I Papi dell’altro mondo: buoni e cattivi nella Commedia dantesca. Prima parte.
di Dario Pasero
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Iniziamo subito con una osservazione molto semplice: l’unico pontefice cui Dante riserva un episodio nel suo Paradiso, lasciandogli la parola, è San Pietro. È vero, nel canto dedicato a San Francesco, cioè l’XI, e poi (senza più farne i nomi) ma in modo per così dire “implicito” in quello successivo, compaiono le figure di Onorio III e di Innocenzo III, i due papi che diedero la loro approvazione (l’uno orale, l’altro scritta) alla Regola francescana, ma sono due semplici citazioni di carattere storico-biografico, senza che ai due personaggi sia riservato l’onore di comparire e, soprattutto, di parlare. Lo stesso si può dire per i Papi (6) citati da San Pietro stesso nel suo discorso.
Nel complesso del poema, comunque, sono sei i pontefici ricordati: quattro decisamente condannati (Celestino V, Niccolò III, Clemente V e Bonifacio VIII), uno citato solamente come co-protagonista dell’episodio della “donatio Costantini” (Silvestro I) ed uno (Adriano V) salvato, seppur ancora in attesa in Purgatorio.
Nel canto XXVII della terza cantica invece, e precisamente ai vv. 19-66, compare la figura del primo Pontefice, San Pietro. Egli si rivolge a Dante iniziando subito (v. 22) una invettiva nei confronti del Papa regnante in quell’anno 1300, che ricordiamo essere Bonifacio VIII. Tale invettiva segue la tradizione dantesca di esser fatta pronunciare al fondatore (ed anche figura più significativa) della istituzione con cui si vuole polemizzare attraverso la persona di un suo esponente indegno. Pertanto tocca appunto a San Pietro, primo Pontefice, il compito di attaccare il suo successore e la corruzione dell’istituzione da lui stesso iniziata.
Vedendo da vicino i termini dell’invettiva, notiamo che Dante entra non solo immediatamente in medias res, ma non esita a definire Bonifacio in modo molto diretto “Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio” (v. 22): Bonifacio è dunque un usurpatore, convinzione ribadita ai due versi successivi “il luogo mio, il luogo mio che vaca/ ne la presenza del Figliuol di Dio”, poiché Dante vuol chiarire che Bonifacio è usurpatore non davanti agli uomini (cioè per un’elezione illegittima o irregolare), ma davanti a Cristo stesso, per la sua, di Bonifacio, indegnità morale a ricoprire il ruolo di Vicario di Dio in terra. A tal punto Bonifacio è indegno della carica che ha reso Roma, luogo in cui Pietro diede la sua testimonianza con la morte in croce (“il cimitero mio”, v. 25), una sorta di fogna caratterizzata da “sangue e puzza”, cioè da violenza, vizi e corruzione (v. 26): conseguenza di questo fatto è che Lucifero (“il perverso” di v. 26), dopo essere caduto dal cielo nell’inferno, gioisce di ciò (vv. 26sg.). Il “là giù” di v. 27, comunemente inteso come “laggiù nell’inferno”, potrebbe però anche essere interpretato come “laggiù a Roma”.
