I figli di san Domenico, l’uomo di Dio che «prese l’ufficio del Verbo».
Al tempo di san Domenico (ϯ1221) la cristianità era minacciata ai confini da nuove popolazioni, all’interno i cambiamenti sociali avevano portato una situazione di profondo decadimento alla quale la Chiesa, soprattutto per opera di Innocenzo III, cercava di applicare i canoni che i concili avevano elaborato per far fronte alla situazione, ma c’era un nemico interno che con l’apparenza di una fedeltà assoluta al Vangelo, di fatto conducevano gli uomini lontano da Dio (Nihil sub sole novum!).
Si tramanda che san Domenico fosse sempre ‘teso’ nel desiderio di annunciare il Vangelo consapevole che la predicazione dei soli vescovi non risultava ormai più sufficiente alla difesa della Verità; cosa penserebbe oggi quando la Verità è attaccata proprio da chi avrebbe il dovere di difenderla e annunciarla?
Comprendendo la drammaticità della situazione in cui versava la Chiesa volle subito agire, ma ebbe qualche difficoltà da parte di Innocenzo III (ma, magari li avessimo ancora dei papi così!), però aveva continuato nella sua missione in attesa di tempi migliori, e come scrive il suo biografo, il b. Giordano di Sassonia (ϯ 1237), appena Innocenzo “fu tolto di mezzo”, Domenico ritornò a Roma confidando nel nuovo Pontefice.
Il grano ammassato marcisce, disseminato fruttifica sono parole attribuite a san Domenico in una bolla di incoraggiamento che papa Onorio III aveva inviato a professori e studenti di Parigi perché scendessero in pista a dar man forte alla predicazione di san Domenico (sì, sono esistiti papi interessati alla causa di Dio!) che aveva compreso l’importanza della predicazione, allora riservata ai vescovi, trascorrendo una notte intera in una discussione (non in un dialogo!) con un albergatore di Tolosa infettato dall’eresia per cercare di riportarlo alla retta fede.
Per far fronte a tutto questo Domenico immaginò una comunità apostolica che coniugasse esperienza conventuale (gli elementi tradizionali della vita monastica e canonicale) con la predicazione fino allora riservata ai vescovi, ma con una nota qualificante: la predicazione, intesa, e questa fu una grande novità, come contemplazione ad alta voce (contemplata aliis tradere).
Ogni elemento della vita doveva possedere una grande agilità e con un deciso orientamento alla predicazione, a questo fine s’introdusse la legge della dispensa specialmente in quelle cose che risultino di impedimento allo studio, alla predicazione o al bene delle anime. Il capitolo quotidiano poteva essere proposto o omesso perché lo studio non venisse ostacolato. L’Ufficio divino doveva essere recitato “brevemente e in modo succinto perché i Frati non perdano la devozione e il loro studio non sia in qualche modo impedito”.
I Frati Predicatori erano convinti che lo studio e la scienza sono adesione a Dio e condivisione con gli altri, nella ricerca della Verità: il nostro studio deve tendere principalmente, ardentemente e col più grande sforzo allo scopo di renderci utili per la salvezza delle anime.
Lo studio, questo aspetto che tanto ha qualificato i Domenicani (pensiamo ai contatti di santa Teresa d’Avila che preferiva un confessore savio a uno solo santo) doveva essere ordinato alla predicazione come una parte essenziale, ma non esclusiva. Nella sua Expositio supra Constitutiones, Umberto di Romans (ϯ 1377) delinea molto chiaramente il ruolo dello studio: “Lo studio non è il fine dell’Ordine, ma è della più grande necessità per quel fine che è la predicazione e l’apostolato per la salvezza delle anime, poiché senza studio non possiamo fare né l’uno né l’altro”, ma non facendone un valore assoluto: “ Vi sono alcuni che si dedicano alle sacre lettere, ma se lo studio non è diretto alla dottrina della predicazione; di quale utilità potrà mai essere?”.
Le immagini, discutibili, che hanno dipinto i domenicani come gli austeri e rigidi difensori della dottrina, ignorano che a fondamento di un impegno che ha apportato alla Chiesa una componente di solidità che, ancora oggi nonostante tutti i tentativi contrari, rappresenta una tenuta intellettuale in grado di fronteggiare le confusioni che regnano, ci fu un uomo, san Domenico, tanto geniale, quanto schivo, lontano dal cercare una gloria per sé, ma tutto proteso ad essere praedicationis humilis minister.
La sua originalità consiste nell’aver attuato con forza, come nessuno prima di lui (e forse anche dopo…) la vita degli Apostoli (così si espresse Gregorio IX che lo aveva molto frequentato) e che portava sempre con sé il vangelo di san Matteo e le lettere di san Paolo che ‘ruminava’ continuamente.
I biografi tramandano che Domenico abitualmente si rivolgeva agli altri con volto calmo e molta dolcezza, con parole piene di bontà che inducevano tutti ad ammettere il proprio operato e a farne penitenza; amava con un tratto colmo di premure per ciascuno dei suoi frati ovunque questi fossero.
