Il peggio, nel peggio, è l’attesa del peggio. È la curiosa riflessione di Malaussène, il protagonista della strampalata, ma deliziosa, saga letteraria di Daniel Pennac, un brav’uomo ricco di buoni sentimenti, rovinato dalla sua stessa bontà, destinato a diventare il capro espiatorio di guai di ogni tipo. Il suo ci pare l’unico commento adeguato a troppi fatti di cronaca che mostrano il degrado progressivo e finora irrefrenabile della nostra superba civilizzazione. Stupri di gruppo, assassinii spaventosi come quelli di Pamela e Desirée, pedofilia, una china e un vuoto esistenziale che lascia a bocca aperta. 

Da ultimo, abbiamo appreso dell’uccisione di diversi bimbi in tenerissima età per mano dei genitori. Padri e madri spengono vite che hanno messo al mondo senza pensare, semplicemente perché l’istinto ha avuto la meglio in esistenze senza storia, senza scopo, estranee alla dignità, all’onore, al senso morale. Genitori assassini figli di un tempo bastardo nel Lazio, in una casa popolare occupata da uno zingaro carico di anelli e abiti pacchiani a Milano, nella periferia di una ordinata città della provincia ricca, Novara. Tutti molto giovani, accomunati dal miraggio della “bella vita”, degli abiti firmati, dediti ai paradisi artificiali, prigionieri dell’istinto e delle mode, irresponsabili come quegli altri – niente affatto emarginati o folli – di cui talora riferiscono le cronache, che dimenticano i figli in macchina o al centro commerciale. Questione di priorità. 

Digeriamo il peggio in attesa di un peggio ulteriore che oscurerà il male di oggi. È la storia triste degli ultimi decenni. Pensavamo questo mentre attraversavamo in fretta uno dei mille inferni metropolitani di prossimità. Nel nostro caso, una piazzetta dietro la stazione di testa della metropolitana cittadina. Fino a qualche anno fa, era un normale luogo di transito di gente frettolosa, adesso è il ritrovo di una piccola folla dolente, una sotto umanità di uomini e donne senza volto. Pochi, in fondo, ma si scorge in loro un abisso senza speranza; sono rappresentate tutte le razze del pianeta, barbe incolte, un paio di donne dall’età indefinibile, liti continue, sporcizia fisica e morale, un tappeto di bottiglie, deiezioni di ogni genere, una promiscuità che ferisce, nessun domani. 

Somigliano a personaggi dei quadri di Hyeronimus Bosch, ma affiorano i pugni allo stomaco dei benpensanti delle tele di Munch, i deliri di certi espressionisti, la cruda materialità del Caravaggio, gigante amato più per il male che ha saputo trasfigurare con sofferenza che per la straordinarietà delle prestazioni artistiche. Pensando agli infanticidi degli ultimi giorni, non si può che riandare alle angosce dell’ultimo Goya, a Crono allucinato e insanguinato che divora i suoi figli. Tempi ultimi che trascinano in basso un’umanità sempre meno consapevole di se stessa. Si è tentati di rimpiangere gli androidi di Blade Runner, il commovente Roy Batty la cui umanità superava tragicamente quella dei suoi cacciatori umani. Ma siamo davvero umani, capsule individuali rinchiuse nel nostro pezzettino di alveare, sciami distratte con cuffie all’orecchio, con i nostri abiti firmati, lo sguardo che si allontana rapido da ciò che non vuole osservare? 

L’era dei signorini soddisfatti, superficiali, dall’ignoranza sazia sta compiendo il suo corso. Domina il panorama urbano una massa incolta, dedita a tutto ciò che rende bassa e volgare l’esistenza, materialista, amante del baccano, a partire dalla musica ritmata che stordisce e inibisce la riflessione, una folla che ha in orrore qualunque introspezione, fatta di attori tutti uguali persino nei tatuaggi, figuranti assorbiti dal coro di voci, gusti, volontà standardizzate. 

Il fulminante ritratto di José Ortega descrive perfettamente il tipo umano dominante, il quinto Stato privo della dignità delle masse popolari del passato: “il fatto caratteristico del momento è che l’anima volgare, riconoscendosi tale, ha l’audacia di affermare il diritto alla volgarità e lo impone ovunque.”  L ’uomo-massa non si cura delle opinioni altrui poiché non ne riconosce (né arriva a comprendere) la validità. 

