Anche se non lo sa, l’uomo vive di simboli. Il creato, la storia, le nostre storie, la vita, le nostre vite sono repertori di segni che rimandano ad altro e a un Altro, tracce celesti che noi troppo spesso ignoriamo o male interpretiamo. Anche l’attimo in cui termina un anno e ne inizia uno nuovo è un simbolo: è il segno della spada che libera il nostro spirito nel mondo per cui è stato creato, della possibilità di nascere a una vita nuova in Cristo, della libertà di pronunciare per sempre la nostra parola e dire irrevocabilmente il nostro destino. Riscossa Cristiana vuole sottolineare questo aspetto del Capodanno attraverso la riproposizione di “Diario Bizantino”, un componimento poetico di Cristina Campo, introdotto da un breve saggio di Marco Toti. Insieme con gli auguri di Buon Anno, anzi come vero augurio di Buon Anno, vi invitiamo a godervi letterariamente e spiritualmente questo poemetto che inizia con un verso di rara perfezione: “Due mondi – e io vengo dall’altro”. (A.G.)
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Alcuni intellettuali credenti – spesso “convertiti”, ovvero timorosamente “sulla soglia” della Chiesa – si sono distinti nell’ambito della complessa temperie storico-culturale dell’arco cronologico che data, orientativamente, dall’inizio degli anni ’60 – quando, dopo il boom degli anni ’50, e forse come suo necessario “contraccolpo”, si andava chiaramente profilando, all’orizzonte della società occidentale, una autentica “crisi” strutturale, dalle radici ben risalenti – alla prima metà degli anni ’70. Al fine di proporre alcuni punti di riferimento cronologici, forniamo come “coordinate” tre eventi: la chiusura del Concilio Vaticano II (8/12/1965), la doppia proclamazione della Institutio generalis della “nuova messa” da parte di Paolo VI (aprile 1969 e marzo 1970) e la consacrazione dei seminaristi ad Ecône da parte di Mons. M. Lefebvre (avvenuta nel 1975, e a cui seguì la sospensione a divinis dell’arcivescovo francese).
Cristina Campo (Bologna, 1923-Roma, 1977), sublime e sfuggente figura di scrittrice, poetessa e traduttrice, intrattenne stretti rapporti con l’ambiente battagliero – certamente ristretto ma non ininfluente – dei “tradizionalisti” cattolici. Sono, ad esempio, abbondantemente documentati (oltre che, per quanto riguarda il secondo, “cruciali”) i contatti tra la Campo e, tra gli altri, Monsignor M. Lefebvre e Padre M.L. Guérard des Lauriers.
È stato asserito che Cristina morì, letteralmente, di agonia per la Messa antica. Nelle parole del padre domenicano Guérard des Lauriers, futuro estensore, alla fine degli anni ’70, della famosa “Tesi di Cassiciacum” – che distingue tra “materia” e forma” del papato -, il “Breve Esame Critico del Novus Ordo Missae”, firmato dai cardinali A. Bacci e A. Ottaviani (ma non da Monsignor Lefebvre) su sollecitazione della stessa Campo, e presentato a Paolo VI il 20 (o 21) ottobre 1969 da Ottaviani (con una lettera di accompagnamento), costituì un “intervento il cui onore deve essere attribuito a colei che ne concepì il progetto, ne portò il peso e ne morì d’agonia”.[1] Il testo in oggetto fu messo a punto dalla Campo a partire da note scritte in francese e da lei vergato direttamente in italiano (sotto dettatura di Guérard des Lauriers) tra l’aprile ed il maggio del 1969 (soprattutto di notte); quindi, esso fu lungamente e scrupolosamente analizzato da Ottaviani, e da questi firmato il 13 settembre (alla firma di Ottaviani seguirà quella del card. Bacci il 28 seguente). Lo storico documento fu poi tradotto in francese dalla Campo e da Mons. Guérard des Lauriers, su domanda di Mons. Lefebvre; ovviamente, parallelamente a ciò, senza quartiere fu anche la lotta della Campo contro la “nuova messa”, che ella definì perentoriamente come “l’orrore”.[2] Ad ogni modo, in “Una immensa vittoria” (“Una Voce Notiziario” 2, 1970, 3-4), la Campo scrisse significativamente: “Per la prima volta – se non erriamo – nella storia della Chiesa, la Santa Sede ha corretto, a meno di un anno dalla sua apparizione, un documento pontificio ufficiale. Si tratta del sinistro paragrafo 7 della Institutio generalis che apre il nuovo messale di Paolo VI, pubblicato nell’aprile 1969. Questo paragrafo, nella edizione del marzo 1970, è radicalmente trasformato. Poiché esso contiene la definizione stessa della messa, non sarà difficile misurare l’importanza della trasformazione.
