“Robinson”, l’inserto culturale de “la Repubblica”, ha lanciato da alcune settimane un torneo letterario costruito sulla formula un po’ calcistica dell’eliminazione diretta. Le trentadue opere selezionate in partenza, collegate ad altrettanti scrittori significativi del Novecento italiano, si sfidano subendo il verdetto di sette lettori accreditati dal giornale: chi vince passa al confronto seguente. Tra le sfide più calde della prima fase quella tra Giovanni Guareschi con il suo Don Camillo e Umberto Eco, in lizza con Il nome della rosa. Un confronto oggettivamente difficile per Guareschi, visto l’orientamento de “la Repubblica”, i legami della testata con Eco, collaboratore di punta del gruppo Espresso-Repubblica, e – si suppone – le simpatie dei “giurati”.
In realtà, il risultato ha ribaltato le previsioni della vigilia con un clamoroso 4 a 3 per l’autore di Don Camillo, che è passato al turno seguente. Onore ai lettori che hanno preferito il destro-destro Guareschi a una delle icone intellettuali della sinistra, motivando la loro scelta con spirito anticonformista, al punto da giudicare Eco ampolloso, opulento, macchinoso e pretenzioso, laddove Guareschi viene apprezzato per “l’umiltà e la saggezza dei piccoli gesti”, a tratti sorprendente, da leggere.
Insomma un ulteriore sdoganamento culturale per un autore che – nel dopoguerra – è stato considerato a sinistra illeggibile e insignificante al punto da essere bollato come “tre volte cretino” da Palmiro Togliatti, il leader maximo del Partito Comunista Italiano, venendo poi archiviato, nel luglio 1968, in occasione della morte dell’autore di Don Camillo, con un titolo infamante e volgare: “È morto lo scrittore che non era mai sorto”.
Uno sdoganamento quello offerto da “la Repubblica” ancora più importante per essere arrivato da un giornale-partito connotato “a sinistra”, in un contesto culturalmente significativo, qual è il “torneo letterario” di “Robinson”. Qualche altro segnale c’era peraltro già stato.
Lo “sfidante” Eco, nei saggi Sulla letteratura del 2002, aveva già indicato tra le sue letture giovanili autori come Giovanni Mosca e Guareschi, colonne, nel 1948, della battaglia anti Pci. Non era certamente un caso visto che all’epoca l’imberbe autore del Nome della rosa era impegnato nella GIAC (l’allora ramo giovanile dell’Azione Cattolica) e nei primi Anni Cinquanta era stato chiamato tra i responsabili nazionali del movimento studentesco dell’AC di stretta osservanza anticomunista.
Michele Serra, oggi giornalista di punta de “la Repubblica”, nel 1994, era andato oltre, distribuendo Don Camillo con il settimanale satirico “Cuore”, nato da una costola de “l’Unità”, arrivando a scrivere che Guareschi non appartiene né alla destra né alla sinistra, ma a tutti, come i grandi scrittori, rivalutandone pasoliniamente il populismo antiborghese e l’identità contadina.
Diciamo che il sorpasso di Guareschi su Eco conferma una tendenza, smentendo la vulgata sui lettori de “la Repubblica” e invitando a riconsiderare le coordinate fondamentali della letteratura del Novecento italiano. Ulteriori risultati lo confermano: il “non collaboratore” Giuseppe Berto che supera, nella sfida di “Robinson”, il Pier Paolo Pasolini di Ragazzi di vita; Leonardo Sciascia che batte Andrea Camilleri; il conservatore Giuseppe Tomasi di Lampedusa che supera il “ribelle” Luciano Bianciardi.
Anche la sfida, ora in corso, tra Guareschi e Piero Chiara offre scenari inusuali, con il nazional-popolare e monarchico padre di Don Camillo e un liberale di vecchia scuola, rara avis in un’intellettualità impegnata non a sinistra, al punto da essere nominato vicepresidente del Pli, il Partito Liberale Italiano: una sfida – a ben guardare – tutta interna al centrodestra, seppure sulle colonne di un quotidiano di orientamento laico e riformista.