L’ultimo libro di Thomas Piketty tradotto in italiano (“Capitale e ideologia”, La Nave di Teseo) è un tomo poderoso: 1200 pagine, più di un chilogrammo di carta sottile. L’economista francese non è nuovo a queste “prove di forza”. “Il Capitale nel XXI secolo”, uscito nel 2013 aveva una lunghezza di oltre 900 pagine, a conferma della volontà visionaria di Piketty, impegnato a misurarsi sui grandi scenari della storia e dei cambiamenti ideologici. Genericamente etichettabile come un neo-socialista, oggi l’autore di “Capitale e ideologia” sposta la visuale dai tradizionali riferimenti di classe a quelli di una più ampia lotta ideologica, muovendosi dalle antiche società schiavistiche fino ad approdare alla modernità ipercapitalista. Alla base la convinzione che la diseguaglianza non è provocata dall’economia ma dalla politica e dall’ideologia e proprio per questo è possibile intraprendere un’ altra strada.
Per la complessità di “Capitale e ideologia” una recensione tradizionale appare difficile. Intorno alla sua visione di fondo Piketty innesta approfondimenti e linee di fuga complesse, finalizzate ad immaginare un nuovo futuro egalitario, nel quale fondamentale appare il ruolo di una politica fiscale giusta e progressiva, quello dell’istruzione ed il concetto di condivisione, di saperi e poteri.
A noi piace sottolineare un significativo passaggio in quello che l’autore identifica come “socialismo partecipativo”: la scoperta della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende sulla base delle esperienze di cogestione tedesca e nordica. Come noto in Germania e in Svezia i rappresentanti dei dipendenti partecipano ai consigli di amministrazione delle aziende, ciò – nota Piketty – favorisce un cambiamento ideologico, in grado di innescare una circolazione del potere di proprietà.
“Tutti i dati a nostra disposizione – si legge in “Capitale e ideologia” – indicano che questa esperienza ha avuto un pieno successo. Le regole della cogestione hanno consentito un maggiore coinvolgimento dei dipendenti nella definizione delle strategie a lungo termine delle imprese e un equilibrio tra l’onnipotenza (spesso dannosa) degli azionisti e gli interessi finanziari a breve termine dell’azienda. La cogestione ha favorito l’emergere, nei paesi di lingua tedesca e in quelli scandinavi, di un modello sociale ed economico che è più produttivo e meno diseguale di tutti gli altri modelli sperimentati fino a oggi”. Piketty auspica l’estensione del modello partecipativo ad altri Paesi, chiedendo inoltre una maggiore parificazione tra azionisti ordinari e rappresentanti dei lavori.
Il dato di fondo è che con queste aperture non solo si esce finalmente dalle vecchie logiche classiste e conflittuali, ma si offre un’alternativa reale alle nuove domande partecipative, che interessano le aziende ed il mondo del lavoro, ma riguardano inevitabilmente anche il tema della rappresentanza politica, collegato alle tradizionali forme della democrazia liberale.
Ciò che ci piace sottolineare nell’inaspettata apertura di Piketty è proprio la rottura con i vecchi schematismi di classe e quindi la necessità di costruire concreti e più ampi modelli partecipativi, in questo incontrando temi ed analisi che appartengono al Sindacalismo Nazionale e all’Idea Sociale. Proprio per queste “ascendenze” fino a ieri questi richiami erano scarsamente considerati dalle più tradizionali visioni conflittuali e di classe, variamente declinate (dal riformismo socialista al radicalismo comunista). Ora – dice Piketty – occorre girare pagina, misurandosi in una nuova “lotta ideologica”. L’autore di “Capitale e ideologia” la vede in funzione di una rottura con la narrativa proprietarista, imprenditoriale e meritocratica, che legge quale strumento “trasversale” di dominio:
“ Sinistra intellettuale benestante e destra mercantile– scrive Piketty – incarnano valori ed esperienze in qualche modo complementari. E condividono anche non pochi tratti comuni, a cominciare da una certa dose di ‘conservatorismo’ di fronte all’odierna situazione di disuguaglianza. La sinistra crede nell’impegno e nel merito nello studio; la destra, nell’impegno e nel merito negli affari. La sinistra si prefigge l’acquisizione di titoli di studio, di sapere e di capitale umano; la destra, l’accumulazione di capitale monetario e finanziario”.
Mettiamo da parte certe facili, troppo facili, schematizzazioni ideologiche (nell’eterno gioco su cos’è di destra – cos’è di sinistra).
Dal nostro punto di vista l’applicazione del modello partecipativo permette piuttosto una reinterpretazione della narrativa proprietarista, imprenditoriale e meritocratica, sulla base dell’estensione della proprietà (“Tutti proprietari, non tutti proletari” – diceva un vecchio, ma efficace, slogan) , dell’efficienza produttiva ( con una reale ridistribuzione della ricchezza), della mobilità sociale (attraverso un riconoscimento dei meriti in grado di riattivare l’ascensore sociale). Su questi crinali si gioca la battaglia del futuro. Lieti di incontrare – per un pezzo del percorso – Piketty e chi – da sinistra – voglia riconoscersi nelle sue tesi “partecipative”. Ma ben determinati ad andare oltre le incrostazioni ideologiche che stanno alla base di un neosocialismo che – al fondo – è già un po’ vecchio.