Di Alberto Rosselli
LA QUESTIONE ARMENA TRA STORIA E ATTUALITA’
La persecuzione scatenata nel 1915 dai turchi nei confronti del popolo armeno residente in Anatolia e nel resto dell’Impero ottomano rappresenta forse il primo esempio dell’epoca contemporanea di sistematica e scientifica soppressione di una minoranza etnico-religiosa. Un piano di eliminazione che non scaturì soltanto dall’ideologia panturchista e panturanista del sedicente partito “progressista” dei Giovani Turchi, ma che trasse le sue origini dalle antiche e mai del tutto sopite contrapposizioni tra la maggioranza musulmana turca e curda e la minoranza cristiana armena.
Con l’espressione “genocidio armeno” (in lingua armena Medz Yeghern, Grande Male) (1) ci si riferisce tuttavia a due eventi distinti ma legati fra loro: il primo, quello relativo alla campagna contro gli armeni condotta negli anni 1894-1896 dal sultano Abdul Hamid II; il secondo, quello collegato alla deportazione ed eliminazione degli armeni compiute nel corso del Primo Conflitto Mondiale dal nuovo governo della Sublime Porta controllato dai Giovani Turchi.
L’attualità
Prima di addentrarci in questo delicato e violentemente dibattuto argomento che, come è noto vede contrapposte diverse scuole di pensiero, cerchiamo di fare – in estrema sintesi – il punto dell’attuale situazione del popolo armeno residente entro i confini dello stato anatolico e dei rapporti tra la Turchia e lo Stato Armeno indipendente di Erevan. Nel 1991 in seguito della dissoluzione dell’Unione Sovietica, sulle ceneri dell’ex Repubblica Sovietica Armena fu fondata la Repubblica Armena. Il 90% della regione storica è comunque rimasto sotto il controllo della Turchia che, oltre a non voler ammettere – al contrario di alcuni suoi intellettuali di spicco, come il noto scrittore (già Premio Nobel 2006) Ferit Orhan Pamuk – alcuna responsabilità riguardo al genocidio, rifiuta categoricamente la restituzione anche parziale dei territori da essa occupati. Nel 1989, ebbe inizio la sanguinosa guerra con il vicino Azerbaigian per il controllo dell’Artzak (Nagorno-Karabach), enclave armena in territorio azero, conflitto che si è concluso con l’acquisizione dell’indipendenza della provincia cristiana. Recentemente, anche i rapporti tra curdi ed armeni sembrano essere migliorati, in buona misura perché entrambe le minoranze si sentono a tutt’oggi minacciate o discriminate da Ankara. Un discorso a parte meritano i rapporti tra l’Armenia e l’Azerbaigian turcofono che risultano sempre molto tesi a causa delle rivendicazioni azere sul territorio del neonato stato di Artzak e per le rivendicazioni armene sul Nakitcevan provincia affidata all’Azerbajan dal trattato russo-turco del 1921.
Come ha scritto lo storico turco Altuğ Taner Akçam, la questione armena rappresenta a tutt’oggi “il buco nero dell’identità repubblicana turca”,. Anche se, a partire dall’inizio del 2005, la messa in discussione di questo tabù è già stata però avviata, seppure timidamente, con una mostra ad Istanbul di 600 cartoline d’epoca: esposizione che nelle intenzioni degli organizzatori aveva come obbiettivo quello di “fare prendere gradualmente coscienza ai cittadini turchi di quanto vasta e radicata fosse stata la presenza armena sul territorio ottomano”. Successivamente, ad Istanbul, il primo ministro Recep Tayyip Erdoğan ha inaugurato un museo armeno. E da quel momento il processo di “revisione storica” ha subito una notevole accelerazione. In più occasioni, i canali televisivi del paese, compresa la tradizionalmente ingessata tv di stato, hanno proposto trasmissioni dedicate alla questione armena nella quale storici, giornalisti, opinion makers, intellettuali delle più diverse posizioni ed orientamenti hanno avuto modo di confrontarsi e scontrarsi in dibattiti interminabili. Una fibrillazione generalizzata che non ha risparmiato nemmeno gli scaffali delle librerie. Accanto agli inserti speciali di alcune riviste dedicati alla “tragedia armena”, tre sono le iniziative editoriali che meritano di essere