Vittoria grandissima dei Cardinali Ottaviani e Bacci e della Fondazione ‘Lumen Gentium’, le cui critiche al nuovo messale si sono mostrate così pienamente giustificate, contro il parere di tutti quei cattolici per i quali l’obbedienza è divenuta una droga e che sostenevano l’illegittimità delle osservazioni dei Cardinali”. Subito dopo, la Campo procede a comparare “le due definizioni”; in effetti, si può facilmente rilevare che nella versione del 1970 fu aggiunto sia che il sacerdote “rappresenta il Cristo”, “realmente presente nell’assemblea riunita in suo nome, nella persona del ministro, nella sua parola sostanzialmente e in maniera ininterrotta sotto le specie eucaristiche”, sia il carattere sacrificale della Messa, “nella quale si perpetua il sacrificio della Croce” (l’A. sottolineava significativamente entrambe le aggiunte, neppure implicite nella prima versione): ciò che induce la Campo a qualificare la “differenza dei due testi” come “una differenza di religione”.
Anche se sulla definizione originale, nonostante il suo “emendamento” (!), rimase costruito il messale paolino, “la vittoria dei Cardinali sul paragrafo 7” dimostrava la liceità e l’utilità della critica “là dove fede e tradizione siano in gioco”, della “richiesta di correzione dei testi che diano adito a tali critiche”.
La Campo fu inoltre fondatrice non ufficiale di “Una Voce-Italia”, l’organizzazione sorta per la salvaguardia del rito romano antico (e del canto gregoriano ad esso connesso), la cui prima “incarnazione” si ebbe nel 1964, a Parigi; tale organizzazione si costituì giuridicamente il 7 giugno 1966. I primi numeri di “Una Voce-Italia” furono quasi interamente scritti o curati da Cristina stessa. Certamente, gli anni successivi al 1970 costituirono per Cristina un periodo di crisi, sia dal punto di vista personale che da quello “sacramentale”: Guérard des Lauriers lasciava Roma nel 1970, mentre il suo confessore, P. B. Lenzetti, era nel frattempo deceduto; la Campo, nel frattempo, cominciava a frequentare i riti russo-cattolici del “Russicum”. In questo torno di tempo, “l’ultimo servizio alla causa tridentina fu la pubblicazione – per le edizioni Rusconi – del libro di Mons. Lefebvre, Un Vescovo parla, proprio del 1974”.[3] Se l’interesse per la liturgia romana e bizantina, insieme a quello per la poesia – tra le quali è facile notare gli stretti legami, messi in luce dalla stessa Campo –, fu il più significativo della vita della scrittrice, e, per gli ultimi 15 anni circa della sua vita, quasi “totalizzante”, è chiaro che “l’interlocutore privilegiato di C. fu – almeno per la liturgia stessa – Mons. Lefebvre, nel quale ella vide l’intemerato custode dell’ortodossia”.[4]
Oltre alla citata lettera presentata a Paolo VI, l’attività della Campo in difesa della Messa romana partorì due altri importanti documenti. Il primo, voluto dalla Campo e firmato, tra gli altri, da R. Amerio, J.L. Borges, G. De Chirico, A. Del Noce, C.T. Dreyer, J. Maritain, E. Montale (pochi mesi dopo eletto vicepresidente di “Una Voce-Italia”), S. Quasimodo, M. Zambrano, E. Zolla, fu sommamente significativo in quanto influenzò il papa nella preservazione del latino nella liturgia romana (cfr. la Lettera Apostolica di Paolo VI Sacrificium laudis, del 1966). Il secondo manifesto, anche questo attribuibile alla Campo e pubblicato prima dal Times e poi, in traduzione italiana, ancora da “Una Voce Notiziario” (6, luglio 1971, 4), fu firmato, tra gli altri, da R. Amerio, A. Del Noce, E. Paratore, J. L. Borges, M. Luzi, E. Montale, M. Zambrano, A. Christie, ed ebbe un altro importante effetto: l’”indulto”, concesso da Paolo VI il 5-11-1971 per quanto concerne l’uso della Messa tridentina in Inghilterra e Galles.
