Rientrato dal lavoro, aveva cominciato a scrivere di buona lena e la matita di Matej scorreva da quasi un’ora sulla grammatura della carta immacolata del suo taccuino.
«Aveva settantadue anni Domagoj, meno un mese. Il mal di schiena e tutti i capelli grigi, che portava un po’ lunghi e unti sotto un cappello nero di foggia tradizionale croata a tesa molto spessa, un ricordo, cimelio del suo nonno Dragan. Il cielo era terso e il freddo nel primo pomeriggio mollava la presa, lasciando apparire qualche tremula goccia sulla punta delle candele trasparenti che pendevano dalle grondaie delle vecchie case di montagna e rammolliva il ghiaccio al calpestio. Aveva percorso migliaia di volte quel sentiero, sin dai giorni sereni dell’adolescenza, la parte ancora acerba della vita, vissuta in un mondo che non c’era più e ora sembrava più che un ricordo, un sogno stravagante. A pensarci bene sembrava qualcosa di surreale. Come avrebbe potuto spiegare ai giovani informatizzati, figli della società dei pagamenti senza quattrini veri e dell’Unione Europea cos’era stata la sua giovinezza? Veniva da un mondo in ritardo. Il suo paese non aveva fatto in tempo ad adeguarsi ai cambiamenti politici del ventesimo secolo e economicamente si trovava a rincorrere la storia. Dopo la fine di quell’altra unione che fu l’Impero di Francesco Giuseppe, la Croazia aveva ottenuto la libertà di entrare nel nuovo Regno degli Slavi del Sud, la Kraljevina Jugoslavija dei Karađorđević, nel quale era nato, dopo che la sua famiglia era emigrata dal nord.
Non fece in tempo a crescere fieramente monarchico, che una mattina vennero in paese dei grossi rubicondi garzoni dalla città annunciando col megafono che ora c’era il comunismo, le patate e le galline adesso erano requisite per il popolo socialista jugoslavo. E via con i camion. Dopo le patate cominciò a sparire la gente. Ma quella ormai era storia vecchia, pensava guardando il sentiero snocciolarsi lento e malfermo, col passo di un settantenne mezzo sordo per le fucilate, ma che avvertiva lo scricchiolio dei sassolini bianchi e rosa proprio fra il ghiaccio e le suole. Le suole sì, quelle erano un bel da pensare al tempo della sua giovinezza: sei fratelli e due sorelle, così tanti piedi e solo quattro suole, per quanto ben consumate. A quel tempo, dopo la guerra c’era abbondanza di fame e carestia di tutto, e lì, sulle Alpi Dinariche, ci si arrangiava come si poteva.
Eppure, aveva visto tutto Domagoj, era sopravvissuto a tutto. Una lacrima apparve improvvisa per scorrere lungo le rughe mezze gelate, quasi in risposta muta al gocciolio del ghiaccio dai tetti, poi sulla guancia e giù fino al baffo bianco. Era sopravvissuto e ora era solo. Era sopravvissuto a sua moglie e al suo unico figlio, Nikola, caduto nella guerra di secessione croata, la Domovinski rat, la Guerra per la Patria, così l’avevano chiamata. Avevano combattuto tutte le guerre gli uomini della famiglia Novak, o almeno che si sapesse, tranne lui. E sempre dalla parte sbagliata. Le avevano perse tutte le guerre, gli uomini della famiglia Novak, ma erano tutti sempre ritornati indietro. Ora, suo figlio, era stato il primo a fare una guerra che avevano vinto e non aveva fatto ritorno a casa, se non in una cassa governativa. La morte sa mostrare a volte una propria peculiare ironia, per posarla sulla bilancia del fato e farne un equilibrio che capiremo solo dopo averla conosciuta di persona. La patria che amava, dunque, anche se non era più un regno ma una repubblica, gli aveva portato via il suo unico figlio. Il figlio che avevano atteso tanti anni, lui e la moglie, Marija Radi, e che era arrivato una sera d’estate come l’ultima oca solitaria che torna affaticata verso i lidi del nord, ma non per questo vi rinuncerà. Era arrivato sano per quanto gracile, quando la disperazione di una madre aveva incontrato la potenza della fede.