Pochissimi approfondiscono qualcosa o riflettono sul serio. Le stesse drammatiche cronache cui accennavamo producono emozioni forti ma momentanee, un frame, un breve fotogramma che sfuma tra mille altri. Si passa oltre sino allo chocsuccessivo, in attesa del peggio dell’indomani. La conseguenza è che sono sempre più numerosi i soggetti capaci di ogni nefandezza poiché all’ assenza di principi si unisce l’indifferenza morale e l’incapacità di distinguere il bene dal male, il reale dal virtuale. In una certa misura vide giusto William Golding, lo scrittore britannico autore del Signore delle Mosche, un romanzo che compie 65 anni e restò pressoché sconosciuto sino alla sua versione cinematografica. Convinto dell’assoluta malvagità dell’uomo, Golding scolpì una frase che è il senso di tutta la sua opera: “l’uomo produce il male come le api il miele”, oltrepassando Hannah Arendt e la sua scoperta della banalità quotidiana delle peggiori condotte umane. 

Restiamo spiazzati dalle rivelazioni di filosofi e scrittori, ma non possiamo cedere al pessimismo più nero. Chi compie il male con tanta disinvoltura non rappresenta l’intera umanità, per fortuna, ma certamente è l’esempio di ciò che accade quando si dimenticano insieme la natura e Dio. Una volta le madri che uccidevano le loro creature venivano definite snaturate. Era vero: dimenticare la cura, la custodia, la sopravvivenza della propria carne significa andare contro natura. Lo stesso vale per i padri che dimenticano l’alto dovere di educazione, protezione, sostentamento materiale e spirituale. Si depreca spesso la mancanza di “valori”. Rimaniamo sempre infastiditi dal termine. I valori sono il risultato dei principi: quelli mancano, di valori ce ne sono anche troppi, nel senso che ciascuno, soggettivamente, attribuisce importanza a ciò che gli pare, tralasciando il resto, perfino i figli. 

Le generazioni precedenti erano meno istruite ma, non sembri un paradosso, più sapienti. Possedevano una profonda cultura materiale, popolare, fatta talvolta di luoghi comuni, ma trasmessa dalle generazioni, resistente all’urto dei tempi. Su tutto, persisteva un senso della vita che derivava dall’accettazione del ruolo di creatura, un tratto comune in cui era presente la trascendenza e uno strano sentimento, il timore di Dio che era poi paura del male, del castigo, di ciò che urtava la legge naturale. In più, manteneva la sua forza, ai vari livelli sociali, il principio di autorità. 

L’uomo contemporaneo odia l’autorità in nome di una libertà malintesa e disprezza la cultura, sostituita da un coacervo indigeribile di immagini, suoni e suggestioni provenienti dall’esterno, da un livello del potere che nemmeno più sa riconoscere come tale. Significativa è la crisi della parola scritta nell’era in cui l’analfabetismo è sconfitto e tutti possiedono almeno un diploma. Una sensibilità educata esclusivamente per immagini è molto più facile da manipolare rispetto a una personalità educata con buone letture e pensiero critico. Moda, novità, piacere immediato, luccichio di colori: ecco le uniche sollecitazioni a cui risponde l’odierna maggioranza. L’autorità è sapientemente sostituita dalla persuasione occulta dei messaggi. 

Furono due intellettuali tormentati e diversissimi, Giovanni Testori e Pier Paolo Pasolini, a comprendere per primi l’esito dei processi che iniziavano mezzo secolo fa e oggi sono a compimento. Significativa è l’invocazione di Pasolini nella sua ultima lirica, scritta in friulano, la lingua del popolo cui sentiva di appartenere: “difendi, conserva, prega”, insieme con la presa d’atto che “la confidenza con il sole e con la pioggia, lo sai, è sapienza santa”. Testori, nel suo Apocalisse, già descriveva l’approdo bestiale di un mondo in cui la cosa più difficile è restare umani. In una memorabile intervista a un’icona del progressismo altoborghese, Natalia Aspesi, riconobbe che “c’è qualcosa di più che umano che invece la società e, lasciatemi dire, gran parte della società cristiana, ha buttato via. Per inseguire cosa? La mitologia di un perento, stramorto – tranne che nelle banche, nella finanza, nel potere – stramorto progressismo”. L’errore del lucido, travagliato scrittore cattolico milanese fu confondere il progresso, esso sì morto e sepolto, con il progressismo, che al contrario si erge in tutta la sua rivoltante arroganza. 