Dopo una breve pausa descrittiva e riflessiva (vv. 28-36), in cui Dante ci mostra un fenomeno, il diventare rosse le anime, che denota l’indignazione dei Beati, ed in particolare di Beatrice, a partire dal v. 37 riprende il discorso di San Pietro, che procederà senza più interruzioni fino alla sua conclusione (v. 66). Le parole di San Pietro vanno ora a colpire in particolare la corruzione e la brama di ricchezze dei suoi successori (e degli ecclesiastici in genere): la Chiesa infatti, definita secondo le parole tradizionali “sposa di Cristo” (v. 40), non crebbe grazie al sangue dei martiri, e dei pontefici martiri in particolare (San Pietro cita se stesso, e i due suoi immediati successori Lino e Anacleto), per diventare poi oggetto di arricchimento indebito (“per essere ad acquisto d’oro usata”, v. 42). Il concetto è immediatamente ripreso e confermato con una antitesi che riprende la parola “acquisto”, capovolgendone però il valore (da negativo in positivo): non per “acquisto d’oro”, ma per “acquisto d’esto viver lieto” (cioè la beatitudine del Paradiso, v. 43) altri suoi successori (Sisto I, Pio I, Calisto I e Urbano I, tutti regnanti tra II e III secolo) si fecero martiri spargendo il loro sangue, dopo molte sofferenze (“dopo molto fleto”, v. 45). L’accusa seguente, riferita più genericamente a “nostri successor” (v. 47), riguarda le divisioni nel popolo cristiano operate per colpa e cagione di alcuni Pontefici. San Pietro usa un’immagine molto vivace nella sua concretezza: i cristiani non devono stare parte alla destra del Papa e parte alla sinistra (“a destra mano […] parte sedesse/ parte da l’altra”, vv. 47sg.): come non pensare qui al passo di Matteo 25, 31-33, laddove si parla del giorno del giudizio e degli eletti alla destra di Cristo ed i reietti alla Sua sinistra? L’immagine dantesca dovrebbe rimandare all’idea del favore dato ai Guelfi e della condanna riservata ai Ghibellini e questa idea è rafforzata dall’immagine seguente ai vv. 49-54, in cui San Pietro parla del simbolo papale per eccellenza, quello delle chiavi, oltre che di se stesso. All’immagine del segno è dedicata la terzina che va dal v. 49 al v. 51, in cui si dice che esse, da simbolo del potere dato da Cristo stesso a Pietro (potestas clavium) sulla Chiesa e sui cristiani, sono diventate ormai solamente un segno apposto sugli stendardi degli eserciti papali in occasione delle guerre, in particolare quelle “contra battezzati” (v. 51; cfr. anche Inf. XXVII, v. 88); mentre nella terzina seguente (vv. 52-54) è presentata la figura stessa del primo Papa, anch’essa divenuta simbolo e “figura di sigillo” per autenticare bolle e diplomi falsi (“mendaci”, v. 53), perché assegnati non per merito ma per amicizia, e venduti a scopo di lucro. La sezione termina con un’immagine molto efficace: pensando a ciò che i Papi fanno ora in terra con la sua effigie, Pietro stesso arrossisce di vergogna (v. 54).
L’invettiva, come altre volte in Dante, si conclude con una profezia (vv. 55-66). Dopo aver infatti ancora dichiarato che molti ecclesiastici (e non solo i Papi, ma l’esempio che viene dall’alto travia anche i sottoposti…) da “pastori” che erano sono divenuti dei “lupi rapaci”, cioè “ladri” (dal verbo latino rapio, e ancora una volta abbiamo un rimando a Matteo 7, 15), che si muovono in tutte le comunità cristiane (“per tutti i paschi”, v. 56), si invoca da parte di San Pietro (ma è il Dante-poeta che parla per bocca sua) l’intervento risolutivo di Dio: “o difesa di Dio, perché pur giaci?” (v. 57). Non solo ma anche i francesi (Caorsini e Guaschi del v. 58, in cui abbiamo un accenno ai futuri papi di origine francese, Giovanni XXII, che regnò dal 1316 al 1334, e Clemente V, dal 1305 al 1314) si preparano a rovinare la Chiesa, bevendone il sangue, cioè divorandone i beni (v. 59), a tal punto che si vedrà bene come il santo inizio della Chiesa, e del Papato, si ridurrà certamente ad una fine disonorevole (vv. 59sg.). A questo punto, però, ecco che interverrà la Provvidenza divina, già raffigurata – nella storia – da Scipione Africano (v. 61): come Scipione, per volere della provvidenza, salvò Roma, così ora la stessa Provvidenza manderà qualcuno a salvare la Chiesa e il mondo. Sul filo del discorso già affrontato nel canto VI della stessa Cantica, l’impero romano fu voluto da Dio, nella visione provvidenzialistica della Storia, per preparare la salvezza del mondo ad opera di NSGC. Quindi, è lecito pensare, ancora un imperatore (Arrigo VII?) sarà destinato da Dio a salvare nuovamente la Chiesa e il mondo cristiano.
La profezia (e l’invettiva) si chiude con l’invito da parte di San Pietro a Dante a non tacere nulla di ciò che ha visto e udito, ma a dire tutto quanto (“apri la bocca,/ e non asconder quel ch’io non ascondo”, vv. 65sg.), confermando – in certo qual modo – la sua missione sulla terra, come già gli era stato predetto dal trisavolo Cacciaguida nel canto XVII.
