“A subitanea morte, libera nos Domine!” (Litania di Ognissanti)
di Carla D’Agostino Ungaretti
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Raccontò una volta Vittorio Messori che, al momento di pubblicare il suo libro “Scommessa sulla morte”, i responsabili della casa editrice S.E.I. di Torino rimasero disorientati: “No, non possiamo mettere la parola morte in copertina!” – “ Esplose addirittura una rivolta e mi chiesero di cambiare titolo perché, secondo loro, librai e lettori, leggendo quel vocabolo, si sarebbero toccati i genitali o avrebbero afferrato altri amuleti”. Messori non cedette , il libro uscì e se ne vendettero subito 350 mila copie. “Ho tenuto duro perché Scommessa sulla morte sostiene che espellere o rimuovere la morte è il percorso migliore per avvelenare la vita”.
Sono d’accordo con Messori. La morte si presenta come un problema scomodo ma, nel contempo, affascinante. Guai a parlarne in un salotto tra amici! Si corre il rischio di venire zittiti dai terrorizzati presenti che si affretterebbero, come disse Messori, a esibirsi in gesti apotropaici accusandoci, più o meno scherzosamente, di essere jettatori. Infatti, mentre una volta tra persone eleganti era vietato parlare di sesso, oggi è vietato parlare della morte e dei morti. Invece la morte è onnipresente nel cinema, nelle fiction, nei video – giochi legati all’aldilà e all’horror affascinando soprattutto i più giovani.
“Oggi i bambini vengono iniziati fin dalla più tenera età alla fisiologia dell’amore e della nascita, ma quando non vedono più il nonno e chiedono dove sia, in Francia si risponde loro che è partito per un paese molto lontano, e in Inghilterra che riposa in un bel giardino dove cresce il caprifoglio”[1]. Ma questo ostinato tentativo di negare la morte, tipico della cultura occidentale a partire dalla rivoluzione industriale, ha suscitato un’infinità di problemi filosofici ed esistenziali ai quali l’umanità non è ancora stata capace di trovare una soluzione.
La morte, cacciata dalla porta, è sempre riuscita a rientrare dalla finestra, facendo sempre capolino nella coscienza degli uomini, anche se essi hanno sempre cercato di non pensarci. Il primo è stato (che io ricordi) il filosofo greco Epicuro con una frase divenuta celebre: “E’ inutile parlare della morte, perché quando ci siamo noi non c’è la morte e quando c’è la morte non ci siamo noi”. In epoca moderna Heidegger ha affermato: “La morte è qualcosa di indeterminato che certamente un giorno o l’altro finirà per accadere, ma intanto non è ancora presente e quindi non ci minaccia”. La negazione riafferma sempre l’innegabile presenza di ciò che nega: è quello che afferma Heidegger quando parla di “angoscia di morte”, il disorientamento di fronte al nulla che si cerca di riempire con l’attivismo ad oltranza[2].
Secondo Freud, “ci si difende dall’angoscia suscitata dal pensiero della propria morte rimuovendola, perché l’inconscio non conosce il termine della propria esperienza di vita … In fondo nessuno crede alla propria morte perché nel suo inconscio ognuno di noi è convinto della propria immortalità”[3]. Un secolo prima di lui l’idealista Hegel aveva concepito il singolo essere come indistinguibile dalla totalità: morire significa dissolversi in essa per continuare a vivere sotto altra forma[4] ma, un secolo dopo, il più illustre rappresentante italiano dell’Idealismo, Benedetto Croce, non fu del tutto d’accordo con lui, perché vide un’opposizione irriducibile tra la singolarità dell’essere umano e il Tutto dello Spirito che si manifesta proprio di fronte alla morte: di fronte ad essa l’uomo deve stoicamente rassegnarsi, la sua identità personale scompare, mentre la sua opera rimane per sempre[5]. Invece, nelle sue ultime riflessioni Croce, che aveva assistito alle atrocità della seconda guerra mondiale, dovette riconoscere il ruolo irriducibile che il singolo ha nella storia, con i suoi desideri e le sue sofferenze che non possono essere riassorbiti dal Tutto che lo costituisce[6].
