L’Italia frana e si allaga. Ma il vero dissesto è politico e culturale

L’Italia frana e non solo metaforicamente. I numeri sono drammatici: secondo l’Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, negli ultimi tre anni il nostro Paese è stato colpito da 620.808 frane, che hanno interessato 7.275 comuni (il 91,1% del totale). Un vero disastro, a cui si aggiunge la recente “acqua alta” di Venezia.

Il tema – è ormai ben chiaro ai più – non riguarda solo un generico appello alla “coscienza ecologica”. Non è neppure paradossalmente un problema di risorse. Una recente analisi della Corte dei Conti relativa al “Fondo per la progettazione contro il dissesto idrogeologico (2016-2018)” fa emergere lo scarso utilizzo delle risorse stanziate per il Fondo e l’inefficacia delle misure sinora adottate, di natura prevalentemente emergenziale e non strutturale. Le risorse effettivamente erogate alle Regioni, a partire dal 2017 – si legge nel rapporto – rappresentano, negli anni oggetto dell’indagine, solo il 19,9% del totale complessivo (100 mln di euro) in dotazione al Fondo”. Numerose le criticità a livello nazionale e a livello locale: l’inadeguatezza delle procedure e la debolezza delle strutture attuative; l’assenza di adeguati controlli e monitoraggi; la mancata interoperabilità informativa tra Stato e Regioni; la necessità di revisione dei progetti approvati e/o delle procedure di gara ancora non espletate; la frammentazione e disomogeneità delle fonti dei dati sul dissesto.

La vicenda Mose (Modulo Sperimentale Elettromeccanico, che dovrebbe proteggere Venezia fino ai 300 cm di acqua alta) ha occupato le prime pagine dei giornali: al momento (i lavori sono iniziati nel 2003) sono stati spesi 5,493 miliardi di euro per la realizzazione del 90% dell’opera. In totale nel bilancio del Consorzio Venezia Nuova (concessionario dell’opera) sono stati iscritti lavori per un costo di quasi 7 miliardi di euro. Anche qui blocchi, denunce e ritardi.

Di fronte a questi problemi di portata epocale c’è chi, come il Ministro Luigi di Maio, pianta un alberello contro i cambiamenti climatici (è accaduto l’altro giorno a Casoria) o chi si accontenta dell’ennesimo appello ambientalista, stile FridaysForFuture (“Siamo davvero disposti a cancellare la bellezza dei mari, delle foreste, delle montagne, di queste montagne? A dire addio al piacere di vedere fiorire, germogliare, crescere la natura?”) perdendo di vista la complessità della materia, che mette insieme aspetti tecnico/politici e culturali. Bisogna insomma andare ben oltre un generico ecologismo, affrontando intanto i nodi burocratici e gestionali che frenano gli interventi.

Quando, per rispondere a un’emergenza, viene nominato un commissario straordinario (accade a Venezia ed è accaduto a Genova per la ricostruzione dopo il crollo del Ponte Morandi) siamo di fronte a un’ammissione di colpa: l’inadeguatezza istituzionale a reggere certe criticità (bypassando i lacci e laccioli della burocrazia), le lungaggini dell’intermediazione politica, l’esorbitante peso normativo (che espone all’azione della Corte dei Conti e delle Procure).

Al fondo c’è però anche bisogno di una chiara presa di coscienza culturale. C’è una responsabilità spirituale di fronte alla cementificazione delle culture ed un chiaro discrimine tra chi crede, da una parte, nella tutela delle specificità (territoriali, culturali, ambientali) e chi dall’altra pensa a tutto livellare, nel segno di una speculazione onnivora dei territori.

E c’è soprattutto la necessità di intervenire per fissare chiari obiettivi “di sistema” e conseguenti strumenti, non tanto per salvare una “vecchia natura”, ma per costruire una cultura, in grado di ristabilire un nuovo equilibrio, in cui l’umanità potrà conservare la posizione attraverso cui si è costituita. Si tratta di una “visione” non ideologica del rapporto uomo-ambiente, una visione attraverso la quale sia possibile realizzare un reale bilanciamento tra protezionismo e intervento antropico, una visione resa pressante dalle emergenze di questi mesi. Importante è capirsi sui discrimini di fondo e di valore, più che di “schieramento”. In campo non ci può essere un richiamo estetizzante all’ambiente o qualche alberello piantato contro i cambiamenti climatici.

2 commenti su “L’Italia frana e si allaga. Ma il vero dissesto è politico e culturale”

  1. Oltre a non esserci più efficaci competenze nei vari settori (le lauree di oggi differenziate in mille rivoli non equivalgono neanche a un centesimo di quelle di una volta) e scarse visioni d’insieme, manca un agire morale che preveda il bene comune come obiettivo e che rifugga da qualsiasi interesse personale o, tanto peggio, partitico; la qual cosa è invece imperante in questa società dissolta, ovviamente non solo italiana. In parole ancora più povere, mancano sia preparazione, esperienza, saggezza nelle decisioni, sia senso di responsabilità, ovvero coscienziosità e correttezza; virtù, queste ultime, ormai dimenticate e messe rigorosamente da parte in questo mondo sempre più secolarizzato e lontano da Dio.
    Né vi sono appelli e richiami da parte di quelle guide che dovrebbero essere preposte a indicare la giusta via. E questa assenza è l’elemento più drammatico.

    1. Rileggiamo le parole di Giacomo Leopardi sul carattere ed i costumi degli italiani,sono trascorsi quasi 200 anni e non sembra che siano molto cambiati…

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