DISCORSO DI SUA SANTITÀ PIO PP. XII
AI GIURISTI CATTOLICI ITALIANI
Domenica, 6 dicembre 1953
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Ci riesce di grande soddisfazione, diletti figli della Unione dei Giuristi Cattolici Italiani, di vedervi qui adunati intorno a Noi e di darvi cordialmente il benvenuto.
Al principio di ottobre, un altro Congresso di giuristi si riuniva nella Nostra residenza estiva, quello del Diritto penale internazionale. Il vostro « Convegno » ha bensì un carattere nazionale; ma l’argomento, che esso tratta: « nazione e comunità internazionale », tocca di nuovo le relazioni fra i popoli e gli Stati sovrani. Non per caso si moltiplicano i Congressi per lo studio delle questioni internazionali, scientifiche, economiche e anche politiche. Il fatto manifesto che i rapporti fra gl’individui appartenenti a diversi popoli e tra i popoli stessi crescono in estensione e in profondità, rendono ogni giorno più urgente un regolamento delle relazioni internazionali, private e pubbliche, tanto più che questo mutuo avvicinamento è determinato non soltanto dalle possibilità tecniche incomparabilmente aumentate e dalla libera scelta, ma altresì dalla più penetrante azione di una legge immanente di sviluppo. Si deve dunque non reprimerlo, ma piuttosto favorirlo e promuoverlo.
I
In questa opera di ampliamento le Comunità degli Stati e dei popoli, sia che già esistano, sia che non rappresentino ancora se non uno scopo da conseguire e da attuare, hanno naturalmente una particolare importanza. Sono comunità, nelle quali Stati sovrani, vale a dire non subordinati a nessun altro Stato, si uniscono in una comunità giuridica per il conseguimento di determinati scopi giuridici. Sarebbe dare una falsa idea di queste comunità giuridiche, se si volesse paragonarle ad imperi mondiali del passato o del nostro tempo, in cui stirpi, popoli e Stati vengono fusi, volenti o nolenti, in un unico complesso statale. Nel caso presente invece gli Stati, rimanendo sovrani, si uniscono liberamente in una comunità giuridica. Sotto questo aspetto la storia universale, che mostra una serie continua di lotte per il potere, potrebbe senza dubbio far apparire quasi come una utopia la instaurazione di una comunità giuridica di Stati liberi. Tali conflitti sono stati troppa spesso provocati dalla volontà di soggiogare altre Nazioni e di estendere il campo della propria potenza, ovvero dalla necessità di difendere la propria libertà e la propria esistenza indipendente. Questa volta, al contrario, precisamente la volontà di prevenire minacciosi dissidi spinge verso una comunità giuridica supernazionale; le considerazioni utilitarie, che certamente hanno anch’esse un notevole peso, sono dirette verso opere di pace; e infine, forse appunto l’avvicinamento tecnico ha risvegliato la fede, latente nello spirito e nel cuore degli individui, in una comunità superiore degli uomini, voluta dal Creatore e radicata nella unità della loro origine, della loro natura e del loro fine.
II
Queste considerazioni ed altre simili dimostrano che il cammino verso la Comunità dei popoli e la sua costituzione non ha come norma unica ed ultima la volontà degli Stati, ma piuttosto la natura, ossia il Creatore. Il diritto all’esistenza, il diritto al rispetto e al buon nome, il diritto a un carattere e a una cultura propri, il diritto allo sviluppo, il diritto all’osservanza dei trattati internazionali, e diritti equivalenti, sono esigenze del diritto delle genti dettato dalla natura. Il diritto positivo dei popoli, indispensabile anche esso nella Comunità degli Stati, ha l’ufficio di definire più esattamente le esigenze della natura e di adattarle alle circostanze concrete, e inoltre di prendere con una convenzione che, liberamente contratta, è divenuta obbligatoria, altre disposizioni, dirette sempre al fine della comunità.
