LA DESTRA POLIFRENICA SOTTO L’AMIANTO DI FINI – di Piero Vassallo

Desolazione a Mirabello

 

di Piero Vassallo

 

mdDurante il ventennio fascista la decisione, nel bene o nel male, competeva unicamente a Benito Mussolini, dittatore pragmatico, non ideologico.

Ai pensatori e agli uomini di cultura, di conseguenza, era concessa una discreta libertà di opinione e di espressione. L’unico limite era costituito dall’obbligo di non disturbare il manovratore.

A Ugo Spirito e ai corporativisti impazienti, ad esempio, la dittatura concedeva la libertà di esporre (nel convegno di Ferrara) riforme sociali di sinistra.

Nella Normale di Pisa, Giuseppe Bottai e Carlo Costamagna, in sintonia con l’insegnamento di Pio XI, proponevano riforme del sistema capitalistico e dell’ordinamento scolastico, intese all’elevazione delle classi meno agiate.

All’estremo opposto, il neopagano Julius Evola esponeva, in roventi volumi, una dottrina ispirata alla tradizione reazionaria.

Intanto, si confrontavano a muso duro i gentiliani osservanti e gli anti-gentiliani. Questi ultimi (Niccolò Giani, Guido Pallotta, Nino Tripodi, Amintore Fanfani ecc.) erano radunati nella scuola milanese di Mistica fascista, costituita per affermare la filosofia di San Tommaso d’Aquino e di Giambattista Vico contro l’ateismo dei moderni. Con piena ragione, un irritato Evola ha sostenuto che la scuola milanese fu un successo della tradizione controriformistica.

Memorabile è il giudizio di Bottai sulla riforma Gentile: “Nacque alla riforma Gentile quell’assimiliazione della pedagogia alla filosofia e quel disdegno per la didattica. Assimilazione e disdegno prendevano origine dall’aver ipostatizzato la filosofia e dall’aver dimenticato per la filosofia l’uomo”.

Nel campo propriamente culturale vigeva una libertà ancora più larga: ad esempio lo scetticismo strutturale, sviluppato dal teatro di Pirandello, era addirittura interpretato dalla famiglia Almirante in camicia nera.

Un paradosso, ove si rammenta che Luigi Pirandello, quantunque tesserato dal Pnf, nel dopoguerra rischiò di diventare una icona del movimento radical chic.

D’altra parte numerosi narratori, poeti e artisti, che si erano affermati durante il Ventennio (ad esempio Vasco Pratolini, Cesare Pavese, Salvatore Quasimodo, Renato Guttuso, Giacomo Manzù ecc.) poterono trasferirsi nei circoli gramsciani quasi senza modificare forme e contenuti delle loro opere.

In conclusione: le società di pensiero e di cultura, durante il ventennio, godevano della franchigia e della stima cortese, che sono normalmente attribuite ai mansueti giocatori di bocce.

Va da sé che la taciuta patente di apoliticità, di cui le società di pensiero e di cultura godevano durante il ventennio, non era trasferibile al partito neofascista, attivo nel sistema democratico, che contempla il confronto fra i programmi suggeriti dall’ideologia professata dagli aspiranti al potere.

Il pluralismo ideologico, inoffensivo e marginale negli anni della dittatura di Mussolini, nel Msi fu fomite di rivalità perpetue e implacabili tra i seguaci di Giorgio Almirante e i sostenitori di Arturo Michelini.

Intorno alle rivalità fra i due capi-corrente infuriava il turbine delle idee salite dal margine nel quale erano tenute sotto controllo dal dittatore Mussolini.

Il partito missino, infatti, fu teatro di duri e  spesso brutali confronti  tra evoliani e gentiliani, tra cattolici e neopagani, tra ghibellini e neoguelfi, tra filo monarchici e repubblicani. Gli storici del Msi rammentano congressi, ad esempio il congresso nazionale, celebrato a Milano nell’estate del 1956, durante i quali il confronto ideologico degenerava puntualmente in tornei di boxe e in piccoli e medi scismi.

Nei primi anni Settanta Giorgio Almirante, succeduto a Michelini, tentò di sopire le rivalità ideologiche rovesciandole nel contenitore Msi/Destra nazionale. La sua soluzione, in mancanza di un pensiero unitario, produsse solamente nuovi mali di pancia, nuove liti e infine nuovi scismi.

Allo scopo di motivare e attizzare le rivalità fra i testimoni delle irriducibili ideologie furono fondate riviste, espressioni di agguerrite correnti e laboratori incendiari, dove alcuni lavoravano alla disperata separazione di Nietzsche dalla dichiarata dipendenza da Spinoza, altri alla dipintura di un improbabile Evola religioso, altri ancora al trasferimento a destra dell’ateologia francofortese a doppio binario.

Infine Pinuccio Tatarella credette che l’uscita del Msi dal ghetto e l’insperata fortuna avesse spento i furori attivi nel partito a struttura schizo-polifrenica.

Purtroppo sotto la figura dei successi alati e immeritati covava l’amianto dell’invincibile pluralismo ideologico. Le terze pagine del quotidiano missino, Il Secolo d’Italia, narrano, a chi le legge, l’invincibilità della confusione babelica e della tuttologia regnanti nel partito prima e dopo la cura Tatarella.

ppD’altra parte le sinuose metamorfosi di Gianfranco Fini, fascista da saluti romani, cattolico provvisorio, imprudentemente insignito dell’Ordine Piano, gaucciano di complemento e ultimamente protettore dei neodestri e dei radicali di risulta, narrano confusamente la storia del pluralismo mentale, obbedito fino alla devastazione estrema e alla inumazione nella fatal Mirabello.

Non tutto il male viene per nuocere, ammesso e non concesso che il disastro a Mirabello rappresenti una privazione e non la felice guarigione da un disturbo del pensiero moderato.

Dal malinconico flop della destra a Mirabello può avere inizio un cammino di ricerca finalizzato a interpretare il pensiero degli autori che hanno aperto lo scenario della tradizione dopo il moderno e che l’ambiente missino non è stato capace di comprendere e di interpretare degnamente: Cornelio Fabro e Augusto Del Noce.

Dall’insegnamento di tali maestri può prendere forma il progetto di un partito finalmente inteso ad affrancare gli elettori moderati dall’ipoteca accesa da una destra incoerente e senza fissa dimora mentale.

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