Scendendo dal Paradiso al Purgatorio (e compiendo quindi il viaggio inverso rispetto a Dante) abbiamo una sola figura di Pontefice che ci venga presentata come concretamente presente tra le anime che, nella penitenza, si preparano a salire in Paradiso: Adriano V (Ottobono Fieschi dei conti di Lavagna, 1205ca-1276, che regnò per neppure 40 giorni). Egli ci viene da Dante presentato nel canto XIX, nella cornice in cui gli avari (e i prodighi) fanno penitenza stando sdraiati proni a terra (così da non poter guardare il cielo), con mani e piedi legati dietro la schiena, pronunciando esempi di liberalità e generosità premiate e di avarizia e prodigalità punite.
Alle due domande di Dante (chi egli fosse e perché le anime tengano il viso rivolto verso terra) l’anima del Pontefice dichiara che alla seconda domanda il poeta otterrà risposta più tardi, mentre per quanto riguarda la prima gli dice, in prima istanza, di essere stato Papa, usando una formula latina di grande altezza stilistica ma generica (scias quod ego fui successor Petri, “sappi che io fui successore di Pietro, v. 99), aggiungendo, per definire anche il proprio nome, una descrizione geografica – cosa abbastanza comune nella poesia di Dante – della sua terra, cioè la Liguria di Levante, tra Sestri e Chiavari, laddove scende (“s’adima”, v. 100) una “fiumana bella” (cioè il fiume Lavagna), che dà il nome al feudo della famiglia di papa Adriano V, al secolo Ottobono Fieschi dei conti di Lavagna. Le quattro terzine successive (vv. 103-114) sono occupate da una breve sintesi degli ultimi giorni di vita del Pontefice: elevato al soglio di Pietro a poco più di un mese dalla morte, si rese subito conto di quanto “pesi” il gran manto pontificale (fuor di metafora: quante responsabilità comporti una simile carica) per chi – come lui – voleva portarlo con dignità, tenendolo lontano dalla vergogna e dal disonore (“… prova’ io come/ pesa il gran manto a chi dal fango il guarda,/ che piuma sembran tutte l’altre some”; vv. 103sgg.). Egli si pentì tardi del suo peccato di avarizia, quando cioè si accorse che – giunto ormai al massimo grado degli onori umani – continuava a desiderare di più pur avendo già tutto: in questo modo capì che i desideri e i beni terreni non hanno valore ed è quindi meglio per l’uomo volgersi a quelli celesti. Penitenza tardiva, dunque, che gli permise tuttavia di evitare l’inferno, ma non il purgatorio (“or, come vedi, qui ne son punita”, v. 114).
Dopo aver parlato quindi della condizione delle anime degli avari e prodighi, e rispondendo così anche alla seconda domanda del poeta, Adriano V, dopo aver anche rimproverato Dante, che si era inginocchiato davanti a lui per rispetto alla sua carica terrena, ricordandogli come dopo la morte tutte le anime siano uguali, citando a questo proposito, il passo di Matteo 22, 30, dove si parla delle nozze e della resurrezione, lo congeda (e piuttosto bruscamente), ma citandogli ancora – come spesso fanno le anime del Purgatorio – il nome di una sua nipote ancora viva, Alagia, “buona da sé” (v. 143), ma che potrebbe essere corrotta da altri membri della famiglia.
Altri papi che Dante ci presenta nella sua opera sono all’Inferno, o quanto meno ad esso destinati. Nel numero dei primi troviamo Celestino V (c. III) e Niccolò III (c. XIX), cui possiamo aggiungere Clemente V e Bonifacio VIII, che dopo la loro morte (non ancora avvenuta nel 1300, anno in cui Dante immagina il suo viaggio oltremondano) saranno destinati entrambi all’Inferno (c. XIX). Di Bonifacio poi si parlerà anche nel canto XX del Purgatorio. Abbiamo inoltre papa Silvestro I, che non è tra i dannati presenti nel contesto infernale, ma di cui si accenna – sempre al canto XIX dell’Inferno – in un momento di polemica storico-politica.