segnalate. La prima è rappresentata dal volume “1915, che cosa è successo?”, libro che raccoglie le interviste pubblicate sull’argomento dal popolare quotidiano di centro-destra Hurriyet. Tra esse trovano posto quelle di intellettuali turchi e di esponenti della comunità armena. Abbiamo avuto poi un vero caso editoriale rappresentato dal libro Anneannem (“Mia nonna”) che, nonostante la scarsa pubblicità, ha raggiunto inattesi picchi di vendite. Si tratta di un racconto autobiografico in cui Ferhiye Cetin affronta un aspetto fino ad oggi poco noto della tragedia del 1915: il caso di decine di migliaia di bambini armeni adottati da famiglie mussulmane e scampati al massacro. Da segnalare, infine, M.K. Memorie della deportazione un libro-intervista curato dal professor Baskin Oran, uno degli intellettuali più esposti sul fronte della difesa delle minoranze. Tutte queste riscoperte altro non sono che il prodotto della convergenza di elementi diversi: il pluralismo prodotto dal processo di democratizzazione, le pressioni dei paesi UE che si sono intensificate con il progredire del percorso europeo della Turchia ed infine la ricorrenza, il 24 aprile, del 90° anniversario dei fatti del 1915 e la conseguente rinnovata mobilitazione della diaspora armena nel mondo. Un dibattito che ha però causato anche pesanti contraccolpi e violente proteste da parte di una porzione consistente dell’opinione pubblica e di non pochi uomini di cultura e politici, tra cui il ministro della Giustizia Cemil Cicek che ha accusato di “revisionismo” gli intellettuali e i giornalisti impegnati nella riscoperta del genocidio dimenticato”. Atteggiamento che, seppure indirettamente, ha indotto alcuni gruppi estremisti turchi a compiere gesti sconsiderati. Ricordiamo, a questo proposito, l’assassinio dello scrittore e giornalista turco di origini armene Hrant Dink, assassinato il 19 gennaio 2007, a Istanbul, davanti alla redazione di Argos, il giornale di cui era direttore. L’intellettuale, che da tempo si batteva per i diritti umani, e che in passato era stato più volte perseguito dalla giustizia turca.
L’atteggiamento dell’Occidente
In questi ultimi dodici anni, la questione armena è uscita di prepotenza dai confini turchi, trasformandosi in un tema di dibattito internazionale che ha indotto, o costretto, anche importanti istituzioni sovranazionali, oltre al Parlamento europeo, a pronunciarsi chiaramente in merito. Ricordiamo i più recenti riconoscimenti da parte di organi internazionali del genocidio armeno.
Il 27 aprile 1994, nel corso di una seduta del Parlamento israeliano, il viceministro degli Esteri Iosi Beilli affermò che lo sterminio dei cristiani anatolici fu un vero e proprio genocidio, concetto ribadito nel 2000 da altri due ministri di Tel Aviv. Il 14 aprile 1995, il Parlamento (duma) russo riconobbe all’unanimità il genocidio armeno e lo stesso anno anche i parlamenti bulgaro e cipriota si espressero in maniera analoga, seguiti nel successivo biennio dalle assemblee legislative greca e libanese. Nel 1998 fu la volta del Senato belga e di quello argentino. Il 29 maggio 1998 e il 18 gennaio 2001 l’Assemblea nazionale francese fece altrettanto, imitando la delibera dello stesso Senato transalpino dell’8 novembre 2000. Il 29 marzo 2000 lo sterminio armeno venne formalmente riconosciuto anche dal Parlamento svedese e dell’Uruguay, e il 10 novembre dello stesso anno si mosse il Vaticano seguito, il 15 novembre 2000, dal Parlamento europeo che in questa occasione pose il “riconoscimento del genocidio da parte di Ankara” quale condizione imprescindibile per l’integrazione turca nella UE.
Il 13 giugno 2002, il 16 dicembre 2003 e il 30 novembre 2006 anche il Senato canadese, il Parlamento svizzero e l’Assemblea nazionale della Repubblica slovacca hanno condannarono l’olocausto. Seguirono le decisioni di molte assemblee legislative locali come ad esempio quella dell’Ontario e del Québec (Canada), quella del Nuovo Galles del Sud (Australia) e di ventiquattro governatorati statunitensi.