Giordano di Sassonia racconta che durante il giorno san Domenico era estremamente socievole, allegro e capace di entrare facilmente in relazione con chiunque e di qualunque condizione sociale fosse; non aveva nessun segno di doppiezza o di finzione, sempre attento a trasmettere Dio. Di notte, però, vegliava perché la notte era di Dio. Stava a lungo in chiesa e quando si sentiva sfinito, solo allora, appoggiava la testa sull’altare o da qualche altra parte, ma in ogni caso una pietra.
San Domenico ci ha lasciato nove modi di pregare con il corpo a testimonianza che, ancora al suo tempo, l’abitudine di pregare a partire dal corpo era cosa assai naturale e ancora diffusa.
I Domenicani sono stati considerati a giusto titolo un ordine d’intellettuali, l’amore alla ricerca della verità (caritas Veritatis) li ha spinti ad approfondire con rigore tutte quelle discipline che potevano favorire questo scopo con la tensione non tanto di darsi alla scienza per la scienza, ma alla scienza per l’annuncio del Vangelo.
Spesso si considera san Tommaso d’Aquino, certo la personalità più gloriosa e, come emblema dell’Ordine; è un errore: san Martino de Porres e Juan Macias, frati conversi, pur illetterati hanno espresso magnificamente lo spirito che san Domenico ha lasciato in eredità.
Proprio da san Tomaso d’Aquino, in una lettera a lui attribuita, possiamo trovare quella fisionomia del frate predicatore: “Carissimo in Cristo, Giovanni, giacché mi hai chiesto in che modo tu debba applicarti allo studio per acquistare il tesoro della scienza, ecco in proposito il mio consiglio. Non voler entrare subito in mare ma arrivaci attraverso i ruscelli, perché è dalle cose più facili che bisogna pervenire alle più difficili. Questo dunque è l’avviso mio che ti servirà di regola.
Voglio che tu sia tardo a parlare e restio a scendere in parlatorio. Abbi purità di coscienza. Non tralasciare di attendere alla preghiera. Sii amante della tua cella. Mostrati amabile con tutti. Non essere per nulla curioso dei fatti altrui. Non essere troppo familiare con nessuno, perché la familiarità eccessiva genera disprezzo e dà occasione di trascurare lo studio. Non t’intromettere in nessun modo ne discorsi e nei fatti secolari. Non divagare su tutto. Non lasciar d’imitare gli esempi dei santi e dei buoni. Non guardare chi è colui che parla, ma tieni a mente tutto ciò che di buono egli dice.
Procura di comprendere ciò che leggi ed ascolti. Certìficati delle cose dubbie e studiati di riporre nello scrigno della memoria tutto quello che ti sarà possibile. Non cercare infine cose superiori alla tua capacità.
Seguendo queste norme, metterai fronde e produrrai utili frutti nella vigna del Signore, in tutti i giorni di tua vita. Mettendo in pratica questi insegnamenti potrai raggiungere la mèta alla quale tu aspiri. Stai bene.
La peste nera del 1300, il rinascimento, la riforma protestante furono momenti di decadenza anche profonda per l’Ordine che, comunque, grazie alle basi solide e a una struttura giuridica molto elastica (si dice che i fondatori degli Stati Unita d’America abbiano a lungo riflettuto sul sistema di governo domenicano) i frati predicatori riuscirono ad attraversare i secoli esprimendo personalità significative.
La rivoluzione francese rappresentò per l’Ordine un momento di fibrillazione molto forte, fu grazie a personalità come il p. Jean-Baptiste Henri Lacordaire (ϯ1861) che i Domenicani poterono riacquistare vita attingendo al tesoro della loro tradizione. Il padre Lacordaire ebbe il merito di indicare, non solo nella sua Francia, ma a tutto l’Ordine che il punto qualificante della vita domenicana si esprimeva nella predicazione e infatti un grande successore di san Domenico, padre Hyacinthe-Marie Cormier (ϯ1916), poco dopo, nel 1904, si sarebbe presentato ai frati con queste parole programmatiche “ricapitolare tutte le nostre cose in san Domenico” (Acta Capituli Generalis 1904) per mantenere in vigore e dilatare lo stesso spirito di orazione, penitenza, umiltà, povertà, ubbidienza, misericordia per il prossimo, zelo ardente per difendere la fede, così come era successo ai primordi dell’Ordine.
Nella prima parte del Novecento i Domenicani svolsero un’intensa opera di trasmissione della filosofia tomista, accolsero tra le loro fila menti eccelse, ma non furono in grado (ma infine chi è riuscito a ripararsi?) a difendersi dall’infiltrazione delle filosofie contemporanee e si presentarono all’appuntamento del concilio vaticano II del tutto impreparati e non in grado di fronteggiare la secolarizzazione che infettava la chiesa.
