Figli di un dio “minore”? Continuano le persecuzioni nei confronti dei cristiani, soprattutto in Asia e in Africa. Ma la stampa progressista tace. Come d’altra parte tacciono i governi di un Occidente senz’anima e senza coraggio, prossimo forse al suo definitivo, annunciato ‘tramonto’.
di Alberto Rosselli
Le continue persecuzioni in atto nel mondo ai danni delle comunità cristiane dovrebbero fare riflettere non soltanto i fedeli di Cristo, ma tutti gli uomini ragionevoli e i governi accorti dell’Occidente. Ciò che è accaduto (e continua ad accadere) in questi ultimi anni in Cina, Mongolia, Corea del Nord, Vietnam, Myanmar, Cambogia, Laos, India, Pakistan, Iran, Arabia Saudita, Algeria, Sudan, Somalia, Tanzania, Zambia, Egitto e Turchia è un attacco pesante e premeditato che affonda le sue radici e ragioni in un crescente odio ‘razziale’ di matrice non soltanto religiosa, ma culturale e filosofica: un odio che ha mietuto e continua a mietere vittime (non a caso, il 21 marzo 2008, il Pontefice dedicò il rito penitenziale del Venerdì Santo ai perseguitati cristiani nel mondo, a dimostrazione dell’ampiezza preoccupante del fenomeno). La violenta ostilità nei confronti dei fedeli di Cristo ha radici forti e non risparmia nessuno, grazie anche alla noncuranza e al colpevole disinteresse del mondo cristiano occidentale. Come ha più volte giustamente osservato il missionario e saggista Piero Gheddo, “le comunità cristiane di ‘minoranza’ presenti soprattutto in Asia e Africa danno fastidio perché con la loro stessa esistenza diffondono una religione, e un sistema di vita fondati sul valore assoluto della persona umana, quindi sulla libertà, l’eguaglianza di tutti di fronte allo Stato, la donna con gli stessi diritti dell’uomo, la democrazia, la giustizia sociale. Ecco perché le persecuzioni anti-cristiane dovrebbero interessare molto di più i media e il mondo della cultura”. E questa violenza non riguarda soltanto una religione, quella cristiana, ma un intero sistema di valori, visto che il cristianesimo è, o almeno dovrebbe essere, il fondamento etico del nostro stile di vita occidentale. Detto questo, “non illudiamoci – dichiara sconfortato Gheddo – allo stato attuale la persecuzione anti-cristiana altro non è che un’offensiva contro l’Occidente democratico e dei diritti dell’uomo e della donna”. Ciò che allarma e che non sono soltanto i regimi comunisti o atei, o quelli musulmani ad avere dichiarato guerra aperta al cristianesimo, ma anche quelli legati a credo religiosi apparentemente ‘mansueti’, come quelli a maggioranza buddista o induista. Sotto gli occhi abbiamo il caso dell’India, dove l’ideologia indutva (espressione del nazionalismo identitario indù, corrente di pensiero molto incline a trasformarsi in un credo fondamentalista razzista anti cristiano) si contrappone con violenza al cristianesimo. Per non parlare dei Paesi dove il radicalismo islamico o il capital-comunismo (Cina e Vietnam) schiacciano da decenni l’anima cristiana. La verità è che ci troviamo ormai a fare i conti con una ‘persecuzione’ senza precedenti, sia per intensità, sia per la molteplicità dei carnefici che la attuano. E tutto ciò accade (e questa è la cosa più grave) davanti agli occhi di un Occidente cristiano inerme e apatico, adoratore acefalo del Nulla, del ‘disimpegno sotto vuoto cerebrale spinto’, che – prendiamo ad esempio il nostro Paese – alle fresche e rigorose Cattedrali della Tradizione preferisce l’analfabetico chiacchiericcio pecoreccio ed allergico ai congiuntivi che filtra dai promiscui ‘appartamenti a vista’ (perché di ciò si tratta) del Grande Fratello: ultima o penultima (al peggio non vi è mai fine) ‘geniale’ pensata della ‘democrazia digitale televisiva’ made in Italy.