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“Diario Bizantino”, componimento che la Campo consegna pochi giorni prima della morte alla rivista “Conoscenza Religiosa” (che la pubblica nel numero di gennaio-marzo 1977, con una dedica in memoriam a Cristina), può essere considerato il suo testamento poetico. Esso costituisce pure la summa del suo pensiero: come ha scritto M. Pieracci Harwell, per comprendere la esile produzione poetica – non solo poetica! – della Campo (30 poesie) si deve partire da qui. In questa sede, noi ci concentreremo in particolare sulla prima parte dell’opera, evocando alcuni temi “topici” – tutti “sapienzialmente” connotati in modo “abissale” – della poetica della Campo.
Secondo E. Paroli, questa poesia riscrive la fiaba. In essa si reinterpretano, in chiave formalmente diversa e con una consapevolezza più “intuitiva” rispetto al registro saggistico, le tesi campiane sulla fiaba: “così, se si dia un evento essenziale per la nostra vita – incontro, illuminazione – lo riconosceremo prima di tutto alla luce d’infanzia e di fiaba che lo investe”.[5] Il delicatissimo, e al tempo stesso quasi infuocato e rapsodico, complesso intrico del componimento (si pensi all’immagine del tappeto, ben presente nell’opera della Campo), caratterizzato, nella sua prima parte, dalla icastica anafora “Due mondi – e io vengo dall’altro”, evoca quasi subito il tema della soglia (del giudizio, quindi) come lama: “la soglia […] è il taglio vivente ed efficace/più efficace della duplice lama/che affonda/sino alla separazione/dell’anima veemente dallo spirito delicato/…la lama che discerne del cuore/le tremende intenzioni/le rapinose esitazioni” (vv. 16-28). Se la lama richiama la spada di Cristo, ma anche la frequentazione intellettuale di P. Celan, è qui evidente pure il riferimento alla “Lettera agli Ebrei” 4,12, ove la “parola di Dio”, “viva e efficace”, è “più tagliente e efficace di qualunque spada a doppio taglio”; essa “penetra a fondo, fino al punto dove si incontrano anima e spirito”, “conosce e giudica anche i sentimenti e i pensieri del cuore”. Il “mondo celato al mondo, compenetrato nel mondo/inenarrabilmente ignoto al mondo” (vv. 9.-10), ed “[…] il lume coperto, il sepolto Sole” del v. 14 rimandano invece all’”esoterico” come dimensione interna della “sapienza”, pure “concreta”: il “nocciolo”, richiamato come “ben spiccato” al v. 24.