Ci furono alcune eccezioni; se si percorre l’epistolario di un grande della cultura novecentesca, Jacques Maritain, si può constatare come sia stato sollecitato, invano, a riflettere su alcuni aspetti perniciosi di quelle idee, dagli effetti devastanti, presenti in ‘Umanesimo Integrale’ e che furono ben individuate dal padre Réginald Garrigou Lagrange (ϯ 1964), ma invano!
Nel presentare l’onore delle armi a un Ordine così glorioso è bene soffermarsi su un suo aspetto particolare, quello liturgico.
Quello che era il ‘rito’ domenicano era stato mutuato, dalle prime comunità dei frati, dalla liturgia cistercense, semplice ed essenziale come le linee architettoniche che ne caratterizzavano le chiese; nulla d’inventato, ma qualcosa raccolto dalla tradizione e trasmesso secondo le necessità della nuova compagine religiosa.
Umberto di Romans, successore di san Domenico, nel 1256 aveva dato un’organizzazione stabile agli usi liturgici dell’Ordine imprimendo, di fatto, una fisionomia caratteristica alla liturgia domenicana.
Il canto gregoriano aveva una forma neumatica particolare. Il breviario, oltre al calendario proprio, aveva come caratteristica di cantare le antifone unicamente al termine dei salmi, la brevità degli uffici soprattutto in alcuni tempi liturgici, la varietà delle lezioni del notturno. Inoltre la peculiarità delle antifone al Benedictus e al Magnificat, la varietà dei testi (alcuni di bellezza straordinaria), la presenza di un’ora paraliturgica tra le ore canoniche: l’ora di preziosa (un unicum nella liturgia latina) che evidenziava con sobria solennità il momento del Martirologio (e che aveva caratteristiche singolari sia per i frati in convento, sia per quelli itineranti).
La celebrazione della Messa ometteva i riti iniziali del salmo Iudica, un Confiteor più sobrio e non ripetuto, la preparazione del calice si faceva all’inizio della Messa, appena il sacerdote arrivava all’altare, un offertorio unificato, una gestualità diversa durante il Canone, dopo l’Agnus Dei il celebrante baciava il labbro del calice e quindi l’instrumentum pacis, l’uso della venia e ad altri aspetti marginali.
Il rito liturgico non riguardava unicamente questi atti solenni, ma sosteneva ogni aspetto della vita conventuale (vestizioni, Confessione, cura dei malati e dei defunti ecc.) ed era articolato attraverso “azioni liturgiche” che innestavano il frate domenicano nella vita di Dio, però questa liturgia che era stata la liturgia di san Alberto Magno, san Tommaso d’Aquino, s Caterina da Siena, s Vincenzo Ferrer e molti altri fu sepolta in un museo chiuso a chiave.
Di tutto questo splendore, infatti, una mattina, nel capitolo generale del 1968 a River Forest (USA), fu fatto scempio.
2 commenti su “CERCO DIO SOLO, IL RACCONTO DEI GRANDI ORDINI MONASTICI (quarta puntata) – di Giuseppe Fausto Balbo”
Il quel capitolo generale del 1968 la maggioranza doveva essere già pronta a scardinare l’antico Ordine e ciò significa che il male era penetrato prima e che aveva in modo sotterraneo e silenzioso mantenuto ipocritamente una parvenza di fedeltà. Più o meno quel che stava accadendo fra i Gesuiti e i Francescani, i Salesiani etc etc . Sulla riforma liturgica, inoltre, i Domenicani furono all’avanguardia tramite loro figure di spicco ( e furono numerose) nel preparare la strada alla riforma di Bugnini e a dirigerne il seguito dalla Scuola del sant’Anselmo di Roma. All’opera di demolizione della Chiesa Cattolica hanno partecipato un po’ tutti gli Ordini tanto è vero che chi voleva opporsi alla deriva dovette pensare a nuove aggregazioni. La deriva della Chiesa Cattolica è partita dal suo interno e non dall’esterno. Di ciò dobbiamo rendercene conto senza addebitare ad altri i guasti che stiamo vedendo. La Chiesa cattolica aveva già in sé le tossine del suo avvelenamento. Dall’esterno ci fu concorso ma non fu determinante.
Molto molto bello e interessante! 🙂
La crisi degli ordini religiosi e della Chiesa più in generale (di cui il Concilio ne è soltanto la punta dell’iceberg…) è stato un pieno e deliberato consenso alla tentazione di “dialogare” col mondo (tra l’altro con il suo sulfureo e menzognero linguaggio…) e di conformarsi alla mentalità di “questo” (e quindi di “ogni”) secolo.
I predicatori non predicano più: dialogano! …purtroppo i frutti (marci) sono sotto gli occhi di tutti…!
Ma dobbiamo riporre ogni ns. fede e speranza in Colui che ci ha promesso “Non praevalebunt”!
Grazie per i bellissimi articoli! 🙂