Ma ritornando alla Cina, vediamo cosa sta succedendo in questo ‘universo’ contraddittorio, intriso di arroganza iper-distrofico-produttiva, velleitarismo ateo e tragicomica nostalgia marxista. Dopo decenni di discriminazioni sistematiche ai danni della relativamente numerosa, ma attiva e colta comunità cristiana (nel 1980 questa contava 20 milioni di individui, di cui 12/13 milioni cattolici, quattro o cinque dei quali appartenenti però alla cosiddetta Associazione Patriottica, divisione dell’Ufficio Affari Religiosi della Repubblica Popolare creata nel 1957 dalle autorità comuniste con il preciso scopo di dare vita ad una chiesa nazionale separata da Roma) il 10 novembre 2007, il Parlamento europeo fu stato costretto a prendere posizione. In quella data, l’assemblea espresse – non senza timori – ma quasi all’unanimità, la sua condanna nei confronti della perdurante politica repressiva di Pechino. Abbiamo detto “non senza timori”, in quanto gran parte dei leader politici del Vecchio Continente tentennano nel condannare gli atteggiamenti palesemente vessatori di Pechino in quanto tradizionalmente inclini a non schierarsi contro il “gigante” Cina nell’illusione di salvaguardare in questo modo i propri interessi di bottega. Nel corso della seduta di novembre, l’assemblea non si limitò tuttavia ed evidenziare la sostanziale mancanza di libertà vigente in Cina, ma fu anche costretta a tirare in ballo anche altri stati, come il Sudan, il Vietnam, l’Iraq, la Turchia, le Repubbliche a maggioranza musulmana centroasiatiche, l’India e il Pakistan, governati da esecutivi assai poco sensibili (per utilizzare un eufemismo) nei confronti della libertà religiosa e di espressione. Nella fattispecie, la risoluzione del Parlamento europeo fece esplicito riferimento agli accordi e alle convenzioni internazionali atti a tutelare, senza distinzione alcuna, i diritti inalienabili dell’uomo, invitando espressamente tutti gli organismi europei a sollevare la questione a livello politico.
Per la precisione, il dossier redatto riportò specifici, circostanziati ed emblematici casi di “violenza ed arbitrii” verificatisi in tempi recentissimi nei Paesi sopracitati. Qualche esempio. Nell’elenco trovavano spazio il rapimento, avvenuto il 14 ottobre 2007 a Mosul (Iraq), dei sacerdoti iracheni Pius Afas e Mazen Ishoa; l’assassinio di padre Ragheed Ganni e dei tre diaconi che lo assistevano, avvenuto anch’esso in Iraq, a Mosul, il 3 giugno 2007; il saccheggio della chiesa cristiana di Godwinh, alla periferia di Lahore (Pakistan) verificatosi il 10 ottobre 2007; l’uccisione del vescovo protestante Arif Khan e di sua moglie (29 agosto 2007, a Islamabad), l’uccisione, avvenuta il 7 ottobre 2007 a Gaza, di Rami Khader Ayyad, titolare di una libreria cristiana; l’attacco perpetrato il 18 aprile 2007 contro la casa editrice cristiana Zirve a Malatya, in Turchia, con l’uccisione di tre cristiani, Tilmann Geske, Necati Aydin e Ugur Yuksel, e il rapimento di padre Giancarlo Bossi, avvenuto il 10 giugno nelle Filippine. Il tutto a dimostrazione del fatto che, in questi ultimi anni, l’atteggiamento di intolleranza nei confronti dei cristiani è diventato quasi una regola in molte parti del pianeta: una persecuzione alla quale proprio le nazioni occidentali (che devono le loro passate e presenti fortune e il loro seppure discontinuo e talvolta criticabile benessere proprio ad una cultura che affonda le sue radici nel pensiero ebraico-cristiano) non sembrano tuttavia interessarsi più di tanto.
Nella disamina dei complessi rapporti intercorrenti tra Vaticano e Cina, ciò che anche la UE (e non soltanto lo Stato Pontificio) ha reputato uno dei nodi più difficili da sciogliere – o meglio un ostacolo che sembra essere stato creato ad arte da Pechino per vanificare qualsiasi sforzo di pacificazione – è l’esistenza dell’Associazione Patriottica, Secondo indiscrezioni, sembra che all’interno dello stesso esecutivo cinese non siano pochi i burocrati a ritenere l’Associazione Patriottica un “autentico problema nazionale”, un elemento in netta contraddizione con i principi che stanno alla base della cosiddetta “società armoniosa” tanto cara al giovane presidente Hú Jintāo.
