In Vietnam continua la dura repressione del governo comunista ai danni della minoranza cristiana dei Montagnard. E a fronte della meritoria attività diplomatica vaticana, fa purtroppo riscontro il totale disinteresse e l’indifferenza dei governi occidentali.
Di Bruno Pampaloni
Le notizie provenienti in questi giorni da Hanoi confermano che, nonostante alcune pretestuose concessioni da parte del governo vietnamita, continua la persecuzione ai danni della minoranza cristiana montagnard, ormai a serio rischio di estinzione. Mentre la repressione nei confronti di questa sfortunata comunità prosegue con rinnovata violenza, va registrata la pressoché totale indifferenza dell’ opinione pubblica.
I montagnard (in francese significa “popolo delle montagne”) vivono nelle cosiddette Terre Alte, al confine tra il Vietnam e la Cambogia e professano da due secoli la fede cristiana. Si tratta di un gruppo razziale presente in quelle regioni ben prima che i cosiddetti ‘viet’ – di origine cinese e venuti dal nord – spingessero gli indigeni verso le foreste e gli altipiani. Mentre negli anni Settanta del Novecento sfioravano i due milioni e mezzo di persone, i montagnard non superano oggi il numero di 650.000 individui (400.000 dei quali di credo protestante evangelico e 200.000 cattolico). Nel 1954, dopo l’abbandono da parte francese del Vietnam e del Laos, essi preferirono adottare il nome di dega. Il termine, di provenienza linguistica Rhade, racchiude in sé la leggenda della nascita di questo popolo i cui due leggendari capostipiti sembra fossero De, di origini mon-khmer, e Ga, di discendenza malese-polinesiana. I montagnard di fatto appartengono allo stesso ceppo delle popolazioni indigene presenti in alcuni stati del sud-est asiatico come la Birmania, la Thailandia, il Laos, l’India o il Bangladesh. Si tratta di collettività relegate dovunque ai livelli più bassi della gerarchia sociale. Il “popolo delle montagne” è composto da 30 tribù aventi usanze, interazioni sociali e dialetti particolari. Attualmente, i più importanti clan sono i Jarai (320.000 individui), i Rhade (258.000), i Bahnar (181.000), i Koho (122.000), i Mnong (89.000) e i Stieng (66.000). Durante la Guerra del Vietnam, i montagnard – perseguitati sia dai comunisti di Hanoi che dai nazionalisti di Saigon – strinsero rapporti di amicizia e di cooperazione con le forze statunitensi (le uniche disposte a proteggerli), scelta di campo che dopo il 1975 consentì al nuovo regime marxista di bollarli come traditori e quindi di trattarli come tali ancora oggi. Eppure, tranne alcune encomiabili eccezioni come, ad esempio, le denunce della Fondazione Montagnard o del Partito Radicale Transnazionale, l’opera di informazione compiuta da Asia news e qualche blanda iniziativa delle Nazioni Unite o della Union Europea, l’interesse della comunità e dei governi occidentali in merito alla sorte dei dega è praticamente nullo. D’altra parte non vi è da meravigliarsi per l’atteggiamento ipocrita adottato dai diversi paesi democratici, poiché molti di loro hanno da poco riallacciato proficui scambi commerciali con il Vietnam. Come la Cina, anche questa Repubblica Socialista, un tempo acerrima nemica del sistema socio-economico occidentale, sembra avere cambiato rotta, folgorata dai benefici prodotti dal liberismo. Si tratta di un ribaltamento ideologico dai tratti copernicani che, tuttavia, non ha impedito al Vietnam di mantenere in piedi un regime marxista duro e spietato nei confronti dei dissidenti o degli appartenenti agli antichi gruppi etnico-religiosi del paese. Una persecuzione che, d’altra parte, si in quadra perfettamente nella volontà egemone del mai sopito nazionalismo vietnamita. La Fondazione Montagnard – l’organizzazione che opera da anni per la libertà religiosa del “popolo delle montagne” e ne segue costantemente la situazione – denuncia da molto tempo le pratiche adottate da Hanoi per discriminare i montagnard: occupazioni militari di interi villaggi per mettere sotto il controllo governativo ogni sorta di pratica religiosa, divieto di celebrare messe in pubblico, requisizioni di terreni e proprietà della Chiesa, censura dei testi religiosi da parte del partito comunista, una metodica campagna di diffamazione e, nei casi più gravi, torture, detenzioni o sequestri compiuti dalla polizia.