Ma a questo punto occorre soffermarsi sul riconoscimento dell’olocausto armeno da parte del Vaticano. Infatti, se da un lato ancora in tempi recenti la Santa Sede lo ha esplicitamente condannato, nel corso del suo recente viaggio in Turchia il pontefice Benedetto XVI sembra avere leggermente smorzato i toni — probabilmente per un comprensibile senso di opportunità — suscitando qualche malumore all’interno della comunità armena internazionale.
Il 30 novembre 2006 a Istanbul, mentre era in visita alla sede del Patriarcato armeno apostolico, il Papa non ha infatti voluto pronunciare la parola “olocausto”, limitandosi a ricordare “il dramma del popolo armeno”. Anche se nella parte conclusiva di un suo intervento ha voluto «rendere grazie a Dio per la fede e la testimonianza cristiana che il popolo armeno è stato capace di trasmettere da una generazione all’altra.»
Per quanto concerne l’Italia, ricordiamo le iniziative parlamentari del 1998 e del 2000 promosse dall’onorevole Giancarlo Pagliarini (Lega Nord per l’Indipendenza della Padania) che, tuttavia, hanno raccolto il consenso di appena 165 deputati appartenenti a vari schieramenti. Per la cronaca, l’allora governo di centrosinistra presieduto da Giuliano Amato, dando prova di incoerenza etica e politica (il precedente esecutivo di centrosinistra si era strenuamente battuto per la causa curda in occasione dell’affare Abdullah Apo Öcalan), decise di accantonare la mozione definendo come «non opportuno per approvare un documento di riconoscimento ufficiale dello sterminio armeno il particolare momento storico-politico.»
Sempre in Italia, a cavallo degli anni 1997-2003, il genocidio armeno è stato però riconosciuto da molti enti amministrativi locali, tra i quali i consigli comunali di Roma, Milano, Genova, Firenze, Venezia, Padova, Parma, Ravenna, Belluno e Udine, oltre che dall’ANCI (Associazione Nazionale Comuni d’Italia) e dal Consiglio regionale della Lombardia.
Come si può notare, né il governo nordamericano, né la totalità dei paesi islamici (che, in odio ai cristiani anatolici, spalleggiano più o meno apertamente Ankara) né quelli africani, o cinese, indiano, indonesiano, cubano, nordcoreano e vietnamita hanno mai preso iniziative simili. Nel caso degli Stati Uniti si è trattato di un atteggiamento indotto da motivazioni di pratica ma ruvida Realpolitik. Per ragioni geostrategiche e militari, da decenni, infatti, Washington mantiene con Ankara un rapporto di stretta alleanza e cooperazione: intesa che la Casa Bianca non desidera affatto incrinare. A tutt’oggi, dunque, parecchie nazioni sembrano voler mantenere un atteggiamento di neutralità se non di pelosa comprensione nei confronti della Turchia, vuoi appunto per interessi economici, vuoi per questioni religiose, vuoi per sostanziale e colpevole indifferenza.
Considerate queste premesse, il riconoscimento del genocidio armeno e la sua condanna non costituiscono uno specifico problema storico riguardante soltanto gli armeni come popolo, ma una questione controversa che riveste un carattere politico, e non soltanto morale, molto più ampio: un problema del quale dovrebbero farsi carico tutte le nazioni e le organizzazioni mondiali, nessuna esclusa, pena una verticale caduta di credibilità.
Una storia di incomprensioni
Fatte queste indispensabili premesse, tentiamo ora di ricostruire per sommi capitoli la storia meno recente dei travagliati rapporti tra il popolo turco e quello armeno, evidenziando le motivazioni etnico-religiose e politiche che, a partire dall’ultimo frammento dell’Ottocento, indussero i vertici dell’Impero Ottomano ad assumere un atteggiamento via via sempre più ostile nei confronti della minoranza armena: atteggiamento che a partire dal 1915 assumerà valenze sempre più dure e drammatiche che culmineranno in una vera e propria tragedia.