Tuttavia, l’Associazione gode ancora di notevole forza e molte simpatie all’interno della gerarchia, soprattutto da parte dei suoi elementi più anziani. L’Associazione è infatti una delle più antiche organizzazioni maoiste la cui storia si è intrecciata per decenni con quella della stessa compagine politica comunista. Per questa ragione, secondo i membri anziani del PCC, eliminare o menomare l’autorità dell’ente equivarrebbe a ridimensionare, mettere in dubbio o addirittura negare principi marxisti, decretandone la ineluttabile caducità. Dal canto suo – come si è visto – gran parte della Chiesa cattolica cinese “sotterranea” reputa che il Vaticano dovrebbe evitare di stabilire normali rapporti diplomatici con la Cina fino a quando a tutti i cristiani di questa nazione non verrà concesso il pieno godimento dei diritti. A questo proposito, va ricordato che una parte degli esponenti cattolici suggerirebbe, invece, di continuare comunque lungo la strada dell’apertura diplomatica, con il preciso scopo di scavalcare l’Associazione, annullandone così il ruolo e le prerogative: obiettivo, questo, piuttosto arduo da conseguire, almeno nel breve-medio periodo.
Chiudiamo con una breve riflessione relativa agli inconfessabili timori di Pechino nei confronti della fede cristiana, che stanno alle radici del suo perdurante atteggiamento di ostilità. Fino a quando il Partito Comunista cinese ha palesato un minimo di consistenza, l’ostilità verso il cattolicesimo e il Vaticano poteva trovare una sua seppure errata “giustificazione” ideologica. “In fondo – come ha osservato Bernardo Cervellera – un Papa come Giovanni Paolo II era considerato dalla burocrazia marxista come colui il quale aveva fatto crollare il sogno, o meglio l’incubo, comunista in Europa. Ma dal momento che, a partire dagli anni Novanta, in realtà, in Cina nessuno crede più al mito del comunismo, l’astio di Pechino nei confronti della Santa Sede e, soprattutto, nei confronti della coraggiosa e sempre più numerosa minoranza cristiana cinese, assume le sembianze di un’irrazionale ed inutile paura. Mentre il patrimonio culturale maoista si sgretola di fronte all’epocale e sfrenata mutazione “capitalista” di questo immenso Paese, il Partito si trova a fare i conti con una realtà, fino ad appena un decennio fa totalmente inimmaginabile: la rinascita tra le masse, disgustate dalla crescente corruzione delle istituzioni e deluse dal tradimento degli impossibili ideali di giustizia sociale predicati per decenni dallo stato materialista, del sentimento religioso. Quello che – stando a numerosissime indagini ed interviste semi-clandestine – oggi reclamano a gran voce milioni di giovani cinesi, assetati non soltanto di facile benessere materiale, ma di dignità e autentica giustizia. Ma di tutto ciò, l’Occidente ne è al corrente? Ne dubitiamo fortemente. Almeno, fino a prova contraria.
La discriminazione anti-cristiana in Asia, alcuni esempi da ricordare:
Buthan
Culto pubblico, evangelizzazione e proselitismo religioso sono illegali se compiuti da non buddisti. Nelle due versioni Ningmapa e Kagyupa il buddismo modella la politica e per un buddista è peccato convertirsi al cristianesimo. Nel paese possono essere introdotti soltanto testi religiosi buddisti. Nessun insegnamento religioso diverso è consentito nelle scuole.
Cambogia
Una recente ripresa del nazionalismo – strettamente connesso con il buddismo che è la religione di stato – ha reso più difficile la vita di cristiani e musulmani, presenti soprattutto in aree rurali. Recentemente, gruppi buddisti hanno attaccato una chiesa a Kok Pring, nel sud-est del paese, durante la funzione domenicale, incolpando i cristiani di una siccità che durava da tre anni. Particolarmente critica è la situazione per i cristiani Montagnard fuggiti in Cambogia dal Vietnam. Il governo cambogiano dà loro la caccia e li riconsegna alla polizia vietnamita, che li mette in prigione.
Laos
Il governo comunista, al potere dal 1975, ha dichiarato espressamente di voler eliminare i cristiani, perché considera il cristianesimo una violazione dei costumi laotiani e una “religione straniera imperialista” appoggiata da interessi politici occidentali e americani. I cristiani sono quindi considerati sovversivi e nemici dello stato. La persecuzione colpisce in particolare i cristiani dell’etnia Hmong, convertiti da missionari protestanti americani. Si registrano casi di forzata abiura dalla fede cristiana, con la prigione per chi rifiuta.