Aveva scritto Cristina, a proposito del nocciolo: “di certe pesche si dice in italiano che hanno ‘l’anima spicca’, il nocciolo, cioè, ben distaccato dalla polpa. A spiccarsi del pari il cuore dalla carne o, se vogliamo, l’anima dal cuore, è chiamato l’eroe di fiaba, poiché con un cuore legato non si entra nell’impossibile”.[6]
La Paroli afferma anche, molto intelligentemente, che in questo passaggio (incipit della seconda parte del “Diario”): “Uno a uno vengono accesi i volti/ alle radici millenarie/ […] per fare di giorno notte,/ neve e stelle,/ per far della tenebra rose” si ritrovano “ […] le teorie esposte dalla Campo nel saggio In medio cœli, ove l’autrice legava la conoscenza acquisita per mezzo della fiaba alla necessità di un ritorno sui luoghi della propria infanzia, riassunta nell’espressione, evocata più in alto, di ‘avanzare di ritorno’.
Nello stesso saggio, Cristina Campo attribuiva anche alla ‘perfetta poesia’ questa capacità di ricondurre l’uomo ad un ‘sapere antichissimo’. Un’operazione, anche questa, in cui non può non prorompere il ‘tripudio infantile’”[7]: La fiaba, analoga, se non omologa, alla poesia, si lega ad un percorso interiore à rebours verso la propria infanzia, luogo reale, della memoria e dell’immaginazione, in cui si poté cogliere più “intuitivamente” (ma forse più inconsapevolmente, per la natura in certo senso “virginea” dell’”età favolosa”), seppure per illuminazioni “istantanee”, il gaudio dell’origine: una sorta di progressione all’inverso, una “regressione attiva” che permette il capovolgimento del mondo fenomenico (il “giorno” in “notte”, la “tenebra” in “rose”)[8] e la reversione dell’iter temporale lineare. Ciò echeggia, ancora, limpidi, “originali” paesaggi scritturali: “In verità vi dico: se non cambiate e non diventate come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Chi pertanto si farà piccolo come questo bambino, sarà lui il più grande nel regno dei cieli” (Mt 18,3-4). L’altro mondo, da cui l’eroina-Cristina proviene, è il “rovescio” del nostro mondo: infatti, lì, “gli ultimi saranno i primi”.
Cristina consegnò il “Diario Bizantino” – testamento poetico, e quindi di vita: una esistenza tormentata, e sublime, segno discreto ma possente di una temperie storica cruciale nell’iter “culturale” di Occidente – in limine mortis. Ella scrisse pochissimo: ma questo poco, così perfetto da lambire con “sprezzatura” i reami della estenuazione di uno spirito eletto, riverbera come iconica fiaba immemoriale, quasi vergata dall’altro mondo. L’eroe, che viene da un mondo che non è il nostro, vince sempre, dopo mille, angosciose peripezie: soprattutto quando tutto sembra perduto, quando cala abbondante la Grazia dai cieli, egli trionfa nella “grande guerra santa”.
Allora, qui varrà anche ricordare il pur abusato adagio “la mia spada è la penna”. Si dice che la Campo, dopo tanta lotta per il venerabile rito romano, l’avvicinamento alla Messa greco-bizantina – ma non all’Ortodossia, da lei pure visceralmente amata – morì con un radioso sorriso in volto. Attraverso una penna ispirata, poiché intinta in un sublime martyrium sine cruore, dopo aver salvato la Messa romana, Cristina ha guadagnato, crediamo, il Regno dei Cieli: come per “porte minuscole”, per i sette mari, danzando la danza delle spade, attraversando il ponte tibetano, e valicando sideree, perigliose dogane di fuoco.
DIARIO BIZANTINO
I
Due mondi – e io vengo dall’altro.
Dietro e dentro / le strade inzuppate / dietro e dentro / nebbia e lacerazione / oltre caos e ragione / porte minuscole e dure tende di cuoio, / mondo celato al mondo, compenetrato nel mondo, / inenarrabilmente ignoto al mondo, / dal soffio divino / un attimo suscitato, / dal soffio divino / subito cancellato, / attende il Lume coperto, il sepolto Sole, / il portentoso Fiore.
Due mondi – e io vengo dall’altro.
