per uomini di chiesa arresi al cosiddetto spirito dei tempi. L’essere umano non è prodotto di un’evoluzione, ma di una rivoluzione, di un puro miracolo. Per dimostrare che l sua apparizione è l’esito di un miracolo – nulla importa se istantaneo o durato millenni – Chesterton ci chiede di chinarci sulle pitture rupestri che i nostri antenati lasciarono sulle pareti delle caverne. Quelle pitture non furono realizzate da scimmie che stavano evolvendo verso uno stadio superiore, ma da uomini come noi, poiché l’uomo è l’unico essere della Creazione che può essere nello stesso tempo creatore e creatura.
Le ipotesi evoluzioniste avvolgono questa verità in una matassa astrusa, verosimile quanto delirante. Eppure, insegna Chesterton, non potranno negare che ci fu un giorno in cui un essere nuovo, singolare, si mise a dipingere in una caverna. Era un soggetto molto simile morfologicamente a uno scimpanzé o a un gorilla, ma in realtà l’essere più diverso da quei primati, giacché faceva qualcosa che quelli non possono fare, con tutta l’evoluzione dell’universo: produceva arte, il tratto distintivo esclusivo della personalità umana, il gesto di chi pensa e volge lo sguardo verso l’alto e l’oltre: il segno, il crisma con cui Dio ha distinto l’uomo nella sua predilezione. Nella prima parte (L’uomo nella caverna), Chesterton mette in luce alcune delle caratteristiche che rendono unico l’uomo, come la capacità di trascendere, ovvero formulare un credo religioso e realizzare opere d’arte. Se l’uomo è solo un animale, si deve concludere che si tratta di un animale davvero insolito.
Nell seconda parte dell’Uomo eterno, narra l’ulteriore rivoluzione della storia umana, l’irruzione di un Dio che diventa carne. E, oltreché regalarci una sorprendente lettura della Natività, commenta giocosamente tutti gli espedienti modernisti per negare la divinità di Cristo, a costo di presentarlo, con gli argomenti di Wells, come l’uomo più saggio ed eminente che abbia mai calpestato la Terra. Tuttavia, nessun uomo eminente si proclama figlio di Dio: lo hanno fatto solo pazzi in preda a delirio di onnipotenza. Ergo, se lo stesso Wells ammette che Gesù era un uomo eminente di grande sapienza, conclude Chesterton, allora era senz’altro il figlio di Dio!
L’uomo eterno è un libro che ribolle di idee brillanti, felici ispirazioni, splendenti paesaggi dell’anima in cui la profondità del pensiero e una paradossale delicatezza si fondono in un amalgama irripetibile, che strappa il velo di tutti i luoghi comuni del pensiero moderno (se ci passate l’ossimoro…) e li lascia sul terreno. La lettura diventa una festa dell’intelligenza, vero cibo dello spirito per lettori curiosi e sensibili. Tra essi, Clive Staples Lewis, lo scrittore inglese sodale di Tolkien, autore del capolavoro della letteratura per l’infanzia Cronache di Narnia, che L’uomo eterno avvicinò al cristianesimo, fino a definirlo “la migliore opera di apologetica che io conosca”. Fervente lettore fu anche Jorge Luis Borges, che affermò di aver passato nella lettura di Chesterton ore di grande gioia.
Davvero, la gioia, persino il buonumore è ciò che lascia al lettore l’opera del grande inglese, insieme con la forza consapevole delle idee. Forse la lettura di Chesterton gioverebbe anche ai pallidi chierici di oggi, gli esangui intellettualini di sacrestia e persino a Bergoglio, per ritrovare la spiritualità perduta e riportare al centro la figura di Gesù e il senso del divino. Difficile, però, tra gel igienizzanti al posto dell’acquasantiera, principi negoziabili, anzi intercambiabili, l’oblio del divino che rende la chiesa una ONG come tante. Per Chesterton, era ancora madre e maestra. Per Paglia, Bergoglio e garrula compagnia, è un’opzione tra le tante nel supermercato postmoderno; l’uomo, come Dio, è eterno finché dura.
4 commenti su “G. K. Chesterton, un antidoto alla solitudine dell’anima”
E’ sempre una piacevole lettura che conforta nello squallore che ci circonda. Grazie. Ancora una volta viene messo in luce l’origine di questa deriva antiscientifica che rischia di imbarbarire l’intero globo: l’evoluzionismo darwiniano che non si limita alla biologia, ma investe ed inquina ogni settore del vivere.
Bisogna mettere in luce il fatto che la sorprendente evoluzione tecnologica è cosa ben diversa dall’evoluzione della persona sia a livello biologico che culturale. Bisogna ricordare che se a livello biologico evoluzione c’è stata, questa si è prodotta all’intero della specie, la microevoluzione, mentre la macroevoluzione è una pura e semplice frode scientifica che serve solo a portare avanti la rivoluzione antropologico/culturale, in atto, sotto l’egida di una falsa scienza.
SPERO CHE ORMAI NON DURI TANTO……
Purtroppo non duriamo noi mentre la chiesa rimarrà appoggiata al potere mondialista e ne diverrà sempre più schiava perdendo la sua identità cristiana e cattolica.
Grazie per la provvidenziale boccata d’aria pulito. Grazie Chesterton. La neochiesa non perde una sola occasione per coprirsi di letame.