Anche Fusaro, compostamente, ci è cascato. È intervenuto con compunte riflessioni sul tema della violenza sulle donne. Per carità, in punta di forchetta, con le sue belle distinzioni filosofiche, con le concessive e le affermative. Ma alla fine appare evidente che non ha colto per nulla qual è il succo della questione. E il succo della questione è che quel fenomeno messo al centro di incontri, manifestazioni, anniversari e altre espressioni della sensibilità democratica non corrisponde affatto alla realtà fattuale, ma è lo specchietto per guidare le allodole, cioè il pensiero corrente, verso altre prospettive. Viene cioè servito un aliud pro alio, come dicevano i giuristi, una cosa per l’altra. Complice l’uso di parole truffaldine che servono a depotenziare ogni capacità critica.
La truffa consiste nel dare per scontato che da noi esista una patologica “condizione femminile”, che occorra preparare un vaccino per la malattia che non c’è, da estendere poi ad altri malati immaginari bisognosi di assistenza sanitaria gratuita. Fuori di metafora, la strombazzata violenza sulle donne è il falso problema creato a tavolino che serve perché il trattamento di particolare protezione di cui si piange la mancanza venga applicato ai diversamente sessuati, ovvero a chi è temporaneamente in transito sulla frontiera del sesso à la carte, nella prospettiva della decostruzione globalizzata dell’etica famigliare.
Ma per mettere a nudo questo meccanismo perverso occorre ripercorrere con attenzione e pazienza tutti i passaggi della sua costruzione, decifrare il codice linguistico che è servito per farlo funzionare, che ha al centro la parola genere, puntualmente usata con inaspettata leggerezza anche da Fusaro.
Il marchingegno ha una storia con date e sequenze documentabili e documentate, che bisogna conoscere come la combinazione che apre una cassaforte. Ci si deve chiedere anzitutto come mai, nell’epoca di tutte le eguaglianze costituzionalmente garantite e di un costume sociale e sessuale che appare anche ai ciechi compiutamente evoluto, non da ieri e neppure dall’altro ieri, la violenza sulle donne viene presentato improvvisamente come un fenomeno imponente e attualissimo, anche se delle sue asserite proporzioni non si ha di certo alcuna vera percezione.
La civiltà cristiana ha visto elevare la piccola Maria a Theotokos e come tale l’ha innalzata nell’abside d’oro della Cattedrale di Torcello al pari del Christo Panthocrator di Cefalù. L’occidente cristiano monogamo ha posto in ogni crocicchio l’icona della Madonna col bambino, e non ha mai conosciuto la schiavizzazione della donna, che ha sofferto e sopportato le fatiche del vivere quotidiano a fianco dell’uomo, sostituendolo spesso anche nella guida della famiglia, in campagna come in città.
Del resto, ogni civiltà degna di questo nome si è guardata dal non proteggere la donna che garantisce la continuazione della specie ed è la custode dell’infanzia. Anche nel più feroce scenario della guerra antica si passavano a fil di spada i maschi e si trovava più utile salvare le donne. Poi la modernità ha eliminato anche quella disuguaglianza politica, che persino Robespierre si era preoccupato di mantenere. E come ultima conquista femminile, la bocconiana ha messo fieramente il marketing al posto del principe azzurro, che forse non ha gradito lo sgarbo e qualche volta se ne risente, mentre l’infertilità viene promossa a forma di emancipazione esistenziale. E semmai bisognerebbe chiedersi come mai, mentre viene ripetuto ossessivamente il ritornello della violenza sulle donne, non entra neppure nel discorso pubblico il carico di inaudita violenza di ogni tipo e di rivoltante depravazione rovesciato a tutte le ore da schermi grandi e piccoli, addosso a generazioni ormai annichilite nel supermercato permanente dell’osceno.