Verso la fine del XIX secolo, la crisi politica, economica e sociale dell’impero ottomano si fece sempre più grave, sfociando in sedizioni e sommosse. A Salonicco un gruppo di ufficiali dell’esercito, affiancato da alcuni esiliati politici turchi confluiti nella Ittihad ve Terakki (il partito Unione e Progresso), iniziò a tramare contro l’incapace e retrogrado governo centrale di Costantinopoli, con l’obiettivo di intraprendere, anche con la forza, un necessario quanto urgente processo di modernizzazione dell’impero ormai sull’orlo del collasso.
Il 24 luglio del 1908, il Comitato Centrale di Unione e Progresso detronizzò il sultano Abdul Hamid II sostituendolo con il più malleabile fratello Muhammad. Seguì un breve periodo di euforia da parte delle minoranze etniche e religiose della Sublime Porta, tra cui quella armena, che confidavano nell’inizio di una nuova era caratterizzata da maggiori libertà. Si trattò però di una semplice speranza destinata a svanire di fronte ai reali e non dichiarati intenti che in segreto animavano i cuori degli appartenenti ad un nuovo partito ‘progressista’, il Movimento dei Giovani Turchi, intenzionati sì a modernizzare economicamente e socialmente il loro agonizzante impero, ma anche ad unificarlo etnicamente e religiosamente, espandendone nuovamente i confini non ad occidente, come avevano quasi sempre fatto i sultani del passato, bensì ad oriente, in direzione della Persia, del Caucaso e delle immense regioni asiatiche centrali, abitate da popoli (tartari, azerbaigiani, ceceni, kazachi, uzbechi, kirghisi e tagiki) linguisticamente ed etnicamente affini al popolo anatolico. La teoria geopolitica intorno alla quale ruotava questo piano si basava sull’ideologia panturanica. Secondo il padre di quest’ultima – l’orientalista, linguista ed esploratore ungherese Arminius Vambery (1832–1913) – l’impero ottomano avrebbe infatti potuto e dovuto allargare i suoi confini all’intera area caucasica e asiatico-centrale in virtù della già citata uniformità etnico-religiosa che caratterizzava l’intero “popolo” turco.
Fu per questa ragione che, il 26 gennaio 1913, un triumvirato di Giovani Turchi formato da Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Jemal – nonostante i precedenti proclami inneggianti l’eguaglianza di tutti i sudditi della Sublime Porta – iniziarono ad organizzare un piano di persecuzione nei confronti di tutte le minoranze, prima fra tutte quella armena, mettendo in piedi un’efficiente struttura paramilitare, l’Organizzazione Speciale (O.S.), coordinata da due medici, Nazim e Shaker, e dipendente dal Ministero della Guerra e da quello degli Interni e della Giustizia.
Nel 1914, con l’entrata in guerra della Turchia a fianco degli Imperi Centrali, i Giovani Turchi poterono finalmente rendere più che palesi le loro intime convinzioni e dare il via ad una sistematica e scientifica persecuzione destinata a protrarsi per quasi tutta la durata del Primo Conflitto Mondiale.
Questa persecuzione, lo rammentiamo, interessò pure la minoranza greca e quella assiro-caldea, entrambe cristiane, già vessate dai turchi a partire dall’inizio del XX secolo.
Metodologie e tappe della persecuzione
Tra l’aprile e il maggio 1915, i turchi concentrarono i loro sforzi nell’eliminazione dell’élite economico-culturale e dei militari armeni. Il 24 aprile 1915 (che verrà in seguito ricordata come la data commemorativa del ‘genocidio’), a Costantinopoli, circa 500 armeni furono incarcerati e poi eliminati. Tra le vittime vi era anche il deputato Krikor Zohrab che pensava di godere dell’amicizia personale di Talaat Pascià, molti intellettuali, come il poeta Daniel Varujan, giornalisti e sacerdoti. Tra gli uomini di chiesa, Soghomon Gevorki Soghomonyan (più noto come il monaco Komitas), padre della etnomusicologia armena. Komitas fu deportato assieme ad altri 180 intellettuali armeni a Çankırı in Anatolia centro settentrionale. Egli sopravvisse alla prigionia e alla guerra grazie all’intervento del poeta nazionalista turco Emin Yurdakul, della scrittrice turca Halide Edip Adıvar e dell’ambasciatore americano Henry Morgenthau. Trasferitosi nel 1919 a Parigi, Komitas, sulla scorta degli orrori patiti, impazzì finendo i suoi giorni in un manicomio, nel 1935.