Insieme a Dante proseguiamo ora il viaggio nell’Inferno, ricordando – per inciso – che a mano a mano che si scende verso il centro della terra le colpe delle anime infernali sono sempre più gravi.
Celestino V, al secolo Pietro Angelerio da Morrone, nato nel 1215 e morto nel 1296, fu papa dal 29 agosto al 13 dicembre 1294 (neppure 4 mesi), terminando il suo pontificato non con la morte ma con la rinuncia ad esso ed il ritorno alla vita eremitica. La sua anima è collocata da Dante nel cosiddetto “antinferno” (c. III), tra le anime degli “ignavi”, cioè coloro che in vita non vollero mai prendere una decisione chiara e netta, soprattutto in campo politico-civile. La loro pena, secondo la consueta legge dantesca del “contrappasso”, è quella di correre eternamente dietro ad un’insegna oscura e poco discernibile, punti e tormentati da vespe e tafani, mentre il loro sangue, mescolato alle loro lacrime, diventa pasto per dei vermi ripugnanti che si trovano ai loro piedi. Aggiungiamo che il Poeta ci dichiara la sua decisione di non voler fare il nome di nessuno di questi peccatori, a suo avviso colpevoli di un peccato talmente laido e squallido (infatti persino Dio, pur condannandoli per l’eternità, non permette loro di entrare nel vero e proprio Inferno) che non meritano neppure che i loro nomi vengano da lui ricordati. Pertanto egli ci dice di aver riconosciuto sì alcuni peccatori, e in particolare colui (v. 60) “che fece per viltade il gran rifiuto”, ma di non voler fare memoria dei loro nomi, seguendo le indicazioni dategli da Virgilio (vv. 49-51: “Fama di loro il mondo esser non lassa;/ misericordia e giustizia li sdegna:/ non ragioniam di lor, ma guarda e passa”). Una volta stabilito che l’anima da Dante riconosciuta sia quella di Celestino, anche se in passato qualche commentatore aveva avanzato l’ipotesi che fosse invece l’anima di Ponzio Pilato, non ci resta da aggiungere che la condanna del Poeta è motivata probabilmente dal fatto che il “rifiuto” della carica di Papa da parte di Celestino, in realtà la presa di consapevolezza della sua incapacità di reggere la Chiesa, fu la causa “scatenante” dell’elezione al soglio di Pietro di colui che sarebbe diventato poi nemico giurato di Dante, cioè papa Bonifacio VIII.
Papa Celestino fu poi canonizzato nel 1313 da Clemente V.
PARADISO XXVII, vv. 19-66
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quand’io udi’: «Se io mi trascoloro,
non ti maravigliar, ché, dicend’io,
vedrai trascolorar tutti costoro.
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Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo mio, che vaca
ne la presenza del Figliuol di Dio,
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fatt’ha del cimitero mio cloaca
del sangue e de la puzza; onde ’l perverso
che cadde di qua sù, là giù si placa».
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Di quel color che per lo sole avverso
nube dipigne da sera e da mane,
vid’io allora tutto ’l ciel cosperso.
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E come donna onesta che permane
di sé sicura, e per l’altrui fallanza,
pur ascoltando, timida si fane,
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così Beatrice trasmutò sembianza;
e tale eclissi credo che ’n ciel fue,
quando patì la supprema possanza.
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Poi procedetter le parole sue
con voce tanto da sé trasmutata,
che la sembianza non si mutò piùe:
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«Non fu la sposa di Cristo allevata
del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto,
per essere ad acquisto d’oro usata;
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ma per acquisto d’esto viver lieto
e Sisto e Pio e Calisto e Urbano
sparser lo sangue dopo molto fleto.
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Non fu nostra intenzion ch’a destra mano
d’i nostri successor parte sedesse,
parte da l’altra del popol cristiano;
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né che le chiavi che mi fuor concesse,
divenisser signaculo in vessillo
che contra battezzati combattesse;
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né ch’io fossi figura di sigillo
a privilegi venduti e mendaci,
ond’io sovente arrosso e disfavillo.
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In vesta di pastor lupi rapaci
si veggion di qua sù per tutti i paschi:
o difesa di Dio, perché pur giaci?