In questo quadro, è tuttavia indubbio che i movimenti migratori hanno portato all’attenzione del disinibito occidente europeo certe drammatiche anomalie di mondi tanto lontani dalla civiltà cristiana. Ci si è accorti che in certi paesi africani e in altri di fede musulmana sono ancora in voga in danno delle donne tante pratiche perverse e ripugnanti, e che con la immigrazione esse vengono trasferite nell’ospitale Europa ponendo seri problemi di ordine pubblico. Si parla di vendite, di infibulazioni, di amputazioni genitali, di poligamia, di violenza domestica.
Allora niente di meglio che organizzare una conferenza internazionale ad Istanbul, per elaborare direttive capaci di porre rimedio al problema e per far capire che qui la musica è diversa e ad essa devono adeguarsi i nuovi ospiti.
La scelta della sede, al confine tra due mondi, non è stata dunque casuale, e qui nel 2011 si è alzato ufficialmente il sipario sulla sacra rappresentazione della violenza sulle donne.
Sennonché, è risultato poi evidente dai testi approvati, come il vero obiettivo che si è inteso perseguire andava ben oltre quello dichiarato. Infatti, il meccanismo è stato quello stesso messo in piedi durante anni con le diverse conferenze organizzate apparentemente dall’Onu sui vari temi di grande interesse collettivo, cioè sulla donna, sulla famiglia, sulla popolazione. Queste mastodontiche conferenze hanno mirato in realtà a distruggere la famiglia, anzitutto col distogliere la donna dalla sua vocazione naturale, a favorire l’aborto, a soddisfare l’interesse delle potenti lobby omosessualiste e transessualiste, introducendo il gender, quello partorito dalla alleanza tra il femminismo radicale e il sesso alternativo contro la donna, la famiglia e la procreazione.
Ecco infatti che anche a Istanbul viene subito innalzato proprio il totem del gender, che nella traduzione italiana diventa il genere. Infatti in una sorta di legenda, fatta per non lasciare spazio ai dubbi, già all’articolo 3 della Convenzione viene spiegato che col “genere” si intendono “i ruoli socialmente costruiti, comportamenti, attività, e attributi che una data società ritenga appropriati per le donne e per gli uomini”.
Dunque è stato messo sul tappeto fin dall’inizio il nucleo essenziale della demenziale teoria genderista, che serve appunto a chi vuole evadere dalle categorie biologiche e prendersi un’altra cittadinanza identitaria, in omaggio alla libertà dell’orientamento sessuale. Una teoria che ha già partorito un nuovo diritto di trasloco “da un genere all’altro”, grazie alla giurisprudenza ordinaria e costituzionale, insieme alla simmetrica demonizzazione di chiunque, in famiglia, a scuola, in qualche chiesa sopravvissuta ai venti di dottrina postconciliare, tenti di trattenere il transfuga.
Ma il movimento genderista si avvale anche di una spregiudicata mobilità concettuale, che serve ad alimentare l’imbroglio attraverso la confusione delle idee. Infatti sono state immesse da tempo nel mercato almeno tre accezioni del termine “genere”, in modo che anche la confutazione e la critica dei folli assiomi genderisti risulti all’atto pratico piuttosto difficoltosa.
Esso viene usato di volta in volta anzitutto per indicare la mobilità della identità personale in ragione del ruolo sociale prescelto, indipendentemente dal sesso biologico. Oppure, all’opposto, la assegnazione di ruoli arbitrariamente legati al sesso da parte di una società retriva e sessista: i famosi stereotipi la cui cancellazione è a centro di ogni aggiornato programma educativo.
Infine il genere torna ad essere identificato col sesso quando si vuole indicare che questo è in sé capace di scatenare, insieme a un odio primordiale, la violenza maschile contro le donne, o più in generale la misoginia. Dunque, addirittura in uno stesso contesto, la medesima parola può diventare trivalente come i vecchi vaccini.