Tra il maggio e il luglio del 1915, gli ottomani, spalleggiati da bande curde (2) e da reparti formati da ex detenuti, setacciarono le comunità delle province di Erzerum, Bitlis, Van, Diyarbakir, Trebisonda, Sivas e Kharput, dove soprattutto i reparti curdi depredarono e massacrarono migliaia tra donne, vecchi e bambini e decine di sacerdoti a molti dei quali, prima dell’esecuzione, furono strappati gli occhi, le unghie e i denti. Gevdet Bey, vali (governatore) della città di Van e cognato del ministro della Difesa Enver Pascià, era solito fare inchiodare ai piedi dei prelati ferri di cavallo arroventati. Stando ad un rapporto del console statunitense ad Ankara, nel luglio 1915, diverse migliaia di soldati armeni inquadrati nell’esercito ottomano e reduci dalla disastrosa campagna del Caucaso (scatenata nel dicembre del 1914 da Enver Pascià contro le forze zariste al comando del generale Nikolai Yudenich) furono improvvisamente disarmati dai turchi e spediti nelle zone di Kharput e Diyarbakir con il pretesto di utilizzarli nella costruzione di una strada. Ma una volta giunti sul posto essi vennero tutti fucilati.
Solitamente, i turchi organizzavano le deportazioni di massa trasferendo i loro prigionieri in località piuttosto remote. Una delle destinazioni prescelte fu la desolata regione siriana di Deir al-Zor, dove centinaia di intere famiglie armene furono ammassate e lasciate morire di stenti in primordiali lager privi di baracche e servizi igienici.. In terra siriana vennero anche spediti migliaia di giovani ragazze e ragazzi armeni che riuscirono però a scampare alla morte in parte perché venduti a gestori arabi di bordelli per etero e omosessuali, e in parte perché rinchiusi negli speciali orfanotrofi per cristiani gestiti da Halidé Edib Adivart, una sadica virago incaricata da Costantinopoli di ‘rieducare’ I piccoli armeni.
“Le deportazioni – annotò in questo periodo il diplomatico tedesco Max Erwin von Scheubner-Richter –furono giustificate dal governo turco con la scusa di un necessario spostamento delle comunità armene dalle zone interessate dalle operazioni militari (Anatolia orientale e nord orientale, n.d.a) (…) Non escludo che gran parte dei deportati furono massacrati durante la loro marcia. (…) Una volta abbandonati i loro villaggi, le bande curde e i gendarmi turchi si impadronivano di tutte le abitazioni e i beni degli armeni, grazie anche ad una legge del 10.6.1915 ed altre a seguire che stabiliva che tutte le proprietà appartenenti agli armeni deportati fossero dichiarate “beni abbandonati” (emvali metruke) e quindi soggetti alla confisca da parte dello Stato turco”. E a testimonianza dei risvolti economici della strage, basti pensare che “i profitti derivati all’oligarchia dei Giovani Turchi e ai suoi lacchè dai beni rapinati agli armeni arrivarono a toccare la cifra astronomica di un miliardo di marchi”. Nell’inverno del ‘15, il conte Wolff-Metternich decise di riferire al ministero degli Esteri tedesco il protrarsi “di questi inutili e crudeli eccidi”, chiedendo un intervento ufficiale presso la Sacra Porta Venuti al corrente della protesta, Enver Pascià e Taalat Pascià chiesero a Berlino la sostituzione di Wolff-Metternich che nel 1916 dovette infatti rientrare in Germania.
Va comunque detto che non tutti i governatori turchi accettarono di eseguire per filo e per segno gli ordini di Costantinopoli. Nel luglio 1915, ad esempio, il vali di Ankara si oppose allo sterminio indiscriminato di giovani e vecchi, venendo rimosso e sostituito da un funzionario più zelante, tale Gevdet, che nell’estate del ‘15 a Siirt fece massacrare oltre 10.000 tra armeni ortodossi, cristiani nestoriani, giacobini e greci del Ponto. Resoconti sui molteplici eccidi sono registrati anche nelle memorie di altri addetti diplomatici francesi, bulgari, svedesi e italiani (come il console di Trebisonda, Giovanni Gorrini) presenti all’epoca in Turchia
Nonostante tutto, il governo turco non si reputava ancora soddisfatto di come stava procedendo la risoluzione del “problema armeno”. “In base alle relazioni da noi raccolte – annotò il 10 e il 20 gennaio del 1916, il notabile Abdullahad Nouri Bey – mi risulta che soltanto il 10 per cento degli armeni soggetti a deportazione generale abbia raggiunto i luoghi ad essi destinati; il resto è morto di cause naturali, come fame e malattie. Vi informiamo che stiamo lavorando per avere lo stesso risultato riguardo quelli ancora vivi, indicando e utilizzando misure ancora più severe (…) Il numero settimanale dei morti non è ancora da considerarsi soddisfacente”.
