La morte arriva, spesso, all’improvviso. Il dolore è stato talmente profondo, da non riuscir quasi più a scrivere. Poi, ci si è messa anche questa assurda pandemia.
Grazie a Dio, al nostro piccolo podere, al Cerreto, con Rosario, mio marito, siamo riusciti a mettere a frutto il tempo della quarantena. Abbiamo sgomberato la veranda sotto casa, adiacente alla cantina, per farci lo studio. La vecchia gettata di cemento, oramai, si sbriciolava causando troppa polvere. E per pavimentare c’erano a disposizione delle mattonelle, in similcotto, accatastate da una cinquantina d’anni nel bosco. Erano talmente piene di terra, che le abbiamo dovute pulire tutte con un po’ di fatica.
Mi pare incredibile: Rosario è riuscito a fare tutta la pavimentazione da solo. Per ora, abbiamo lasciato le pietre delle pareti a vista. Ci abbiamo appeso solo un vecchio crocifisso benedetto e il quadro del Sacro Cuore. La libreria è stata ricavata adattando dei mobili di famiglia; uno dei quali è molto bello, avrà più di cent’anni. Inoltre, avevamo a disposizione una scansia da montare, per tenerci sopra il giradischi con la collezione in vinile da 33 giri, di musica classica e d’opera. Il babbo la costruì riciclando del legno dismesso da delle scenografie teatrali di un’opera lirica, o di un balletto.
Anche Rosario ha l’hobby della falegnameria e si è sistemato tutti i suoi attrezzi nel piccolo laboratorio del babbo (hanno molto in comune). Mi ha pure restaurato una grande scrivania in legno con i cassetti che, da almeno una trentina d’anni, giaceva sepolta sotto a un guazzabuglio di roba in cantina.
Purtroppo, da noi arrivano molti cinghiali, caprioli e, per poter far l’orto, Rosario ha dovuto costruire un recinto intrecciando rami degli alberi del bosco, a costo zero. Al mattino, dall’altra parte del poggio, allo spuntar del sole, dal bosco appare una casina in pietra. Ci separa una piccola vallata attraversata dal fiume che dà nome alla cittadina.
Gli uccelli si sentono cantare sereni, l’acqua scorre regolare e le macchine hanno ripreso a percorrere la strada larga, lungo la sponda sinistra del fiume. Mentre sul lato destro, passato il secondo ponte, per la via stretta, si trova un albergo. Ma non riaprirà, rimarrà chiuso fino all’anno prossimo. In tanti non riapriranno più: piccole ditte, ristoranti, e molti ancora… con o senza il “lock down”, tutti a casa!
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“Altro che dall’alfabeto, bisognerebbe ripartire, ma, dalle barrette!”, disse una volta il babbo. Le barrette erano le aste fatte fare, un tempo, dalle maestre ai bambini sul quaderno, per pagine e pagine, ancor prima d’insegnar loro le lettere dell’alfabeto. Così imparavano a scrivere dritti, dentro al rigo. Beh, come dargli torto, specialmente oggi: sembriamo tutti storti, e non solo a scrivere…
Chissà cosa direbbe il babbo se si trovasse, nuovamente, in questa valle di lacrime. Già lo vedo intento a inventarsi, e costruire, una sorta di scafandro con filtri, per non essere obbligato a metter pure lui il bavaglio, pardon, la mascherina. Come fece per tutti i suoi progetti, sarebbe capace di farlo persino per questo: un modellino in scala! Prima di avviarsi a realizzare il suo nuovo giochino. Così chiamava gli aggeggi costruiti nel suo piccolo laboratorio.
A casa ha fatto tutto, o quasi per quanto possibile, lui. Diceva sempre: “Ci penso io!”. E così per tutta la vita, è stato un Padre. La nobiltà parte dal cuore, se ben il suo pareva tanto debole; essendo nato di sette mesi, e per giunta, durante la guerra. “Era talmente brutto e piccolo”, diceva sempre la zia, quando ci veniva a trovare, “che lo dovettero mettere in una scatola da scarpe”.
