Di Dionisio Di Francescantonio
Dopo l’alluvione informale e astrattista da cui siamo stati sommersi nei decenni scorsi, s’impone il ritorno al mestiere e al figurativo
Da artefice della pittura, ho sempre detestato e avversato la pittura informale e quella astrattista con tutti i loro derivati e affini. Dirò perché cominciando, a mo’ d’introduzione, da questa semplice osservazione: noi tendiamo facilmente ad accettare i nomi o le definizioni delle cose senza chiedercene il significato. Ma i nomi non sono solo nomi, ossia semplici suoni articolati che servono a riconoscere qualcuno o qualcosa: dietro di essi c’è quasi sempre un significato. E non dovremmo mai dimenticare di chiederci qual è il significato che si cela dietro i nomi. Ebbene, e a proposito, che cosa significa il termine informale, che cosa ci suggerisce? Il vocabolo informale dobbiamo necessariamente tradurlo, io credo, in “ciò che è informe”, quindi, andando avanti coi sinonimi per approfondirne il significato, in “senza forma”, in “amorfo”, in “indefinito” e così via per approdare, alla fine, a “vuoto”, “futile”, “insignificante”, cioè a qualcosa che è privo di senso e di significato. Proviamo ora a chiederci cosa significano le voci astrattismo e astratto. Anche qui non possiamo fare a meno di riconoscere che con esse si allude a “ciò che è avulso dalla realtà”, quindi a qualcosa che non ha attinenza col vero, a qualcosa di menzognero, ovvero, in termini schietti e crudi, a una frode, a un’impostura.
Perché dico queste cose? Perché se è vero (com’è vero) che la pittura, pur col suo linguaggio peculiare basato sulla figurazione e sulle immagini, è pur sempre un mezzo col quale io cerco di comunicare coi miei simili, allora non posso fare della pittura un linguaggio che non ha attinenza con la realtà e col vero, e che perciò costituisce un inganno e un’impostura, giacché risulta una contraddizione in termini insostenibile che io voglia comunicare con altri ricorrendo a un linguaggio senza forma e in-significante, non intelligibile al mio interlocutore. A meno che io non abbia nulla da dire ai miei simili e sia animato esclusivamente dal desiderio di esercitare un’elucubrazione tra me e me stesso, un giochino futile e inutile, per l’appunto fine a se stesso.
Dicendo questo so benissimo di suscitare lo sconcerto e forse l’irritazione di molti, cosa a cui potrei replicare, poiché sono un seguace della libertà, che ognuno può pensarla come vuole, più chiaramente che ognuno è libero d’impiccarsi alla trave che preferisce. E invece no, noi, oggi, abbiamo il dovere di fare chiarezza proprio perché l’errore si è diffuso, l’errore è penetrato in profondità e si è annidato tenacemente nelle coscienze. Gli artefici che sono rimasti fedeli al figurativismo e non hanno mai rinunciato alla grande tradizione pittorica che hanno alle spalle, devono almeno avere il coraggio di promuovere una discussione su come è stata intesa e praticata la pittura da un certo momento del Novecento fino ai nostri giorni.
Intendiamoci, non basta la figurazione per fare buona pittura. Qui non sto promuovendo il realismo, non ho intenzione di teorizzare che il pittore deve riprodurre la realtà quale è, perché chi in passato ha voluto teorizzare questo concetto è approdato, quanto meno, a quella che da noi è stata definita la glaciazione neorealistica, ma, ancora peggio, a quel realismo socialista che ha afflitto per decenni altri paesi, come la Russia di Stalin e la Cina di Mao. E, infatti, anche oggi che il figurativismo, non avendo più l’ostracismo dei decenni scorsi torna ad essere praticato, non è che produca grandi risultati o almeno risultati apprezzabili, salvo eccezioni, naturalmente. E questo accade perché qualcosa si è spezzato nel corso del Novecento e l’arte figurativa ha perduto il suo carattere e il suo significato più autentici. Giacché in ogni caso – e per essere chiari fino in fondo – non è mai stato sufficiente per un pittore saper riprodurre la realtà per ottenere quello che si chiama l’effetto artistico o, per usare un’espressione che a me piace di più, la magia della poesia. Per ottenere questo risultato bisogna, oltre a saper riprodurre la realtà, essere anche capaci di trasfigurarla. Questa è una regola a cui nessuna disciplina artistica può sottrarsi. Un quadro è riuscito quando sa suscitare una reazione emotiva in colui che lo osserva: un’impressione di serenità, di tenerezza, di tristezza, di pietà, oppure un fremito di sdegno, di avversione, di sarcasmo; questo è il risultato d’eccellenza a cui ogni pittore che si rispetti deve guardare.