Nel 1916, Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Jemal diedero quindi un ulteriore giro di vite, intimando ai loro governatori e ai capi di polizia di “eliminare con le armi, ma se possibile con mezzi più economici, tutti i sopravvissuti dei campi siriani e anatolici”. In questa fase del massacro ebbe modo di distinguersi per efficienza il governatore del già citato distretto di Deir al-Azor, Zeki Bey, che – secondo quanto riportano James Bryce e Arnold Toynbee in The Treatment of Armenians in the Ottoman Empire, 1915–1916 – “rinchiuse 500 armeni all’interno di una stretta palizzata, costruita su una piana desertica, e li fece morire di fame e di sete”. Durante l’estate del 1916, gli uomini di Zeki eliminarono complessivamente oltre 20.000 armeni. A dimostrazione della criminale sfacciataggine dei leader turchi, basti pensare che Taalat Pascià arrivò a vantarsi dell’efficienza del suo governatore con l’ambasciatore americano Morgenthau, al quale egli ebbe anche il coraggio di chiedere “l’elenco delle polizze assicurazioni sulla vita che gli armeni più ricchi (deceduti nei campi di sterminio) avevano precedentemente stipulato con compagnie americane, in modo da consentire al governo di incassare gli utili delle polizze”.
Altrettanto crudele ed anche beffardo risultò il destino delle comunità armene dell’Anatolia orientale che, grazie anche all’intervento dell’armata zarista, erano riuscite a trovare momentaneo rifugio nelle valli del Caucaso. In seguito alla rivoluzione bolscevica del 1917, l’esercito russo si era infatti ritirato dall’Anatolia orientale e dalla Ciscaucasia, abbandonando gli armeni al loro destino. Rioccupata l’importante città-fortezza di Kars, le forze ottomane iniziarono una vera e propria caccia all’uomo, eliminando circa 19.000 cristiani. Identica sorte toccò a quei profughi armeni che, rifugiatisi in Azerbaigian, furono massacrati dalle locali minoranze mussulmane tartare e cecene che, nel 1918, nella sola area di Baku, ne eliminarono 30.000.
La resa dei conti
Ma la guerra stava ormai volgendo al termine e nell’imminenza del crollo della Sublime Porta, i responsabili delle stragi iniziarono a dileguarsi. Quando, nell’ottobre 1918, la Turchia si arrese alle forze dell’Intesa, i principali dirigenti del partito dei Giovani Turchi vennero arrestati dai britannici ed internati a Malta per un breve periodo. A carico dei fautori e degli esecutori dei massacri fu intentato un processo svoltosi nel 1919 a Costantinopoli sotto la supervisione del nuovo primo ministro Damad Ferid Pascià che alla Conferenza di pace di Parigi, il 17 luglio 1919 aveva ammesso i crimini perpetrati ai danni degli armeni.
Lo scopo del processo di Costantinopoli non era in realtà quello di rendere giustizia al popolo armeno e di chiarire le colpe pregresse dell’amministrazione ottomana (cioè quelle di prima della Grande Guerra), bensì quello di scaricare tutte le colpe sui leader dei Giovani Turchi, sicuramente responsabili, ma che avevano potuto portare a compimento il loro piano di sterminio, grazie alla connivenza di larghi strati della burocrazia civile e militare. Il processo si risolse quindi in una farsa, senza considerare che nei confronti dei molti imputati condannati in contumacia (nell’autunno del 1918 quasi tutti erano riusciti ad abbandonare al Turchia), non furono mai presentate richieste di estradizione. Non solo. In una fase successiva anche i verdetti della corte vennero in gran parte annullati ed archiviati.