Due mesi dopo il funerale aveva avuto un infarto e se n’era andata così, un pomeriggio, prima di cena, col garbo e la riservatezza con cui aveva sempre vissuto, la dolce Marija. Poco prima, l’ultimo Novak, ignaro, era rientrato dal lavoro, si era sciacquato e come tutte le sere le aveva parlato di futilità per tutto il tempo dall’altra stanza, gridando un po’, come faceva ultimamente, perché il problema di udito cominciava a farsi serio, ma, non avendo ricevuto risposta, si era diretto in cucina. Tutto era in ordine, ogni cosa a posto. Perfino la moglie, a terra, era in una posizione quasi composta, come se dormisse. La tavola apparecchiata con ordine, la pentola della minestra sul fuoco emanava un buon profumo di brodo di pollo, di quelli che rassicurano le sere d’inverno promettendo ancora una volta il tepore di una casa, la sazietà concreta e parca di uno stomaco povero, ma onesto. Soltanto, la dolce Marija, non era del suo solito colorito. Troppo cereo il lato superiore, paonazzo e violaceo il lato destro, quello sul pavimento.
Caduto il regime, era con esso caduta la sua famiglia e la sua intera esistenza.
Per questo, forse, non si scompose sotto il suo cappello il vecchio Domagoj, quel pomeriggio d’inverno, alla vista di tutto quel sangue. Perciò non diede di stomaco alla vista di quell’occhio fuori dalla sua naturale orbita, sporco di peli del tappeto e bagnato di un rivolo di sangue traslucido, mentre l’altro ancora così azzurro lo guardava, come aveva fatto per anni, ogni volta che, tornando dalla caccia, gli capitava di incontrare la vedova Mandic, la cui casa stava a pochi passi a valle dal sentiero abituale».
Ma la luce entrava ormai di sbieco dalla finestra bianca dello studio, colorando di rosa tenue la pagina su cui scriveva Matej. La sera si annunciava lieta e serena in casa Dončić. Posò il mozzicone di matita. Alzò lo sguardo verso le nuvole colorate là fuori, richiuse le palpebre. Un profumo di rizoto ai frutti di mare lo coglieva insospettabile, come la bravura della moglie nel prepararlo. Presto. Fece scorrere di scatto la sedia per alzarsi, con la fretta dei ragazzi affamati, ma per un attimo qualcosa lo impedì. Richiusi nuovamente gli occhi, con le nuvole ancora così brillanti là fuori e la mente così oscura lì dentro, gli parve di cogliere un altro odore, un breve turbamento dell’animo, come un’ombra dietro la tenda. Gli era parso di sentire il profumo del brodo di pollo, immaginò di vedere il vapore salire davanti alle piastrelle vecchie della cucina del vecchio Domagoj. Il tempo fermarsi anch’esso per il terrore come il cuore in gola di chi molto ama e teme.
Cercò di scacciare il pensiero. Dirigendosi verso la porta quasi si scontrò con Tomislav, che stava scendendo le scale di corsa.
«Ciao pa’! Eri in casa?»
«Vedi di non inciampare sulle scale»
«Ovvio».
Era in casa, anzi, in due case. Si lasciò superare dal figlio, che sin dalla Cresima era già da un pezzo più alto di lui. Uno guarda i bambini giocare e sembra che non abbiano niente a che vedere con il crescere, soprattutto i propri figli. Come se per il loro avvertire il mondo come un eterno presente dovessero perciò vivere un presente infinito senza che non passi il tempo. Lo seguì verso la tavola osservando i visi illuminati dalla gioia di una famiglia riunita, col sorriso che lottava per scacciare quel consapevole dolore dato dalla cosciente certezza che non sarebbe stato per sempre.