Le persecuzioni arrivano ad assumere toni tristemente grotteschi. Basterebbe ricordare a questo proposito quanto accaduto il 19 luglio 2006: la polizia di Ha Nam, dopo aver lasciato morire in carcere un uomo di 62 anni, non concesse alla moglie il permesso di recuperare il cadavere per la sepoltura con rito cristiano, poiché il corpo – citiamo il freddo comunicato burocratico – “doveva rimanere in galera fino alla fine della pena”. Il 3 luglio 2006 l’agenzia vietnamita Avi ha dato inoltre notizia della condanna di sei persone a tre e a sette anni “per aver sabotato la politica di unità nazionale” e per aver organizzato emigrazioni clandestine. Come rilevato da Asia news “il processo, avvenuto il 21 giugno, segue di pochi giorni (…) le dichiarazioni con le quali il portavoce del ministero degli Esteri, Le Dung, respingeva, definendolo menzognero, il rapporto dell’americana Human Rights Watch sulle rappresaglie messe in opera dalle autorità vietnamite contro i montagnard rimpatriati dopo essere fuggiti in Cambogia. Secondo le informazioni dell’Avi, i fatti per i quali i sei sono stati condannati sono avvenuti tra il 2002 e il 2005. Le prime proteste massicce di montagnard hanno avuto luogo nel 2001 e le seconde nel 2004. Gli accusati avrebbero dato vita ad attività di propaganda antinazionale ed avrebbero creato piccoli gruppi ‘reazionari’, nel quadro del movimento Dega (Degar nel testo) (…). Il rendiconto del processo non fa alcuna allusione ad attività religiose, se non per raccontare che gli accusati avevano l’intenzione di diffondere denunce calunniose di repressione antireligiosa da parte dello Stato. Ma, secondo l’AFP, i sei accusati sarebbero membri di una ‘Chiesa evangelica Dega’. Essi avrebbero spinto 300 persone a manifestare e sarebbero stati arrestati mentre si preparavano ad organizzare la partenza clandestina verso la Cambogia di 22 persone”. Il processo denunciato da Asia news non è certo il primo di questo genere. Dal 2001, infatti, è stata la stessa stampa di regime a pubblicare dettagliati resoconti sui procedimenti contro piccoli gruppi montagnard giudicati dai tribunali popolari per presunti crimini contro la sicurezza pubblica o l’unità nazionale. Inoltre, secondo l’ultimo rapporto di Human Rights Watch – che ha ripreso le informazioni di alcuni organi di stampa del Vietnam – si contano 159 processi con condanne certe, mentre non è mai stata data notizia di molte altre punizioni “esemplari”. Ancora una volta le speranze per un miglioramento della situazione di tutti i clan dega passano per l’azione della diplomazia vaticana. Nel mese di marzo, infatti, una rappresentanza della Santa Sede, guidata da monsignor Piero Parolin, sottosegretario della sezione per i rapporti con gli Stati, ha raggiunto il Vietnam per dare – come ha notato ancora Asia news – “il concreto avvio del processo verso i rapporti diplomatici e ad alcune nomine di vescovi, oltre che alla visita di alcune realtà cattoliche locali”. La missione ha fatto seguito allo storico incontro di Roma tenutosi il 25 gennaio tra il premier di Hanoi Nguyen Tan Dung e Benedetto XVI, in occasione della prima visita di un capo dell’esecutivo vietnamita in Vaticano. Si è trattato certamente di un evento significativo e che lascia quantomeno sperare in una normalizzazione dei rapporti bilaterali. Di fatto, la situazione appare ugualmente delicata. Vi sono state, è vero, alcune aperture governative in materia di diritti umani, compresa quindi anche