Nell’ottobre del 1919, a Yerevan, i vertici del partito armeno Dashnak, più che mai decisi a farsi giustizia, misero a punto un piano (l’Operazione Nemesis) per eliminare di circa 200 tra uomini politici, funzionari turchi e ‘collaborazionisti’ armeni ritenuti direttamente o indirettamente responsabili del genocidio.
Il 15 marzo del 1921, a Berlino, l’ex ministro degli Interni Talaat Pascià, il principale artefice dell’olocausto armeno, venne ucciso da Solomon Tehlirian che, tuttavia, dopo essere stato arrestato e processato, nel mese di giugno dello stesso anno sarà graziato da un tribunale tedesco. Il 18 luglio 1921, fu la volta di Pipit Jivanshir Khan, coordinatore del massacro di Baku, assassinato a Constantinopoli, da Misak Torlakian. Il killer fu arrestato, ma rilasciato dalla polizia inglese. Il 5 dicembre, a Berlino, l’agente Arshavir Shiragian eliminò l’ex primo ministro turco Said Halim Pascià. Shiragian scampò all’arresto, rientrando poi a Constantinopoli. Il 17 aprile 1922, sempre a Berlino, Aram Yerganian, spalleggiato probabilmente da un altro sicario (il misterioso “agente T”) da lui ingaggiato, freddò Behaeddin Shakir Bey, coordinatore dello speciale Comitato ittihadista e Jemal Azmi, il ‘mostro’ di Trebisonda, responsabile della morte di 15.000 armeni, e già condannato, nel 1919, alla pena capitale da un tribunale militare turco che tuttavia non aveva ritenuto opportuno rendere esecutiva la sentenza. Il 25 luglio 1922, fu la volta dell’ex ministro della Difesa Jemal Pascià che a Tbilisi cadde sotto i colpi di Stepan Dzaghigian e Bedros D. Boghosian. Curiosa, ma decisamente consona al personaggio fu invece la fine di Enver Pascià, probabilmente il più ambizioso e idealista dei triumviri turchi, il “piccolo Napoleone” dell’impero e il più tenace propugnatore del movimento “internazionalista” turco. Rifugiatosi tra le tribù dell’Asia Centrale, dove pensava di realizzare il suo antico sogno panturanico, cioè la creazione di una Grande Nazione Turca, agli inizi degli anni Venti Enver scatenò una rivolta mussulmana contro il potere sovietico. Ma il 4 agosto 1922, nei pressi di Baldzhuan, località del Turkestan meridionale (oggi inclusa del territorio del Tagikistan) egli venne sconfitto e ucciso con pochi suoi seguaci da preponderanti forze bolsceviche.
NOTE:
1) Il termine “genocidio” fu coniato negli anni Quaranta dal giurista americano di origine ebraico-polacca Raphael Lemkin proprio in riferimento alla repressione armena.
2) A proposito della collaborazione fornita dai curdi al governo centrale, va ricordata l’istituzione da parte del sultano dei reggimenti Hamidye, reparti paramilitari dipendenti dall’esercito e dalla gendarmeria turchi, che vennero largamente utilizzate per depredare o incendiare le comunità armene “ribelli”).
BIBLIOGRAFIA:
H.Kaiser, Imperialism, Racism and Development Theories: The Construction of a Dominant Paradigm on Ottoman Armenians, Gomidas Institute Books, Princeton, 1998
H.Kaiser, The Baghdad Railway and the Armenian Genocide, 1915-1916: A Case Study in German Resistance and Complicity, in Remembrance and Denial: the Case of the Armenian Genocide, Wayne State University Press, 1999
R. Kevorkian, L’extermination des deportés arméniens ottomans dans les camps de concentration de Syrie-Mésopotamie (1915-1916), Revue d’Histoire Arménienne Contemporaine, Tome II, Paris, 1998
Y. Ternon, Gli armeni. 1915-1916: il genocidio dimenticato, Rizzoli, Milano, 2003
C. Mutafian, Metz Yeghérn Breve storia del genocidio degli armeni, Angelo Guerrini & Associati, Milano 1998
A. Rosselli, Sulla Turchia e l’Europa, Solfanelli Editore, Chieti, 2006
A. Rosselli, L’olocausto armeno, Solfanelli Editore, Chieti, 2006
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