La soglia, qui, non è tra mondo e mondo / né tra anima e corpo, / è il taglio vivente ed efficace / più affilato della duplice lama / che affonda / sino alla separazione / dell’anima veemente dallo spirito delicato / – finché il nocciolo ben spiccato ruoti dentro la polpa – / e delle giunture dagli ossi / e dei tendini dalle midolla: / la lama che discerne del cuore / le tremende intenzioni / le rapinose esitazioni.
Due mondi – e io vendo dall’altro.
O chiave che apri e non chiudi, / chiudi e non apri e conduci / teneramente il vinto fuor della casa del carcere / e fuor dell’ombra della morte / e il senza tetto negli atrii luminosi / dei mille occhi impassibili / di chi ha compiutamente patito / e delle mani contro la notte levate / nel santo ideogramma della benedizione / disegnati / ridisegnati / secondo gli otto toni che separano gli otto cieli / con l’erotico incenso e il ferale myron / al centro del petto, al centro del Sole, là dove il nome / – myron effuso è il Tuo Nome! / rapisce il vortice immoto alla vita del mondo, zampilla nuovi sensi dal mondo della morte.
II
Uno a uno vengono accesi i volti / alle radici millenarie / della selva d’icone / per fare di giorno notte, / neve e stelle, / per far della tenebra rose/ – più che rugiada trasparenti rose. / E la fiamma sboccia come la rosa all’icona, / culmini della linfa della terra, / culmini del respiro dell’amore. / Ma la Luna qui sboccia nel Sole, / la Luna partorisce il Sole. / Alla pesante pioggia / dell’altro mondo si intese / il soave scrosciare delle dalmatiche di questo mondo. / Estatici allarmi ed appelli / d’angeli ministranti: / Le porte! Le porte! / escano i catecumeni! / Tre volte beato l’inno, tre volte divina la folgore / teologica dei Cherubini, / ingiunge di deporre, disperdere dimenticare / ogni sollecitudine mondana. / Nessun catecumeno rimanga!
O imperiale fragranza, / olio di rosa bulgara che misteriosamente dischiudi / tra ciglia umettate l’occhio / della fronte, l’occhio del cuore, l’occhio del Nome / – myron effuso è il tuo Nome! / Macerato con sessanta aromi / su un fuoco di vecchie icone / estinte da baci da fiamme da lacrime / per gli eoni degli eoni / ruotate tre notti / tre giorni / sulle spirali del Verbo, / stilli ora luminosa intorno al trono / del Basileo morto / dell’immortale Archireo: / che tragicamente s’arma, aquila librata / sopra la gnostica aquila della città inviolata / dal capo alla mano alla gamba / per la terrificante operazione. / Tempo è di cominciare, Despota santo… / Nessun catecumeno rimanga! / Ruota / lentissima intorno e folgorante / siderale e selvaggia / danza d’angeli e di ghepardi…
Pànico centrifugo / e centripeto rapimento / dei cinque sensi nel turbine incandescente: / spezzato, aperto di forza l’orecchio dell’intendimento / dalla ritmata percossa delle catene d’argento; / poi, nel cosmico manto / dei tre fiumi e di quattro quadranti / dalla lenta inaudibile benedizione: / poiché qui Dio non parla nel vento, / Dio non parla nel tuono: / parla in un piccolo alito / e ci si vela il capo per il terrore.
III
O despota ferito / che col bisturi d’oro / ad ogni sole tagli nel tondo Sole / l’Agnello immedicabile, / tagli la Luna sovrana, tagli le stelle fisse / e le opposte galassie / (cibo di salute, cibo di pace!) / dei vivi sui due versanti della morte! / Tremendo è che nei nostri sguardi affondi / l’impassibile sguardo / di Chi ha compiutamente patito, / di Chi con la stessa mano imparte ed è impartito, / e spezzando è spezzato, / immolando immolato / mangiato e mai consumato / (con desiderio desiderato…) / Tremendo che a ciascuno / sia di nuovo irrevocabilmente assegnato / per gli eoni degli eoni / come nell’Eden il suo nome e il suo cibo.