Le parole, nella penna dei grandi, hanno sempre un significato profondo. Per Testori, autore di un romanzo intitolato Gli angeli dello sterminio, il progresso non è in crisi, esaurito, sbagliato, o insufficiente, è “perento”, ovvero estinto per mancanza di attività, inerzia. Da quell’inerzia emergono nella melma i nuovi mostri, come gli assassini dei figli, gli stupratori ed assassini di povere ragazze fragili, i nuovi selvaggi analfabeti funzionali, schiavi delle mode, del consumo, dell’attimo di piacere. Su di loro regna un’oligarchia sinistra, i signori delle mosche. 

Nel romanzo, William Golding immagina un gruppo di ragazzini – simbolo di un’umanità non ancora guasta – sopravvissuti a una guerra nucleare giungere salvi, ma soli e senza mezzi, su un’isola deserta dei mari del Sud. Sono inglesi di buona famiglia, il più razionale tra loro, Ralph prende il comando, sostenuto da un coetaneo occhialuto e grasso, Piggy, “maialino”, simbolo dei diversi, degli stigmatizzati. Ben presto inizia una lotta per il potere in cui primeggia Jack, più selvaggio, impulsivo, che porta dalla sua parte gran parte dei ragazzi. La piccola comunità, senza regola certe, regredisce progressivamente in un’esistenza istintiva, quasi animale, diventa preda di ossessioni e timori, il più grande delle quali riguarda un nemico terribile e oscuro, la Bestia. 

Un giorno i ragazzi scoprono una testa di maiale mozzata, un’offerta di Jack alla Bestia. Vedendola brulicante di mosche, la chiamano immediatamente il Signore delle mosche, l’epiteto di Belzebù presso alcuni popoli orientali e fenici. La bestia, cioè il Male, si è impadronita delle vite dei ragazzi, ormai dominati dal puro impulso e preda delle paure più ancestrali. Golding scriveva sotto l’impressione dei totalitarismi, con l’animo di un pessimista convinto che solo la pura razionalità può salvare l’uomo. Un’idea comune a molti in Occidente a partire dall’Illuminismo, alla quale manca totalmente l’umiltà e la tensione verso l’alto. Per i credenti e per ogni uomo di buona volontà, la salvezza – e il limite – sono Dio e la legge naturale iscritta nel cuore della creatura umana. 

Nessuna società si è mai potuta reggere sulla dismisura, né tanto meno sulla pura ragione. Può funzionare come modello di vita per pochi uomini dalla tempra eccezionale o per molti durante brevi periodi di tensione collettiva. Non possiamo vivere, non siamo in grado di sopportare i drammi di un’esistenza consapevole, noi, gli esseri “che non hanno scampo”, come scrive Marcello Veneziani, se non alziamo lo sguardo verso l’Oltre. Non è nel consumo, nella sequela dei piaceri, nella corsa dissennata priva di traguardo che l’uomo può trovare rimedio alla sua inquietudine costitutiva. Inquietum est cor nostrum, diceva Agostino, e non si placa se non si rivolge all’infinito, al più alto. Fuori di ciò, vince la Bestia. 

La tradizione veterotestamentaria descrisse il conflitto tra Dio e i beni del mondo, Mammona, e lo risolse nell’alleanza con il Dio della Legge. La contemporaneità, incapace di riconoscere i simboli, dimentica ogni norma al di fuori di quello che Freud chiamava lustprinzip, principio di piacere. Guidata da oligarchie rapaci e assassine, i nuovi signori delle mosche, la folla insegue senza posa e senza mai saziarsi il Vitello d’Oro. Ogni tempo ha il suo; la postmodernità, oltre al denaro, brama il successo, il possesso, il superamento di ogni limite, la competizione con la natura. 

La tradizione antica sapeva neutralizzare le pulsioni infere dell’uomo in momenti rituali da celebrare in particolari date, come la tradizione celtica e nordica della notte di Valpurga o lo stesso carnevale. La Bestia odierna non si accontenta di pochi giorni di trasgressione, destinati a ricomporre ad ordine la comunità. Il signore delle mosche ha pretese ben più grandi. 

Le vittime sono innanzitutto i suoi adepti dalle vite devastate, private di ogni vera luce, in corsa verso il nulla, degradati all’istinto senza l’innocenza degli animali. Possono arrivare a sacrificare in nome della Bestia i loro stessi figli, o ridurli a cose, talvolta sfruttarli in pratiche ripugnanti, altre volte lasciarli a se stessi o impedir loro di nascere in nome della comodità, della ricerca del successo, in nome della libertà, la più abusata delle parole inventate dall’uomo. Il regno del signore delle mosche non è sull’isola dei ragazzini di Golding, è qui e adesso. Vince la Bestia, perde l’uomo, perde la natura, si nasconde anche Dio, il Grande Assente. 

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