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Del sangue nostro Caorsini e Guaschi
s’apparecchian di bere: o buon principio,
a che vil fine convien che tu caschi!
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Ma l’alta provedenza, che con Scipio
difese a Roma la gloria del mondo,
soccorrà tosto, sì com’io concipio;
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e tu, figliuol, che per lo mortal pondo
ancor giù tornerai, apri la bocca,
e non asconder quel ch’io non ascondo».
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PURGATORIO XIX, vv. 88-145
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Poi ch’io potei di me fare a mio senno,
trassimi sovra quella creatura
le cui parole pria notar mi fenno,
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dicendo: «Spirto in cui pianger matura
quel sanza ’l quale a Dio tornar non pòssi,
sosta un poco per me tua maggior cura.
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Chi fosti e perché vòlti avete i dossi
al sù, mi dì, e se vuo’ ch’io t’impetri
cosa di là ond’io vivendo mossi».
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Ed elli a me: «Perché i nostri diretri
rivolga il cielo a sé, saprai; ma prima
scias quod ego fui successor Petri.
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Intra Sïestri e Chiaveri s’adima
una fiumana bella, e del suo nome
lo titol del mio sangue fa sua cima.
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Un mese è poco più prova’ io come
pesa il gran manto a chi dal fango il guarda,
che piuma sembran tutte l’altre some.
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La mia conversïone, omè!, fu tarda;
ma, come fatto fui roman pastore,
così scopersi la vita bugiarda.
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Vidi che lì non s’acquetava il core,
né più salir potiesi in quella vita;
per che di questa in me s’accese amore.
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Fino a quel punto misera e partita
da Dio anima fui, del tutto avara;
or, come vedi, qui ne son punita.
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Quel ch’avarizia fa, qui si dichiara
in purgazion de l’anime converse;
e nulla pena il monte ha più amara.
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Sì come l’occhio nostro non s’aderse
in alto, fisso a le cose terrene,
così giustizia qui a terra il merse.
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Come avarizia spense a ciascun bene
lo nostro amore, onde operar perdési,
così giustizia qui stretti ne tene,
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ne’ piedi e ne le man legati e presi;
e quanto fia piacer del giusto Sire,
tanto staremo immobili e distesi».
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Io m’era inginocchiato e volea dire;
ma com’io cominciai ed el s’accorse,
solo ascoltando, del mio reverire,
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«Qual cagion», disse, «in giù così ti torse?».
E io a lui: «Per vostra dignitate
mia coscïenza dritto mi rimorse».
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«Drizza le gambe, lèvati sù, frate!»,
rispuose; «non errar: conservo sono
teco e con li altri ad una podestate.
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Se mai quel santo evangelico suono
che dice ‘Neque nubent’ intendesti,
ben puoi veder perch’io così ragiono.
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Vattene omai: non vo’ che più t’arresti;
ché la tua stanza mio pianger disagia,
col qual maturo ciò che tu dicesti.
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Nepote ho io di là c’ha nome Alagia,
buona da sé, pur che la nostra casa
non faccia lei per essempro malvagia;
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e questa sola di là m’è rimasa».
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INFERNO III, vv. 31-69
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E io ch’avea d’error la testa cinta,
dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’è che par nel duol sì vinta?».
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Ed elli a me: «Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ’nfamia e sanza lodo.
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Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
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Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli».
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E io: «Maestro, che è tanto greve
a lor, che lamentar li fa sì forte?».
Rispuose: «Dicerolti molto breve.
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Questi non hanno speranza di morte
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ’nvidiosi son d’ogne altra sorte.
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Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa».
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E io, che riguardai, vidi una ’nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d’ogne posa mi parea indegna;
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e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch’i’ non averei creduto
che morte tanta n’avesse disfatta.
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Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto.
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Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta d’i cattivi,
a Dio spiacenti e a’ nemici sui.
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Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch’eran ivi.
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Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto.
1 commento su “Nostra maggior Musa (Riflessioni “minime” sulla Commedia dantesca) / XII – di Dario Pasero”
Che sia proprio Papa Anastasio II (Inf. XI, 8/9) o non lo sia al momento no mi interessa, ma io credo, caro Pasero, che, nello stesso cerchio degli eretici, figurerebbe bene Bergoglio “lo qual trasse Luter de la via dritta”. Non ti pare?