Secondo Marx, che discendeva anche lui da Hegel, l’individualità doveva scomparire a favore del genere, del collettivo che lo oltrepassa e che solo permane, eppure anche lui dovette riconoscere, come più tardi avrebbe fatto Croce, che la morte è un’esperienza individuale che contraddice la pretesa unità-indistinzione tra individuo e collettività[7]. E in effetti la contraddizione è enorme, perché se il soggetto fosse davvero una cosa sola con il genere, alla morte del singolo dovrebbe seguire la morte di tutta l’umanità, il che non avviene di certo. Però così l’uomo è ridotto a semplice oggetto e questo avrà tremende ripercussioni storiche e politiche, portando a giustificare l’uccisione di milioni di persone in nome della necessità storica e della ragion di Stato, inevitabile conseguenza della politica rivoluzionaria. E’ la conseguenza di una visione chiusa a qualunque prospettiva trascendente come quella marxista.
Anche nel sentire comune e purtroppo nella stessa prassi religiosa si nota la tendenza a rimuovere la morte. I sacerdoti dai pulpiti non ne parlano più; chi mai, oggi, recita più l’antica preghiera: “A repentina et improvisa morte libera nos Domine”? Oggi la morte “repentina e improvvisa” è considerata piuttosto una fortuna che ci evita la sofferenza e l’angoscia di pensarci, ma non un evento importante a cui ci si deve preparare con riti e gesti ben noti alla tradizione cristiana. In passato il cristiano che sentiva vicina la morte (oggi nessuno più vuole sentirla vicina) si prendeva un tempo adeguato per separarsi dai propri cari, chiedendo perdono per le colpe commesse e offrendo il suo per i torti ricevuti. Come ha scritto Remo Bodei, anche la pratica della cremazione, sempre più diffusa in occidente “può essere sentita come antidoto alla putrefazione: c’è una repulsione estetica per l’informe,per ciò che si disfa”[8] . Ma mentre in India, dove la cremazione dei defunti esiste da millenni, questa pratica ha un significato religioso, in occidente – a causa della mancanza di un’adeguata preparazione rituale – è quasi equiparata al lavoro di un inceneritore industriale, e la salma a uno scarto da smaltire. E quando le ceneri vengono poeticamente disperse sul mare o sui monti, allora quel rifiuto solido sparisce anche simbolicamente, come se i superstiti fossero ben felici di essersi finalmente liberati del defunto una volta per tutte.
Eppure (e in questo Freud aveva ragione) quanto più si reprime qualcosa, tanto più esso torna a farsi sentire in maniera inquietante avvelenando la vita. Basti pensare a quanto, in questi anni, si discute in Italia sul diritto a morire quando ci pare e piace fino a pretendere e ottenere, come se fosse un diritto assoluto, addirittura l’aiuto del medico di base e del Servizio Sanitario Nazionale. Ancora una volta siamo di fronte all’assolutizzazione filosofica e giuridica del desiderio e del soddisfacimento di qualunque istinto umano, qualunque essi siano, a scapito dell’accettazione della volontà di Dio (per chi crede) o del proprio destino naturale per gli altri. Ma finché quel desiderio non si affaccia alla mente dell’uomo, allora la morte non esiste ma, pur non esistendo, essa genera angoscia e crea un evidente ossimoro: il “non sapere” o il “non vedere” sono in realtà un “non voler sapere” o un “non voler vedere” ciò che già “si sa” o “si vede”.Questa paradossale situazione è stata descritta con sconvolgente drammaticità da Lev Tolstoj nel racconto “La morte di Ivan Il’ic”. Il protagonista, nel corso della sua ultima malattia, avverte una progressiva e inesorabile separazione dal mondo dei vivi, mentre i suoi familiari, intorno a lui, continuano a chiacchierare di banalità e di sciocchezze, comportandosi esattamente come avrebbe teorizzato Heidegger. L’unico personaggio veramente presente è la Morte. “E lui solo ne era a conoscenza, tutti quelli che lo circondavano non capivano o non volevano capire e pensavano che tutto al mondo andasse come prima. Era questa la cosa che più tormentava Ivan Il’ic”[9].
