Di Alberto Rosselli
QUANDO I COMUNISTI RAPIVANO I BAMBINI
Durante la terza fase della Guerra Civile Greca (1944-1949), i partigiani comunisti, in lotta contro l’esercito regolare greco, avviarono una vasta campagna di sequestri ai danni di bambini e ragazzi, in modo da sottrarre al governo linfa vitale (anche se i capi marxisti sostennero sempre – anche dopo la fine della Guerra Civile – che tale pratica venne adottata per “porre in salvo la gioventù greca, allontanandola dai luoghi di combattimento”). Nelle regioni poste sotto il loro controllo, i comunisti non ebbero difficoltà nel censire e nell’individuare e sottrarre i fanciulli alla famiglie. Essi erano infatti in possesso dei registri di natalità di tutte le città e i villaggi.
Nel marzo 1948, i primi 2.000 ragazzini sequestrati vennero trasferiti al nord e poi espatriati in Albania, Bulgaria e Iugoslavia. Gli abitanti dei villaggi che tentarono di proteggere i fanciulli nascondendoli nei boschi, finirono fucilati o impiccati. Messa al corrente del piano comunista, la Croce Rossa cercò di muoversi, ma a fronte degli enormi ostacoli trovati sul suo cammino, non riuscì a fare nulla, tranne redigere, con l’aiuto delle autorità governative e grazie alle centinaia di testimonianze dei famigliari dei sequestrati, un censimento che, dopo una serie di aggiornamenti, portò, a stabilire che i bambini sequestrati e fatti espatriare forzosamente ammontavano, alla fine del 1948, a 28.296 (talune fonti fanno lievitare la cifra ad oltre 30.000) unità di età compresa tra i tre e i 14 anni. Questa massa di piccoli disperati venne suddivisa per sesso e poi rinchiusa in appositi “centri di rieducazione socialista”. Secondo i dati della Croce Rossa, 18.500 bambini finirono distribuiti in 17 campi bulgari e il resto in 11 campi romeni, altrettanti ungheresi, diciotto cecoslovacchi, tre polacchi, cinque albanesi e della Germania Orientale e 15 iugoslavi (dove ne furono segregati dai 9.500 agli 11.600). Più dettagliatamente, sembra che nel 1950, cinquemila 132 bimbi risultassero presenti in Romania, quattromila 148 in Cecoslovacchia, tremila 590 in Polonia, duemila 859 in Ungheria e 2.660 in Bulgaria.
Va inoltre precisato che i frequenti sequestri di fanciulli portati a compimento dai guerriglieri comunisti greci rientravano nell’ambito di una strategia di tipo geopolitico. Forti del consenso di Tito e di quello di Stalin, le bande marxiste del nord agirono in questo modo per cercare di separare la Macedonia greca dal resto dello stato ellenico, per poi trasformarla in una repubblica socialista indipendente. Non a caso ai bambini di razza macedone residenti in Grecia che furono rapiti venne affibbiato l’appellativo di Detsa Begaltsi (bambini sfollati). Detto questo, va ricordato che a molti altri bimbi greci non di origini macedoni trasferiti in Bulgaria o Iugoslavia fu poi fatto loro credere di vantare egualmente origini macedoni. Nell’estate del 1948, quando la rottura tra il leader Tito e il Cominform divenne una realtà, il dittatore iugoslavo volle sganciarsi da ogni responsabilità e di conseguenza 11.600 bambini reclusi nelle “case del Popolo” iugoslave vennero spediti in Cecoslovacchia, Ungheria, Romania e Polonia. E tutto ciò nonostante le ripetute, vane proteste del governo greco.
Il 17 novembre 1948, la Terza Assemblea Generale delle Nazioni Unite votò una risoluzione (la n. 193) che condannò senza mezzi termini l’operato dei partigiani comunisti ellenici, e nel novembre dell’anno successivo, l’ONU richiese inutilmente (con la risoluzione n. 288) agli Stati comunisti di riconsegnare alla Grecia tutti i bambini sequestrati. Ma i governi di Praga, Budapest, Bucarest e Varsavia negarono la restituzione affermando in un comunicato congiunto “che la deportazione era stata in realtà un atto umanitario atto a salvaguardare la vita dei bambini greci dagli orrori della Guerra Civile”.
