È una storia di “ordinaria persecuzione” (da parte della Cina comunista) e di “straordinaria fede”, quella vissuta da Rose Hu, testimone e protagonista a un tempo, quale è dato leggere nel suo libro stampato in cinese, poi in lingua inglese, francese, ora tradotto in italiano e pubblicato da Edizioni Piane (pagine 247, euro 25,00) con l’emblematico titolo La gioia nella sofferenza, sottotitolo Con Cristo nelle prigioni della Cina.
La prima osservazione è il modo, lo stile, della narrazione di una vicenda durissima, vissuta sulla propria carne, scorrevole, senza ricorrere a forti tinte, a espressioni retoriche, ma indicativa, nella sua semplicità narrativa, appunto, di una realtà forse da tanti (anche in campo cattolico) dimenticata o addirittura ignorata, perché fra accordi segreti (Vaticano-governo della Cina comunista) e dichiarazioni al limite della follia, secondo le quali nella Cina attuale la dottrina sociale della Chiesa troverebbe la sua ideale applicazione (!), il sacrificio, la testimonianza quotidiani di tantissimi fedeli sembrano infastidire certi occupanti dei “sacri palazzi” romani.
E quindi aggiungiamo subito un’altra osservazione: nel racconto di Rose Hu ricorrono due espressioni che un tempo appartenevano al vocabolario, per così’ dire, della Chiesa: “portare ognuno la propria la croce, nella sequela del Cristo”, e “non si possono servire due padroni”.
Ecco, queste affermazioni della protagonista non possono non restare impresse nel lettore attento, e beninteso, di fede, ancorché piccola, minima, non certo paragonabile alla sua fede, di Rose, che era certamente grande, tale da farle sopportare, per amor di Dio, tante sofferenze.
Nata nel 1933 a Shanghai ultima di una famiglia (pagana) di cinque figli e tre figlie, venne battezzata nel 1949, unendosi subito al movimento spirituale Legione di Maria. Compiuti gli studi superiori, si iscrisse all’università per laurearsi in chimica.
Fu arrestata l’8 settembre nel 1955 e imprigionata fino al 1957 nella sua città; successivamente, di nuovo, dal 1958 al 1962 nel laogai del Lago Bianco; infine, fino al 1982, in quello di Danghsand. Le esperienze vissute, dalla cella di isolamento alla risaia, dal lavoro nei frutteti all’infermeria dove curava detenuti come lei con una dedizione straordinaria, furono caratterizzate da alcuni elementi, per così dire, costanti, quali i tentativi di indottrinamento comunista, lo scarso e pessimo cibo fornito dai suoi carcerieri, le condizioni di vita, dal clima (da meno 35 gradi d’inverno, si passava ai più 50 d’estate) ai giacigli per il riposo notturno: sul nudo pavimento.
Complessivamente, ventisei furono gli anni trascorsi fra prigione e campo di lavoro, dove, fra l’altro, ovviamente, ebbe occasione di incontrare persone diversissime, non escluse ex suore diventate magari spie, sacerdoti, religiosi (oh, certi gesuiti esemplari!), stranieri e indigeni, animati da grande fede, che sapevano, con la parola e con l’esempio, trasmettere forza e speranza ai non pochi cattolici vittime del regime.
La testimonianza di Rose non ebbe mai incertezze, tentennamenti, e lo si constata fin dall’inizio del libro, leggendo, per esempio, “La natura umana ha la tendenza ad evitare la sofferenza. Nessuno ama lasciare la sua famiglia per andare in prigione. Tuttavia, questa situazione era ormai la mia e non potevo che scegliere se essere una martire o una traditrice; se non fossi stata una martire, sarei stata certamente un Giuda”.
Una determinazione nella scelta che non sarebbe mai venuta meno, come si diceva, in quei ventisei anni nei quali vennero esercitate su di lei tante pressioni per farla abiurare quella fede che l’avrebbe peraltro sorretta nell’avversità e resa pure serena.
Il fatto si è che Rose aveva capito tutto del cristianesimo, e che una volta abbracciata questa religione aveva abbracciato la croce che può comportare restando fedeli, sempre, comunque, dovunque, fino, se necessario, “ad effusionem sanguinis”…
Scorrendo le pagine di questo libro, si apre peraltro al lettore occidentale uno squarcio ampio sulla realtà della Cina comunista e di quei cattolici che non scesero mai a compromessi col regime, venendo perciò perseguitati. Al contrario di quel che succede spesso in Occidente, lì, il loro linguaggio era quello del sì-sì, no-no. Estraneo era loro quella sorta di “sì, ma anche”, “sì, però”, diventati da noi di uso (quasi) comune…
Scontata la pena, Rose visse qualche tempo a Shanghai, quindi, nel 1989 emigrò col marito architetto negli Stati Uniti, dove peraltro dovevano attenderla due situazioni particolari, constatate con sorpresa e disappunto: da un lato, una libertà sconosciuta in Cina, certo, ma anche un diverso materialismo (e nel libro lo avverte chiaramente), poi una chiesa “diversa” da quella conosciuta nella sua giovinezza in patria, con una liturgia che stentava ad accettare, e che non accettò, entrando (2001) in rapporti con la Fraternità Sacerdotale San Pio X. Nel 2003 fece addirittura la professione nel Terz’Ordine della Fraternità.
In quegli anni insegnò chimica e inglese, poi, ecco insorgere un tumore che, dopo una lunga dolorosa agonia, la portò a morte. Il trapasso avvenne il 13 ottobre 2012, anniversario di un’apparizione della Madonna a Fatima.Sino alla fine aveva offerto le sofferenze al Signore, consapevole del significato della sua offerta. Una vita e una morte, insomma, da vera cristiana.