Mongolia
La costituzione garantisce la libertà religiosa e il governo generalmente la rispetta, ma vi sono ostacoli al proselitismo e difficoltà per la registrazione e l’ottenimento dei permessi per lo svolgimento dell’attività religiosa. Il buddismo – di tipo lamaista tibetano – non è religione di stato, ma viene considerato parte integrante della vita della nazione e ha acquisito supremazia e vantaggi rispetto alle altre religioni.
Myanmar
Il buddismo theravada praticato dalla maggioranza della popolazione non è religione di stato, ma il governo lo controlla e favorisce, mentre perseguita le minoranze cristiana e musulmana. Le scuole cattoliche sono state confiscate dallo stato e i cristiani non possono accedere a ruoli dirigenti. I cristiani appartengono in prevalenza alle popolazioni Chin, Kachin e Karen, tra le quali sono attivi movimenti indipendentisti. Molti sono fuggiti in Thailandia e in India, dove vivono in campi profughi. Nella regione dei Chin le croci sulle montagne, espressive della loro fede, sono state tutte abbattute, spesso sostituite da pagode. I cristiani sono obbligati a versare una tassa annuale per sostenere la religione buddista e, se si convertono, ottengono privilegi: l’esenzione dai lavori forzati a servizio dell’esercito, ai quali sono costretti periodicamente. Le Bibbie sono vietate e così le riunioni all’infuori delle liturgie domenicali, che a loro volta sono spesso disturbate o interrotte. Molti bambini cristiani sono portati lontano dalle famiglie e internati in monasteri buddisti.
Sri Lanka
Nello Sri Lanka dove i buddisti sono quasi il 70 per cento – si legge nel rapporto annuale dell’Aiuto alla Chiesa che Soffre – “il cristianesimo è percepito come un’imposizione coloniale e la condizione dei cristiani si sta rapidamente deteriorando”. La reazione anticristiana si esprime anche in forme violente e prende di mira soprattutto le comunità evangeliche e pentecostali. I monaci buddisti, specie nelle zone rurali, guidano gli assalti a chiese, scuole, pastori e fedeli, con distruzioni e massacri, e sfilano in cortei di protesta contro “la diabolica cospirazione delle forze cristiane per convertire e corrompere la nazione”.
Vietnam
Sono sei le religioni autorizzate: buddismo, cattolicesimo, protestantesimo, islam, Hoa-hao e Cao-dai. Ma su ciascuna il controllo governativo è fortissimo, spesso accompagnato da vere e proprie persecuzioni, con arresti di fedeli e distruzione di chiese e templi. La consistente minoranza cristiana, più dell’8 per cento della popolazione, è particolarmente vessata, per motivi religiosi ed etnici (è il caso delle popolazioni Montagnard e Hmong). Ma anche il buddismo, che è la religione più diffusa, seguita dal 50 per cento dei vietnamiti, subisce pesanti restrizioni.
Alberto Rosselli è un giornalista e saggista storico che ha collaborato e collabora da tempo con diversi quotidiani italiani ed esteri e con svariati siti internet tematici di storia, etnologia, storia militare e diplomatica e geopolitica. Come studioso di storia moderna, contemporanea e militare Rosselli ha al suo attivo alcune opere di narrativa e diversi saggi tra cui Québec 1759, Il Conflitto anglo-francese in Nord America 1756-1763 (tradotto anche in lingua inglese), Il Tramonto della Mezzaluna – L’Impero Ottomano nella Prima Guerra Mondiale, La resistenza antisovietica in Europa Orientale 1944-1956, L’Ultima Colonia – la guerra coloniale in Africa Orientale Tedesca 1914 – 1918; Il Ventennio in Celluloide (in collaborazione con Bruno Pampaloni); Sulla Turchia e l’Europa; L’Olocausto armeno; Storie Segrete della Seconda Guerra Mondiale; Il Movimento panturanico e la ‘Grande Turchia’ e La persecuzione dei cattolici nella Spagna repubblicana 1931-1939, La persecuzione dei cristiani in Cina, La Guerra Civile in Cina 1927-1949 e (di prossima uscita) La Guerra Civile Greca 1944-1949. Attualmente Alberto Rosselli è direttore editoriale della rivista bimestrale Storia Verità.