la libertà religiosa. La Santa Sede ha commentato positivamente, inoltre, “le più profonde condoglianze al Vaticano, alla comunità dei cattolici del mondo intero e ai fedeli cattolici del Vietnam” espresse dal governo di Hanoi per la morte di Giovanni Paolo II. In occasione dei funerali del Papa, è stato “perfino” consentito di installare nella cattedrale di Hanoi un maxischermo per seguire la cerimonia. Ciononostante va considerata la natura chiaramente strumentale di tali aperture dato che, nella pratica, esse non impediscono il perdurare della repressione nei confronti delle minoranze cristiane. Dietro l’atteggiamento apparentemente conciliante adottato da Hanoi in merito ai rapporti diplomatici con la Santa Sede, vi potrebbe essere in realtà il desiderio di vedere crescere gli investimenti stranieri (di recente il Vietnam è entrato a far parte del WTO, l’Organizzazione mondiale del commercio, la cui partecipazione prevede infatti formali aperture sui diritti civili), il proposito di istigare contrasti tra i cattolici ed i credenti di altre religioni o il tentativo di creare divisione tra i cattolici stessi. Nonostante l’ambiguo comportamento di Hanoi, la diplomazia vaticana si adopera per non forzare i toni delle recriminazioni. In questo senso vanno interpretate alcune recenti dichiarazioni provenienti dalla Santa Sede in seguito alla visita del premier vietnamita. In esse veniva sottolineato come Hanoi guardasse con rinnovato favore ai cattolici. Secondo quanto è stato fatto filtrare dai Sacri palazzi, infatti, fallito il tentativo di creare una “Associazione patriottica” sul modello cinese, Hanoi avrebbe compreso l’utilità della morale cattolica per un “Paese che soffre per gli squilibri di una rapida e non armonica crescita economica, per la corruzione e per il diffondersi di una mentalità di frenetica ricerca del successo a tutti i costi”. Di qui “la promozione dei valori morali, in particolare nella gioventù, la diffusione di una cultura della solidarietà e l’assistenza caritativa in favore dei ceti più deboli della popolazione”. La chiesa cattolica, come detto, modera i toni, ma è certamente a conoscenza della situazione allo stato attuale ancora molto seria. Secondo i dati in possesso degli osservatori internazionali, sono oltre 350 i cristiani montagnard che si trovano tuttora in prigione o che vengono fatti sparire in quanto sacerdoti. L’ultimo caso di sequestro e sparizione di un prete, secondo quanto riferisce la Fondazione Montagnard, è avvenuto il 17 febbraio 2007 nel villaggio di Buon Moak. Mentre i più fortunati riescono a riparare in Cambogia, gli arrestati hanno un solo modo per sfuggire alle torture: rinnegare la loro fede.
Bruno Pampaloni, genovese, giornalista, saggista collabora o ha collaborato con radio, quotidiani e periodici nazionali cartacei e on line, tra cui Rai Gr Parlamento, Panorama Economy, Il foglio, Libero, Libero Mercato. Scrive di esteri, geopolitica energetica e cultura. Come saggista ha recentemente pubblicato “La Storia non è un film. Da Zapata al Vietnam: il Novecento tradito dal grande cinema. Miti, silenzi, bugie”(2009 -Settimo Sigillo). Sempre per la stessa casa editrice e insieme ad Alberto Rosselli ha pubblicato “Il Ventennio in celluloide” . Come scrittore ha al suo attivo Nessun Male (Mondadori 2007) e Livuoi tutti morti (Fratelli Frilli 2005).Insieme ad Alexandre Del Valle sta terminando il saggio: Islam moderato: cronaca di una speranza o storia di un fallimento?