Ora anche questo gioco di prestigio lo si ritrova puntualmente nel testo di Istanbul. Sempre nella stessa legenda troviamo che per “violenza contro le donne basata sul genere si designa qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale”. Il che vuole dire che la violenza può essere originata dall’essere la vittima di genere femminile, e dunque la parola “genere” torna ad assumere un significato più naturalistico, vicino o equivalente a quello di sesso, e il disprezzo per il genere femminile produce violenza.
Così, sulla base di questa idea della “violenza di genere”, il testo di Istanbul approda poi, con l’articolo 5, a contemplare l’ipotesi dell’omicidio per motivi di genere e ad imporne una punizione speciale agli stati firmatari. Ed è sottinteso che tale violenza colpirà soprattutto quella donna che abbia tentato di evadere dallo stereotipo di genere cui era stata condannata.
Arriviamo cioè al “femminicidio”, che secondo la criminologa ideatrice del neologismo, indica “la violenza estrema dell’uomo in quanto esito di pratiche misogine”. Cosicché anche l’Italia si è affrettata a creare questo delitto specialissimo, nonostante la plateale incongruenza di una simile impresa. Infatti il nostro ordinamento, oltre al buon senso, non tollera che una figura delittuosa possa essere individuata dai motivi che muovono l’autore. Eppure sulla falsariga dell’articolo 5 della Convenzione di Istanbul è stato varato stoltamente questo pericolosissimo precedente. Senza contare che anni prima era stato abrogato, proprio perché imperniato sui motivi e quindi ritenuto in contrasto con i principi che governano il sistema penale, quel cosiddetto delitto d’onore che ispirò un film indimenticabile come Divorzio all’italiana. Vale anche la pena di ricordare che il solerte governo in carica, di evidente fede democratica, sentì il bisogno di ricorrere al decreto legge, poi regolarmente convertito in legge dal parlamento, pressato dalla “necessità ed urgenza” di legiferare in materia.
A riprova di tale necessità e urgenza sta il fatto che il fenomeno rilevato statisticamente in Italia nel periodo 2004-2015 è stato di 0,51 morti per 100.000 donne residenti, il migliore risultato rispetto a tutti i paesi europei, in tema di “violenza di genere”.
Ma, meraviglia delle meraviglie, il trattato di Istanbul contiene all’articolo 6 anche un programma di rieducazione nazionale volto a sradicare vecchie e inveterate abitudini mentali e preparare le nuove generazioni a una sana ideologia genderista. Si chiama “Piano di azione straordinaria contro la violenza sessuale e di genere” e prevede una formazione genderista a tutto campo da imporre ovunque: alla scuola, ai media, alla pubblica amministrazione. Azione capillare di indottrinamento da parte di un invisibile onnicomprensivo perfetto minculpop.
Proprio quel piano è diventato una colonna portante “buona scuola” renziana ideata per realizzare il programma di distruzione di massa della libertà educativa e della istruzione in generale.
A questo punto ha preso forma il perfetto gioco di prestigio messo in scena sulle sponde del Bosforo. Sono state scoperte le carte, o il trucco che dir si voglia. Punto di partenza era stata la incompatibilità con la cultura occidentale di modi di vivere e di idee ad essa estranee. Poi si è fatto finta, e qui sta il misero gioco di prestigio, che quei modi e quelle idee riguardino per traslato anche la donna occidentale alla quale va equiparata la minoranza oppressa di omosessuali e transgender, e per tutti vale la stessa cura. Sicché, ecco la conclusione, un medesimo piano di risanamento deve essere applicato ad ospiti e ospitanti, e lo stesso vestito calza a pennello a tutti.
Insomma, risulta chiaro che il vero scopo di tutto questo marchingegno è quello di spazzare via dalla realtà europea le ultime propaggini della morale famigliare che fa perno sulla donna, ritenute all’origine di un fenomeno gonfiato artificialmente e sostituirle con l’ideologia genderista derivata dal femminismo deviato e dall’omosessualismo normalizzato, entrambi orientati alla distruzione dell’etica comunitaria.