Per cercar di capire le ragioni che hanno prodotto lo stato drammatico in cui versa oggi la pittura, comincerò coll’indicarne le origini negli sperimentalismi a oltranza nati da quella malintesa necessità di andare oltre il già visto e il già provato che, da un certo momento in poi, ha informato e travolto tutte le discipline artistiche, ma in modo particolare quelle figurative. Ciò ha introdotto nell’arte, fatalmente, il concetto di effimero, un concetto che non a caso ha trionfato definitivamente in quella stagione distruttiva che è stata il Sessantotto, e che ha svilito la stessa ragione del fare arte. Ora, se c’è qualcosa di non effimero, qualcosa che sfida i secoli e continua a parlare ai nostri cuori nonostante il trascorrere del tempo e il mutare delle generazioni e dei costumi, è proprio l’arte. La contraddizione vistosa e inaccettabile sta, se ci pensiamo, nel fatto che la statuaria greca o le opere di Michelangelo, e i tanti capolavori prodotti fino alla frattura con la tradizione avvenuta nel Novecento, nessuno si sognerebbe di definirli effimeri, mentre l’arte moderna è effimera quasi per definizione. Quindi dobbiamo cominciare col considerare conclusa la stagione degli sperimentalismi a oltranza per cui una cosa diventa già vecchia e sorpassata nel momento stesso in cui nasce: l’arte, quella vera, quella che parla al cuore e ai sensi e talvolta anche alla mente degli esseri umani, non è mai vecchia, non è mai effimera.
Un altro concetto importante, che viene subito dopo e di cui si deve riaffermare con forza la necessità, è quello che io chiamo il ritorno al mestiere. Si sarà notato che preferisco definire l’arte, in qualsiasi forma essa si manifesti, disciplina artistica. Questo per sottolineare la necessità che la pratica dell’arte deve rispondere innanzitutto a una disciplina, ossia all’esigenza di acquisire un mestiere con un tirocinio (anche duro e difficile) attraverso il quale ciascuno troverà il proprio linguaggio personale. In altre parole, chi vuol fare arte deve diventare in primo luogo un artigiano capace, dopodichè, se avrà talento, potrà essere un artista, grande o piccolo si vedrà. E questo per riaffermare una volta per tutte un concetto che si trascura da tempo in nome del falso mito della creatività istintiva, anche questo affermatosi come prodotto del Sessantotto. Quel che voglio dire, in sostanza, è che il talento, per esprimersi, deve necessariamente affidarsi al mestiere, alla tecnica: è da lì che deve partire, ed è solo da lì che può affermarsi. E qui, sembra superfluo ricordarlo, entra in gioco il ruolo che dovrebbe svolgere la scuola, cioè i licei artistici e le accademie di Belle Arti, quella scuola da cui una volta si traevano insegnamenti validi e duraturi e che poi, come tutta la scuola, ha in gran parte trascurati e perduti, perché, anche qui a causa del vento distruttivo del Sessantotto, si è affermato il concetto fallace e fuorviante che tutto può essere arte, anche lo scarabocchio infantile, anche la latta schiacciata raccolta per strada, e perfino la fotocopia riprodotta in diversi colori (non è quello che ha fatto, se ci riflettiamo un momento, un artefice ancor oggi molto quotato come Andy Warol?) Forse converrebbe ritornare alla bottega dei maestri pittori, dove si entrava come apprendisti per acquisire i rudimenti del mestiere e se non si superava il periodo di tirocinio ci si rivolgeva a un altro lavoro. Ma questo, allo stato attuale delle cose, è solo un sogno, anche se, con la volontà, tutto si potrebbe riprendere.
In conclusione, quel che voglio dire è che bisogna finirla una volta per tutte con la presunta idea di avanguardia che va sempre oltre se stessa per produrre solo dei prodotti labili e quindi facilmente rinnovabili, per l’appunto effimeri come qualsiasi altro prodotto di consumo, che si usa e si getta. Questo prima o poi dovrà emergere, e tanto peggio per quei collezionisti sprovveduti che nei decenni scorsi hanno continuato ad acquistare questi prodotti, talvolta per cifre anche cospicue.
E’ questa avanguardia, insomma, che ha finito per distruggere quel bagaglio ingente di esempi, di contenuti e di tecniche che ci avevano lasciato i nostri predecessori: un bagaglio inestimabile di conoscenze e di scoperte sull’anatomia, sul colore, sulla chimica, sulla prospettiva. A proposito della prospettiva, e tanto per limitarmi a un solo esempio: sono stati impiegati secoli, nel passato, per scoprirla e per riprodurla. Poi sono arrivati Picasso e Matisse che, da un giorno all’altro, hanno deciso di abolirla nella loro pittura. Ma Picasso e Matisse hanno potuto permettersi di liquidare questo come altri insegnamenti del passato perché quegli insegnamenti li avevano acquisiti. Mentre oggi, senza questo tipo di conoscenze, si è totalmente sprovveduti perché privi di strumenti. La prospettiva, per capirci, chi dipinge non può permettersi di non sapere cos’è, sia pure per poterla negare, come faceva De Chirico, ad esempio, il quale per creare certe atmosfere oniriche o metafisiche, come lui le definiva, distorceva la prospettiva fino a renderla improbabile, e questo per produrre un effetto di instabilità e di spaesamento, ossia un risultato che solo la conoscenza di come restituire la prospettiva, e quindi di distorcerla, gli consentiva di ottenere (ecco quindi l’importanza della tecnica, di cui parlavo prima e da cui non si può prescindere).
Da ultimo voglio riaffermare ancora una volta che bisogna restituire all’arte il suo significato primario: quello di comunicazione di una persona con altre persone, perché, se l’arte non assolve più a questo compito, vuol dire che ha finito per perdere di vista il suo stesso scopo, la sua stessa ragione di essere.