Nulla di più falso in quanto, secondo i resoconti della Croce Rossa Internazionale forniti alle Nazioni Unite e molteplici dossier redatti dalle ambasciate e dai consolati occidentali in Europa Orientale, il vero scopo dei rapimenti portati a compimento dalle bande comuniste elleniche era ben altro. I ragazzini sequestrati, che venivano sottratti alla famiglie in quanto considerate “cellule primarie di una società contadina corrotta in quanto legata alla religione e alla monarchia”, erano solitamente trasferiti in appositi “villaggi proletari per l’infanzia” ubicati in Albania, Iugoslavia, Bulgaria, Ungheria e poi, come si è visto, in altri Paesi d’oltre cortina, dove venivano sì nutriti e vestiti, ma anche sottoposti ad una martellante propaganda politica, o meglio ad un vero e proprio lavaggio del cervello, con lo scopo di trasformarli in fedeli esecutori del verbo marxista. Tuttavia, stando alle memorie di Zavros Constandinides, giovane greco che, recluso per anni in Ungheria, nel 1956 riuscì a fuggire – partecipando tra l’altro alla rivolta anti sovietica di Budapest (23 ottobre al 10 – 11 novembre 1956) – “pochi furono i miei coetanei a piegarsi alla dottrina comunista”. Con il compimento del tredicesimo anno di età tutti i ragazzi venivano poi impiegati, o meglio ‘schiavizzati’, per effettuare pesanti lavori di pubblica o militare utilità. Come accadde per i piccoli deportati in Ungheria, costretti ad effettuare massacranti lavori di bonifica nella regione paludosa dell’Hartchag.
Dopo la fine della Guerra Civile Greca, un ristretto nucleo di fanciulli riuscì a fare ritorno alle proprie famiglie. Tra il 1950 e il 1952, i regimi d’oltre cortina permisero ad appena 684 di essi di rimpatriare: fortuna che, nel 1963, arrise ad altri 4.000 bambini, divenuti ormai uomini. Va ricordato che anche altri fanciulli greci rapiti, poi diventati adulti, riuscirono per vie traverse a raggiungere, verso la fine degli anni Cinquanta, il confine della Germania occidentale e a mettersi in salvo.
Ciononostante, dopo la fine della Guerra Civile, moltissimi bambini non fecero più rientro in Grecia, alcuni perché avevano deciso di rimanere nei Paesi del Blocco Orientale, molti altri perché erano “misteriosamente scomparsi” nei campi di rieducazione, come riferì la Croce Rossa Greca. Successivamente, la regina di Grecia Federica di Hannover creò, grazie al sostegno della Nazioni Unite, 58 “Città dei Bambini” o Paidopolei, suscitando la violenta contestazione di tutta la sinistra europea che aveva in odio l’aristocratica tedesca) nei quali confluiranno molti orfani greci ed anche i figli di combattenti del DSE.
Ma torniamo al destino dei fanciulli dispersi in Europa Orientale. Ancora agli inizi degli anni Ottanta, in Polonia risultavano presenti circa 1.000/1.500 (alcune fonti riportano cifre ancora più elevate) greci rapiti, ancora in tenerissima età, nel 1948. In seguito, molti di essi entrarono a fare parte del Movimento “Solidarność” (Sindacato Autonomo dei Lavoratori “Solidarietà”) fondato nel settembre 1980 da Lech Wałesa, ed alcuni vennero incarcerati anche dal regime comunista di Varsavia dopo l’introduzione della legge marziale del dicembre 1981. Nel 1989, con l’inizio del processo di democratizzazione del Paese, la quasi totalità degli ex ‘piccoli’ profughi ellenici fece domanda per ritornare in Grecia.
Nel 1985, il fenomeno del rapimento in massa dei bimbi venne ripreso dal noto regista e produttore cinematografico e televisivo inglese Peter Yates con il film Eleni, interpretato, tra gli altri, da John Malkovich e Linda Hunt. La pellicola venne però snobbata dalla quasi totalità della critica di sinistra (soprattutto quella italiana) alla quale non andò evidentemente a genio l’imbarazzante soggetto. La trama del film narra la storia, un po’ romanzata, della quarantunenne Eleni Gatzoyiannis, assassinata dai guerriglieri comunisti il 28 agosto del 1948 nel villaggio montano di Lia. La donna venne fucilata e finita con un colpo alla nuca suo figlio Nicholas, emigrato fortunosamente in America, riuscirà poi, alla fine della Guerra Civile, a fare rientro in Grecia per capire le vere ragioni della morte di sua madre.
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