Gli spiriti più profondi e consapevoli hanno capito che la morte si vive e può trasformare i vivi, e se muore un amico o una persona cara essa spezza un legame, perché gli uomini vivono in comunione. E’ l’esperienza descritta dal giovane Agostino di Ippona quando, in quel meraviglioso libro che sono le “Confessioni”, ricorda l’improvvisa morte di un amico: “Ogni oggetto su cui posavo lo sguardo era morte. La mia città era per me un tormento, la casa paterna un’infelicità straordinaria … I miei occhi lo incontravano ovunque senza incontrarlo, odiavo il mondo intero perché non lo possedeva e non poteva più dirmi: “Ecco, verrà”, come durante le sue assenze da vivo”[10]. L’esperienza descritta da Agostino rivela una grande verità: quanto l’amico fosse diventato parte di lui fino al punto di non accorgersene più, e solo la morte di lui glielo ha fatto capire. Infatti capita spesso che apprezziamo il valore della persona amata solo quando ci viene tolta.
Dopo aver fatto questa rapida riflessione sul pensiero di alcuni pensatori antichi e moderni sul destino che ci aspetta tutti, che cosa può concludere una povera cattolica “bambina”, peccatrice senza particolari meriti spirituali, o morali, o filosofici o artistici, ben consapevole anzi dei suoi limiti, che però si sente profondamente cristiana e pienamente consapevole di essere la più bruttina e spelacchiata delle pecorelle di Cristo? Come vive essa il pensiero della morte che ormai ella non può più considerare lontanissima, o addirittura inesistente, come la riteneva a vent’anni quando si credeva padrona del mondo? L’essere ormai entrata nella terza età, l’esperienza di vita e la maturazione della fede mi hanno collocato in un’ottica diversa. Recentemente, mentre discutevo con amici sulla morte eutanasica di alcuni personaggi pubblici, qualcuno mi ha chiesto “Che cos’è per te la morte?” ed io ho risposto “E’ l’incontro con Dio, che avverrà quando Lui ha stabilito che debba avvenire”. Ho capito subito che i miei amici, senza volerlo dare a vedere, hanno provato un moto di paura. L’idea di uscire dallo spazio e dal tempo per affrontare un destino di eternità che la mente umana non è capace di immaginare può spaventare chi non riesce a proiettare le proprie aspirazioni più profonde in un orizzonte trascendente.
Disse una volta il Prof. Umberto Veronesi di aver riscontrato maggiore serenità di fronte alla morte in atei che – non credendo in un destino eterno ultraterreno e accettata l’idea della morte imminente, pensavano che sarebbero sprofondati nel Nulla – piuttosto che nei credenti. Non ho difficoltà a crederlo. Sembra razionalmente più comodo e meno spaventoso immaginare di sprofondare in un sonno che non avrà risveglio e fluire, tutto al più, in una corrente di energia cosmica che però nessuno scienziato ha mai saputo definire e calcolare. E questo sembra che pensino tutti coloro che approvano l’eutanasia. Però il terrore della morte non scompare perché avvertiamo la contraddizione tra l’aspirazione all’Assoluto (che tutti gli esseri umani provano, anche se lo negano o non se ne rendono conto) e la “ingiustizia” rappresentata dalla Morte. Allora rimuoviamo quel pensiero e crediamo di poter almeno padroneggiare noi quell’evento ineluttabile decidendo in anticipo quando, come e dove morire. Invece il cristiano sa che lo aspetta (anche se non dipende da lui) l’incontro con Dio, un Giudice giusto anche se misericordioso e questa certezza, certamente sconvolgente, non può non preoccuparlo inducendolo a tenersi pronto, perché non sa quando verrà la Grande Chiamata.
Allora io penso che aveva ben ragione Blaise Pascal quando consigliava di scommettere comunque su Dio perché, se avessimo perso, in realtà non avremmo perso nulla mentre, se avessimo vinto, avremmo guadagnato la Vita Eterna.