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Il babbo, Vittorio Giuliano Giovanni, chiamato da tutti Vittorio, era l’ultimo di tre fratelli e, dopo la guerra, per lavarsi, la sua mamma riempiva la vasca con l’acqua calda e facevano il bagno a turno, uno alla volta, a cominciare dalla nonna. Poi il padre, la madre, il fratello maggiore, la sorella più grande e infine lui, il più piccolo. Insomma, gli toccava spesso l’acqua scura… A volte andava a giocare in vetreria; una cicatrice sul polpaccio fu l’unica cosa rimastagli di quel tempo. Giocava a dir messa, la sorella gli faceva da chierichetto suonando il campanello, sempre a tempo! Ma lui mica poteva fare il prete, con quelle ginocchia… perché, a quei tempi, tutti i sacerdoti si inginocchiavano al cospetto dell’Altissimo. Oggi, come direbbe Diva: “Non usa più”! Anche se avesse voluto, a lui sarebbe stato impossibile, perché aveva delle ossa a punta proprio sotto alle ginocchia. Così cominciò a suonare l’organo in chiesa. Poi, scoprì il corno francese e non se ne separò più. Forse, non a caso scelse lo strumento dal suono che viene da lontano.
All’epoca lavorava all’ufficio del registro e suonava nella banda del paese. Presto cominciò a studiare con dedizione e sacrificio, per diventare un buon musicista. Si sposò nel 1969 con la mamma e, il 22 giugno del 1972, all’età di 31 anni, si diplomò al Conservatorio Luigi Cherubini di Firenze. In pochi mesi ottenne il posto di primo corno nell’Orchestra del Teatro San Carlo di Napoli, dove suonò fino al 1980, per poi divenire primo corno solista nell’Orchestra Scarlatti della RAI di Napoli fino al 1986. Divenne pure insegnante di conservatorio.
L’anno in cui nacqui ci fu il colera a Napoli, ma non fecero nessun “lock down”. La mamma Fosca andò in Toscana dai nonni e vi rimase durante la gestazione. E per non togliere la gioia al babbo di vedermi, dato che doveva lavorare, tornò a Napoli, contro il parere di tutti i parenti, poco prima che scadesse il tempo e mi partorì in una clinica a Posillipo. Quella notte, era da poco cominciato l’inverno, la neve cadde fitta sul mare.
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Ricordo che amavo particolarmente andare a vedere il balletto e l’opera buffa; specialmente la Cenerentola di Rossini. L’età non mi consentiva ancora di apprezzare la musica sinfonica e da camera, dove il babbo fece molti concerti da solista.
A noi, essendo della famiglia, toccava spesso il loggione. Durante la pausa, il babbo saliva sempre su, per qualche minuto, e faceva un piccolo commento su come stesse andando l’esecuzione; sulla bravura del direttore d’orchestra di turno e la reazione degli spettatori: se attenti, coinvolti, oppure, raramente, annoiati. In genere erano attenti, ma un pochino freddini in Italia. Mentre, ogni volta che tornava da qualche tour all’estero raccontava, quasi con stupore, di quanto il pubblico fosse appassionato ad ascoltare la buona musica.
Furono anni felici, finché un giorno una lettera ministeriale arrivò a guastare la sua serenità: presto sarebbe entrata in vigore una legge detestabile, che non gli avrebbe più consentito di lavorare alla Rai e, al contempo, insegnare al conservatorio. E a malincuore decise di lasciare il posto di primo corno nell’Orchestra Scarlatti della Rai, optando per l’insegnamento al conservatorio e la libera professione di musicista.
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Il babbo continuò a suonare per tutta la vita in varie orchestre: il suono del suo strumento divenne la sua voce. Pochi anni fa, al ritorno da Vienna, la prima volta che suonò al Musikverein con l’orchestra Filarmonica di Lucca, sembrava estasiato… gli occhi gli brillarono di una luce gioiosa e mi disse: “Là si respira Mozart in ogni luogo”.
Questo è il babbo, Vittorio: va a suonare la musica di Puccini in uno dei teatri più importanti al mondo e lui è felice, come un fanciullo, di respirare Mozart nella sua terra.
4 commenti su “Ritratto di mio babbo su paesaggio dell’anima”
Magnifico. E struggente. Ma la parte più bella è il finale, lieve e sereno, coi verbi al presente, ché la morte nasconde alla vista, ma non cancella la presenza. Agli uomini Iddio, unico privilegio, ha donato un’anima eterna.
Bello ci siamo commossi. Grazie Linda
davvero coinvolgentee. Mi è piaciuto molto conoscere papà Vittorio. Un onore, anzi! Grazie di aver scritto di lui.
Bellissimo.