Negli scorsi giorni, due lutti hanno colpito il Celtic di Glasgow, la squadra campione di Scozia fondata nel 1887 per iniziativa di un religioso irlandese, Fra Walfrid. Due campioni sono morti nel giro di pochi giorni: prima è toccato a Billy Mc Neill, e quindi a Steve Chalmers. Erano due dei cosiddetti “Leoni di Lisbona”, la squadra che nel 1967 nella finale della Coppa dei Campioni giocata nella capitale portoghese conquistò il trono d’Europa battendo la Grande Inter. Quel 25 maggio la finale era tra la favoritissima plurivincitrice di tutti i trofei e l’outsider, arrivata in finale alla sua prima partecipazione alla competizione. Era una sfida praticamente impossibile contro quella che in quel momento era la più forte squadra del mondo: l’Inter era una squadra di fuoriclasse assoluti come Facchetti e Mazzola, guidata da un carismatico allenatore come Helenio Herrera, soprannominato “il Mago” per le sue soluzioni tecnico e tattiche spesso straordinarie e imprevedibili, delle vere magie.
Il Celtic affrontò i giganti italiani con una squadra di ragazzi usciti quasi tutti dal proprio settore giovanile. Tutti e undici inoltre erano nati in un fazzoletto di terra scozzese, entro trenta miglia dal proprio stadio, il mitico Celtic Park, soprannominato The Paradise, il Paradiso. Il capitano era Billy McNeill, nato in una cittadina della cintura industriale di Glasgow, un difensore centrale per certi versi molto simile alla sua controparte nerazzurra Aristide Guarneri: elegante e correttissimo nel gioco, non subì mai una espulsione in tanti anni di carriera in un calcio – come quello scozzese, fondato essenzialmente sull’agonismo. Dopo la carriera di calciatore, svolta tutta con una sola casacca, quella a strisce orizzontali biancoverdi, fu per nove stagioni anche l’allenatore del suo amato Celtic. Sebbene fosse di origini povere, aveva una dignità, una maestà nel portamento che gli valsero il soprannome di Cesar, ovvero Cesare, come il grande condottiero romano. Stevie Chalmers, morto pochi giorni dopo il suo Capitano, era la punta centrale dell’attacco, e fu colui che segnò il gol della vittoria al minuto 85. L’Inter era passata in vantaggio nel primo tempo con un rigore alquanto discutibile, che poteva schiantare il morale di una squadra inesperta come quella scozzese, ma l’orgoglio dei ragazzi in verde li spinse ad una rimonta straordinaria, ad un gioco frizzante ed efficace che stupì lo stesso Herrera, e così Billy Mc Neill potè alzare al cielo la Coppa.
Il Celtic, per chi non lo sapesse, è molto più che una squadra di calcio. Era nata per dare aiuto ai poveri immigrati irlandesi che erano giunti a Glasgow sfuggendo alla miseria che imperversava sulla loro terra, e che ricoprivano i ruoli più poveri: minatori, muratori, operai nelle fabbriche di una delle più grandi città industriali del regno. Vivevano in tuguri, in quartieri-ghetto, discriminati per la loro fede cattolica. Solo la Chiesa era accanto ai loro bisogni, attraverso la presenza di sacerdoti e religiosi, che con grandi sacrifici diedero vita a strutture parrocchiali, a chiese e scuole.
Il Celtic venne costituito a scopo di carità: le partite della nuova squadra sarebbero servite a raccogliere soldi da destinare ai poveri, in particolare ai bambini che pativano la fame nei quartieri più diseredati della città. Il nome Celtic fu scelto per richiamare le radici storico-culturali di natura celtica delle popolazioni scozzesi e irlandesi. Il sodalizio venne etichettato come “la squadra dei cattolici”, ma in realtà fin dai primi tempi l’appartenenza al team non era preclusa a nessuno, indipendentemente dalla propria confessione religiosa., a differenza dei Rangers, la squadra dei protestanti unionisti, che praticò per oltre un secolo l’apartheid nei confronti di giocatori cattolici. La finalità della squadra biancoverde di raccogliere fondi, attraverso partite e tornei, da destinare alle opere di carità non è mai venuta meno, così come l’essere un punto di riferimento, attraverso bandiere, canti e iniziative parallele, per le comunità irlandesi presenti in tutto il mondo.
