Il quarantesimo anniversario del massacro di Via Fani, con il sequestro di Aldo Moro, leader della Dc, da parte delle Brigate Rosse, ha confermato, oggi come ieri, un oggettivo ritardo culturale nell’interpretazione delle cause della stagione del terrorismo. A leggere certe ricostruzioni si ha quasi l’impressione che gli autori del massacro della scorta e del rapimento fossero venuti da un altro pianeta e non fossero invece i figli legittimi dell’Italia dell’epoca, di ben chiare ascendenze storiche e ideologiche.
Al di là dei “misteri insoluti”, su cui ci si è soffermati nelle diverse ricostruzioni offerte in questi giorni (il numero dei partecipanti all’azione, il luogo della prigionia, i “depistaggi”, il ruolo di soggetti stranieri) esistono alcuni fattori “certi” che erano alla base del sequestro Moro e dell’esperienza terroristica del decennio settanta.
Vediamoli in sintesi:
Ascendenze e connivenze culturali. A legittimare ideologicamente l’operato dei terroristi era la visione dello Stato-nemico, prodotto dell’antagonismo di classe e strumento di sfruttamento della classe oppressa (Lenin), e il nuovo radicalismo marxista-leninista, frutto delle esperienze guerrigliere in America Latina e nel Vietnam. La “visione” era in fondo simile a quella dei Partiti Comunisti “legalitari” (l’instaurazione della “dittatura del proletariato”), diversa la strada per raggiungere il potere. A difendere questo quadro d’assieme è il sostanziale asservimento della cultura italiana alla logica egemonica di stampo gramsciano, ma fatta propria da Togliatti. Riviste, case editrici, università sono state il “brodo di coltura” di questa doppia verità: in apparenza pluralista ed aperta al dialogo, in realtà alimentata dalle aspettative rivoluzionarie di stampo marxista-leninista: “I filosofi hanno soltanto ‘interpretato’ variamente il mondo, ora si tratta di ‘trasformarlo’” (Marx). “Il terrorismo è una forma di azione militare che può essere utilmente applicata o addirittura rivelarsi essenziale in certi momenti della battaglia” (Lenin).
La continuità antifascista. L’appello mitico alla Resistenza non è solo dettato dal cosiddetto “pericolo stragista”, quanto soprattutto dall’idea di una rivoluzione antifascista incompiuta e di un suo ulteriore sviluppo sulla strada della liberazione socialista dallo sfruttamento e dall’oppressione capitalista, fino al passaggio – segnalato da Alberto Franceschini, cofondatore, con Renato Curcio, delle Brigate Rosse – delle armi usate durante la Resistenza ai “nuovi partigiani”: un passaggio reale e simbolico, che, durante gli Anni Cinquanta-Sessanta, era stato ideologicamente rappresentato – all’interno del Partito Comunista – da Pietro Secchia, vicesegretario del partito dal 1948 al 1958, e poi da Pietro Longo, segretario dal 1964 al 1972, il quale, ancora nel 1970, arriva a scrivere (su “l’Unità”) di una “nuova Resistenza”, in grado di realizzare nel nostro Paese “ … una nuova decisiva avanzata democratica, liberandolo da ogni subordinazione all’imperialismo americano, dalla arretratezza e dalla miseria”.
L’ambiguità politica. Sia la Dc che il Partito Comunista hanno giocato per anni sulla politica degli “opposti estremisti”, dei “compagni che sbagliano”, delle “sedicenti Brigate Rosse”, favorendo così la crescita del terrorismo armato, che non a caso – secondo una coerente logica “antifascista” – aveva iniziato colpendo un sindacalista della Cisnal (Bruno Labate, sequestrato il 12 febbraio 1973, a Torino e sottoposto ad un “processo proletario”) e due militanti missini (Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola, uccisi durante l assalto delle Br alla sede del Msi di Padova nel giugno 1974). C’è una complicità (morale) e una sottovalutazione (politica) dietro l’emergere delle Brigate Rosse, che chiamano in causa la principale forza di governo dell’epoca ed il maggiore partito comunista dell’occidente. Ad unirli non c’era solo la strategia del “compromesso storico” quanto l’idea di un possibile abbraccio tra cattolicesimo e marxismo, ben analizzato da Augusto Del Noce, il quale all’epoca denunciava il cosiddetto “progressismo cristiano”, autentica quinta colonna nel campo cattolico e moderato, culturalmente disarmato e quindi pronto a qualsiasi compromesso. Il “trauma” provocato dal sequestro di Moro (1978) e poi dall’assassinio (1979) dell’operaio comunista Guido Rossa da parte delle Br, obbligherà sia la Dc che il Pci a superare la fase dell’ambiguità politica per cogliere i tratti reali del fenomeno terroristico nel nostro paese. Ma fu certamente una presa d’atto tardiva, visti i grandi costi umani degli “anni di piombo”.
Su un manifesto, che all’epoca fece scalpore, diffuso dal Fronte della Gioventù, c’era scritto “Moro: chi semina vento raccoglie tempesta”. Dopo quarant’anni – al di là di ogni retorica rievocazione – anche da lì bisogna partire per cogliere il senso di quella stagione, pervasa dall’odio ideologico e dalla tempesta che ne seguì e che travolse tutta l’Italia, con la sua lunga striscia di sangue. Per fissarne le responsabilità reali. Per non dimenticare.
1 commento su “I terroristi rossi del rapimento Moro? Erano figli del sistema – di Mario Bozzi Sentieri”
In quegli anni la magistratura ricevette dai due maggiori partiti l’incarico di supplenza: applicare la legge a discrezione supplendo alle leggi che i partiti non avevano il coraggio di emanare. Contemporaneamente i comunisti iniziarono la lunga marcia dentro la Magistratura che venne inesorabilmente politicizzata. Arrivati finalmente al potere con il colpo di stato ordito da Napolitano appoggiato dalla Merkel, gli eredi del comunismo hanno dimostrato l’incapacità assoluta di governare. Quegli anni di piombo non hanno avuto solo il costo di sofferenze e sangue ma anche la perdita del primato nella tecnica. I ragazzi rossi si erano divertiti al tiro al bersaglio contro le nostre industrie, scambiandole per feroci multinazionali. Oggi i nostri ragazzi, se vogliono un lavoro decente, debbono andare all’estero, salutati dal nostro ministro del lavoro, contento di toglierseli dai piedi.