Un giorno, un vecchio comunista, di quelli di una volta, formatosi politicamente durante i primi Anni Sessanta del ‘900 a Mosca presso la scuola politica del PCUS e poi diventato, in Italia, uomo d’apparato e buon assessore provinciale del PCI, mi disse: “Cosa vuoi che interessi a un proletario dei diritti borghesi, quando deve fare i conti tutti i giorni con la sua condizione sociale. Certamente preferirebbe meno libertà e più giustizia”. Era la visione ideologica della sinistra radicale: l’idea di una libertà non squisitamente individuale – come si leggeva sui vecchi testi comunisti – ma “socialmente attiva”, in grado cioè di spezzare le catene dell’oppressione sociale sui singoli uomini, al punto di limitarla, se non abolirla. Cambiano i tempi, cambiano – per dirla alla vecchia maniera – i rapporti di forza politico-culturali ed ora ecco emergere – dati alla mano – gli orientamenti di un’opinione pubblica pronta a sacrificare un pezzo di democrazia per la sicurezza. Parole di Nicola Piepoli, a margine di un recente sondaggio: di fronte “all’avanzata del populismo in Italia, dovuta al fatto che la sicurezza economica è diminuita, la disparità tra ricchi e poveri è aumentata, la sicurezza personale è ritenuta insufficiente e, soprattutto, le espressioni tradizionali della politica sono, per i bisogni degli italiani, fuori del nostro tempo”. La sintesi, secondo Piepoli, è che – per il 44% degli intervistati – “in Italia è meglio meno democrazia e più ordine”. Non siamo ancora alla maggioranza assoluta, ma poco ci manca. La questione non è da sottovalutare o da archiviare con sufficienza, anche perché essa è sintomo di un disagio profondo, che – come ha scritto recentemente Ernesto Galli della Loggia, sul “Corriere della sera” – evidenzia gli errori delle élite globaliste del continente europeo, con il conseguente fallimento delle promesse di sviluppo e di democrazia, che, da qualche decennio, ne avevano accompagnato le scelte. Non a caso la domanda di sicurezza e la voglia di uno Stato presente (non onnipresente) che faccia il proprio dovere, tutelando i cittadini e i confini, la legalità e il territorio, si coniuga con la volontà di partecipazione reale da parte dei cittadini (rispetto a quella che è stata ribattezzata una “democrazia recitativa”, dove il popolo entra in scena solo al momento del voto). Altrimenti il popolo si ribella (alla maniera dei gilets gialli d’Oltralpe) o comincia a manifestare il proprio disagio, al punto da volere meno democrazia e più sicurezza. Certi sondaggi non scoprono niente di nuovo. Sono numerosi gli studi che, nell’ultimo decennio, si sono interrogati sulla crisi del sistema democratico, fino a parlare di democrazia illiberale e di “demos assente”, cioè di una democrazia senza popolo, di un potere del popolo che non ha potere, di un popolo sovrano senza sovranità. Preso atto di questo quadro, per chi abbia a cuore la tenuta reale del sistema democratico occorre evidentemente cambiare registro. A cominciare dal mondo della cultura e dell’informazione, preoccupati più della difesa formale della democrazia che del suo concreto dispiegarsi, per poi arrivare a una parte del mondo politico, genericamente di sinistra, spesso distratto rispetto ai veri interessi dei cittadini, alla domanda di sicurezza e di giustizia sociale che sale dal Paese reale. Queste esigenze non sono insomma i cosiddetti populisti a inventarsele, ma nascono dal corpo vivo della società. Che sia la “pancia” o il cervello a porle poco importa.]]>
Più ordine e meno democrazia? Cosa porta la crisi delle élite globali – di Mario Bozzi Sentieri
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2 commenti su “Più ordine e meno democrazia? Cosa porta la crisi delle élite globali – di Mario Bozzi Sentieri”
Una disamina lucida, completa e stringata. Complimenti.
concordo in pieno con Alessandro2 per la lucida sintesi con cui si è delineato il Panorama attuale