In questa prospettiva, nell’articolo 4 troviamo proclamata la lotta contro le discriminazioni che affliggono, insieme alle donne, ogni variante sessuale. Ora nel lessico grosso modo politico, con la parola discriminazione si allude sia alla disparità di trattamento giuridico, sia, impropriamente, alla ostilità o alla riprovazione che una persona o una categoria di persone possono riscuotere in ragione delle loro caratteristiche specifiche. Posto che nel primo senso la discriminazione è già impedita dal dettato costituzionale e dunque non ha alcun vero spazio di esistenza, nel secondo essa ha a che fare con la libertà di pensiero che nessun grimaldello politico dovrebbe pretendere di forzare, come accade in via di persuasione occulta o di propaganda.
Dunque ancora una volta siamo di fronte alla sovrapposizione fraudolenta nella nostra società di schemi artefatti che servono per alimentare una campagna promozionale nei confronti di inesistenti “minoranze oppresse”, cioè di donne già “emancipate” e dei diversamente sessuati o sessuandi, le cui virtù vengono celebrate ogni giorno dal summenzionato minculpop politicamente corretto e cerebralmente sconnesso che il degrado culturale generalizzato alimenta in modo surreale.
Non per nulla si è verificato puntualmente quello che i sapienti manipolatori delle evolute masse occidentali avevano previsto. Per cancellare l’allarme che pure si era formato attorno al gender, e farlo diventare innocuo, è bastato tradurlo in italiano. Così quella parola è sembrata non avere nulla a che fare con il famoso e ormai sospetto “gender”, è apparsa priva di contenuto ideologico e propositivo. Essa ha cominciato a essere usata con indifferente leggerezza un po’ da tutti quale sinonimo di sesso, cioè secondo l’equivoco sul quale era stato ideata la trappola lessicale, e quale mosca cocchiera capace di introdurre il gender senza dare nell’occhio. Così oggi quasi nessuno pensa che quella parola è il grimaldello per scassinare la porta della logica e dell’etica e per trascinare dentro la cittadella ormai sbrecciata di una società già in disarmo tutto il ciarpame di una ideologia demenziale mortifera e intrinsecamente corrotta. Così sembra essere accaduto stranamente anche a Fusaro.
Quanto poi alla supposta violenza sulle donne, al netto di quella che può essere la conseguenza ordinaria, normale, della sproporzione naturale di forza e resistenza fisica nel caso di un corpo a corpo, rimane qualche serio dubbio su una naturale non violenza delle donne che sarebbero soltanto destinate a subire la violenza maschile.
Anche senza scomodare la letteratura e la storia, Medea, lady Macbeth o Azucena, la moglie del pacifico Mandela, o la celebrata Ibarruri, fino alla signora nota per come manipolava le pompe di bicicletta, basterebbe ricordare tutta la favolistica abitata da streghe malefiche e soprattutto da matrigne cattivissime. Tanto che di queste un gentiluomo come Rossini ha voluto riscattare la trista fama affidando cavallerescamente Cenerentola non più alla perfida matrigna, ma alle angherie di Don Magnifico, un patrigno assillato perfino da qualche problema di coscienza.
Infine, al di là di una forse sempre più diffusa “vis grata puellae” che potrebbe anche giustificare certe esuberanze maschili, ci si imbatte ogni giorno per strada, sull’autobus, al caffè, nelle fanciulle in fiore che con ombelichi e cosciotti in bella mostra riempiono l’aria di turpiloquio, persino blasfemo, violentando la vista e l’udito del passante indifeso. Forse che sia mancato a tempo debito proprio il ceffone terapeutico di un padre o di un fratello maggiore?
P.S. Pare che alla prima della Tosca anche la signora Casellati si sia ricordata della violenza sulle donne. Quella che si dice, la forza delle idee.
1 commento su “Nella trappola della “violenza di genere””
Onore ai collaboratori di “Ricognizioni”! Per l’ammirevole impegno nella diffusione di un pensiero alto libero dal politicamente corretto. Domingo Gianasso