Con le sue vittorie diede alla comunità irlandese in Scozia e in tutta la Gran Bretagna l’orgoglio di una appartenenza e di una identità, e il sapore dolce della vittoria per un popolo che non poteva essere solo di vinti. McNeill e Chalmers hanno rappresentato sul campo e fuori, nella vita privata, sportiva, professionale, l’esempio di questo mondo, di questa cultura, di questa fede. Una storia che prosegue, e che a volte assume i connotati quasi di una fiaba. Nei giorni seguenti la morte di McNeill, il Celtic ha giocato nel proprio stadio una partita decisiva per la conquista del titolo. Tutti i giocatori hanno indossato una fascia nera di lutto, con il numero 5, quello che era stato del Capitano. In curva campeggiava un grande striscione con la scritta Hail Cesar, Ave Cesare, e la sua immagine nel momento del trionfo. Poi, lo stadio ha intonato “You’ll never walk alone”, il canto più caro ai tifosi, che significa “Tu non camminerai mai solo”. Poi, un applauso di 67 secondi, 67 come l’anno del Trionfo.
La partita contro il Kilmarnock ha risentito di questo clima di commozione e il risultato è rimasto bloccato a lungo sullo 0-0. Fino ad un minuto fatidico, il minuto 67, quando il giocatore col numero 5, attualmente il croato Simunovic, ha insaccato nel sette con un colpo di testa imperioso. Dopo il gol, lo slavo ha alzato braccia e occhi al cielo, e si è fatto il segno della croce, in un momento di intensissima emozione per tutti. Forse troppe emozioni, che da lì a qualche giorno hanno fermato il cuore di Stevie Chalmers, che ha raggiunto in Paradiso il suo capitano.
Per gentile concessione dell’Editore Elledici, riportiamo di seguito una pagina del romanzo Il prodigio di Lisbona, che ho dedicato alla storia del Celtic e in particolare alla leggendaria finale.
Le lancette dell’orologio scorrevano inesorabilmente. Arrivò il minuto 85. Mancavano ormai solo cinque minuti. Stein era in piedi ad incitare i ragazzi. L’ennesima manovra d’attacco portata ai limiti dell’aera di rigore interista vide Murdoch far partire verso lo specchio della porta un rasoterra sulla quale traiettoria Stevie Chalmers arrivò come un predatore, modificandola e facendola diventare un tiro da breve distanza che si insaccò nella porta dell’Inter.
Lo Stadio Nazionale esplose in un urlo immenso. Quell’urlo che, come ebbe poi modo di scrivere Peter nel suo articolo, trovò un’eco immensa, lontano da Lisbona. Un’eco che risuonò nel povero East End di Glasgow, dove ottant’anni prima un frate dal cuore grande voleva aiutare i poveri e i diseredati; risuonò nelle Highlands della Scozia, desertificate dall’avidità degli invasori inglesi e dei ricchi proprietari; echeggiò nelle strade di Belfast e in quelle di Dublino, nelle valli del Donegal, e poi in tutto il mondo, da Boston al New Jersey, da Toronto a Sidney. “Uccidono i ragazzi perché indossano il verde” diceva una canzone tanto cara a Brian. Ora non più. Ora i ragazzi in verde stanno per diventare i re d’Europa.
-Ha rovesciato i potenti dai troni…ha innalzato gli umili…- disse Brian tra le lacrime che gli scorrevano copiose sul viso.
-Come dici? – chiese Mc Cafferty che nel pandemonio totale che c’era sugli spalti non riusciva a sentire più nulla.
-Sto dicendo – gli urlò nell’orecchio per farsi sentire- che stiamo assistendo ad un prodigio.
-Un prodigio dici? – rispose a fatica Mc Cafferty mentre il suo vicino lo abbracciava e lo baciava. –Sì, credo che sia proprio così.
Gli ultimi minuti trascorsero con il Celtic in pieno controllo, e quindi l’arbitro tedesco emise il triplice fischio. Era finita. Il Celtic era Campione di Europa!
1 commento su “DIO, PALLA E FAMIGLIA 1 – Il Celtic saluta i Leoni di Lisbona”
Bellissima storia di sport, emozioni, riscatto e soprattutto di fede. Grazie di cuore per questo articolo.