A subitanea et improvisa morte libera me, Domine!
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[1] Cfr. Ph. Ariès, Storia della morte in Occidente. Dal Medioevo ai giorni nostri, Milano, Rizzoli, 1978, pag. 213 ss.
[2] Cfr M. Heidegger, Essere e tempo, Milano, Longanesi 1976, pag. 309.
[3] Cfr. S. Freud, considerazioni attuali sulla guerra e la morte, in Opere, vol. 8, Torino, boringhieri, 1978, pag. 137.
[4] Cfr F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Milano, Bompiani, 2007, par. 375.
[5] Cfr. B. Croce, L’immortalità delle opere, in discorsi di varia filosofia, vol II, Bari, Laterza, 1945, pag. 295.
[6] Cfr. N. Abbagnano, L’ultimo Croce e il soggetto della storia, in Possibilità e libertà, Torino, Taylor, 1956, pag. 239.
[7] Cfr. K. Marx, Manoscritti economici – filosofici del 1844, Torino, Einaudi, 1949, pag. 125.
[8] Cfr. R. Bodei, “Rivoluzione tra i nostri cari estinti”, in La Repubblica, 20.6.2001.
[9] Cfr. Lev Tolstoj, “La morte di Ivan Il’ic”, Tutti i racconti, Milano Mondadori, 1991, pag. 365.
[10] Cfr. S. Agostino, “Le Confessioni”, Roma, città Nuova, 1982, pag. 91
4 commenti su “Che visione abbiamo della morte? – di Carla D’Agostino Ungaretti”
una pregevole nota sull’ombra che segue il nostro pellegrinaggio nel mondo
congratulazioni e cordiali saluti, piero vassallo
Cara Signora Carla, più andiamo avanti con gli anni e più il pensiero della morte si fa presente. Anch’io, come lei, considero questo evento alla luce dell’incontro con Dio, un incontro “terribile” poiché saremo davanti a Lui con tutti i nostri peccati e le nostre miserie che non è male ricordare (sebbene un confessore una volta mi disse che ai peccati perdonati non si deve pensare più) per esprimere a Nostro Signore tutto il nostro pentimento e per chiedergli la Sua Santa Grazia per non offenderlo mai più, come diciamo nell’Atto di dolore.Dalle varie letture di edificazione spirituale che mi piace fare ho imparato che nel momento della morte il demonio farà di tutto per accaparrarsi l’anima, per questo una adeguata preparazione sarà necessaria, ad esempio invocando continuamente il soccorso della Madonna, di Gesù e di San Giuseppe. Bellissime preghierine che non si insegnano più possono aiutarci: “Gesù, Giuseppe e Maria, assistetemi ora e nell’ultima agonia” e “Gesù, Giuseppe e Maria, spiri in pace con Voi l’anima mia”. Personalmente prego spesso il Signore affinché quando sarà il momento, mandi la Sua Santissima Mamma a portarmi da Lui fra le Sue braccia.
Neanche il materialismo storico sarebbe di per sé sufficiente a giustificare ciò che è avvenuto : il suicidio ope legis. Tragico. Il dubbio, come l’angoscia, la ricerca di chi ancora non si è aperto alla Grazia di Dio, è umano, comprensibile. La vita è un doloroso percorso. Ma immaginare una tale uniformità di sentire, una coesione di massa nel dare il via libera all’atto estremo, no. E’ impossibile da accettare ed è assurdo che sia avvenuto nel generale – quasi totale – assenso civile (e religioso). Esistono i mezzi scientifici e tecnici per alleviare la sofferenza e soprattutto esiste l’amore di chi è accanto al malato e per il quale è preziosa anche una sola ora di sopravvivenza. Condividere il dolore, coltivare la speranza aiuta la vita, ne custodisce il valore e infine accompagna alla morte qual è, un passaggio e non la fine di tutto.
Preghiamo S. Giuseppe che è, e non tutti lo sanno, patrono della buona morte.