Faccia a terra le incorporee Legioni, / gli Arcistrateghi di luce, / i nostri denti affondando nelle carni dei cieli… / ma le nostre bocche mai svezzate, / in eterno grondanti la purpurea / gloria ciecamente donata / e ciecamente ricevuta, / si ostinano a impetrare / (con desiderio ho desiderato) / per te, per te, signore, / la pace che sovrasta ogni ragione, / ogni intendimento, ogni tradimento: la pace / che non ti possiamo dare…
Lungo l’intero giorno, / lungo l’intera via che porta a questo mondo / e cancella ogni via che porti a questo mondo, / lungo la dura tenda / di pioggia e lacerazione / di caos e di ragione / lungo i due fili della duplice lama / di intenzioni e di esitazioni / come te, come te, signore, / noi siamo consegnati a quella morte / che con più denti dell’amore morde / e separa la rosa / dal bacio e dalla fiamma e dalle stelle le nevi / e l’emozione dell’intellezione / e il mondo ricompone / ma atrocemente, ma come attraverso il fuoco, / per chi, Despota puro, dal puro Nome sarà salvato / e dal sepolto Sole e / dal tremendo / Dono.
IV
Nell’oro e nell’azzurro / di questo minimo cosmo / loculo d’antichissimo colombario, / gyrum coeli circuisti sola, / neonata parola / du kleine, waffenlose Dichterin! Per un’ora / nei padiglioni del tuo Creatore / gyrum coeli giocando ti fu ridato / l’anello bianco di San Vitale / la costellazione sovranamente immota, / sovranamente ordinata / intorno al sole del temporale signore / e del signore spirituale: / i cento occhi cherubinici non fissi su di te / ma sugli augusti deserti che dovrai traversare / che ti dovranno traversare. / Dai cigli sconfinati / sopra il latteo pallio di Massimiliano / alla stola color foglia del fanciullo di frange nere / che, rosa / – più che neve trasparente rosa – / lascia tremar sul cero la fiamma come un bacio / lascia tremar l’aër, neve leggera, / e lo sciàmito purpureo sul Calice che non è dato / durante cinquanta giorni / nemmeno contemplare…
O Coppa dei Misteri che bolle e non trabocca / come il tuo sangue specchio del tuo Sole! / o tacere dei canti, polverizzato il cuore! / Cocente, celestiale, / cadenzato dolore / che, neonata, giocando dinnanzi al tuo Creatore, / circuisti sola.
(da Cristina Campo, La Tigre Assenza, Adelphi)
[1] Citato in F. Ricossa, Cristina Campo, o l’ambiguità della Tradizione, Verrua Savoia (To) 20062, 6.
[2] Gli imperdonabili, Milano 20046, 225.
[3] Ricossa, op. cit., 24.
[4] Ibidem, 24 n. 94.
[5] Cristina Campo, una ‘filatrice d’inesprimibile’ Il valore simbolico della fiaba nel processo cognitivo
di una mistica del nostro tempo, Italies 21/2017.
[6] Cristina Campo, Della fiaba, op. cit., p. 33 (in Paroli, cit.).
[7] Paroli, cit. “La perfetta poesia coglie talvolta questo momento della bilancia sospesa, del filo di spada, della punta di remo su cui le antitesi conciliano. Lo riproduce col suo tono inconfondibile di sapienza antichissima entro cui scorre, prorompe il tripudio infantile. Il sentimento della paura vi è presente e quello della certezza, l’interrogazione e la memoria vi dialogano insieme e il vivente, al centro delle sue tre età, può intrattenersi in pace con i morti. Egli è fatto simile a Giano dai due volti, o addirittura, come certi aracnidi, ha plurimi occhi che gli rischiarano da ogni lato la strada” (Campo, In medio cœli, op. cit., p. 22, in Paroli, cit.).
[8] Paroli, cit., che richiama “Fiaba e mistero” della Campo.