In questa Comunità dei popoli ogni Stato è dunque inserito nell’ordinamento del diritto internazionale, e con ciò nell’ordine del diritto naturale, che sostiene e corona il tutto. In tal guisa esso non è più — né è stato, del resto, mai — « sovrano » nel senso di una totale assenza di limiti. « Sovranità » nel vero senso della parola significa autarchia ed esclusiva competenza in rapporto alle cose e allo spazio, secondo la sostanza e la forma dell’attività, sebbene entro l’ambito del diritto internazionale, — non però nella dipendenza verso l’ordinamento giuridico proprio di qualsiasi altro Stato. Ogni Stato è immediatamente soggetto al diritto internazionale. Gli Stati, ai quali mancasse questa pienezza di competenza, o a cui il diritto internazionale non garantisse la indipendenza da qualsiasi potere di un altro Stato, non sarebbero essi stessi sovrani. Nessuno Stato però potrebbe muover lagnanze come di una limitazione della sua sovranità, se gli si negasse la facoltà di agire arbitrariamente e senza riguardo verso altri Stati. La sovranità non è la divinizzazione o la onnipotenza dello Stato, quasi nel senso di Hegel o a modo di un positivismo giuridico assoluto.
III
A voi, cultori del diritto, non abbiamo bisogno di spiegare come la costituzione, il mantenimento e l’azione di una vera Comunità di Stati, specialmente di una che abbracci tutti i popoli, sollevino una serie di doveri e di problemi, alcuni assai difficili e complicati, che non si possono risolvere con un semplice Sì o No. Tali sono la questione delle razze e del sangue con le loro conseguenze biologiche, psichiche e sociali; la questione delle lingue; la questione delle famiglie col carattere diverso, secondo le nazioni, delle relazioni fra sposi, genitori e parentele; la questione della eguaglianza o della equivalenza dei diritti in ciò che concerne i beni, i contratti e le persone, per i cittadini di uno Stato sovrano che si trovano sul territorio di un altro, in cui soggiornano temporaneamente, ovvero si stabiliscono conservando la propria nazionalità; la questione del diritto d’immigrazione o di emigrazione, ed altre simili.
Il giurista, l’uomo politico, lo Stato particolare, come la Comunità degli Stati, debbono qui tener conto di tutte le tendenze innate dei singoli individui e delle comunità nei loro contatti e rapporti reciproci, quali sono la tendenza all’adattamento e all’assimilazione spesso spinta fino allo sforzo dell’assorbimento; o al contrario, la tendenza alla esclusione e alla distruzione di tutto ciò che apparisce non assimilabile; la tendenza all’espansione, e di nuovo, come suo contrario, la tendenza a chiudersi e segregarsi; la tendenza a donarsi intieramente rinunziando a sé, e, all’opposto, l’attaccamento a sé con esclusione di qualsiasi dedizione ad altri; la brama di potere, l’avidità di tenere altri in tutela, ecc. Tutti questi dinamismi di avanzamento o di difesa sono radicati nella disposizione naturale degli individui, dei popoli, delle razze e delle comunità, nelle loro ristrettezze e limitazioni, in cui mai non si trova insieme tutto ciò che è buono e giusto. Iddio solo, origine di ogni essere, a causa della sua infinità, raccoglie in sé tutto ciò che è buono. Da quanto abbiamo esposto è facile di trarre il principio fondamentale teorico per il trattamento di quelle difficoltà e tendenze : nei limiti del possibile e del lecito, promuovere ciò che facilita e rende più efficace l’unione; arginare ciò che la turba; talvolta sopportare ciò che non è dato di appianare, e per il quale, d’altra parte, non si potrebbe lasciar naufragare la comunità dei popoli, a causa del bene superiore che da essa si attende. La difficoltà risiede nell’applicazione di quel principio.
IV
A questo proposito vorremmo ora intrattenervi — voi che amate di professarvi giuristi cattolici — intorno ad una delle questioni, che si presentano in una comunità dei popoli; vale a dire, la pratica convivenza delle comunità cattoliche con le non-cattoliche.
Secondo la confessione della grande maggioranza dei cittadini, o in base ad una esplicita dichiarazione del loro Statuto, i popoli e gli Stati membri della Comunità verranno divisi in cristiani, non cristiani, religiosamente indifferenti o consapevolmente laicizzati, od anche apertamente atei. Gl’interessi religiosi e morali esigeranno per tutta l’estensione della Comunità un regolamento ben definito, che valga per tutto il territorio dei singoli Stati sovrani membri di tale Comunità delle nazioni. Secondo le probabilità e le circostanze, è prevedibile che questo regolamento di diritto positivo verrà enunciato così: Nell’interno del suo territorio e per i suoi cittadini ogni Stato regolerà gli affari religiosi e morali con una propria legge; nondimeno in tutto il territorio della Comunità degli Stati sarà permesso ai cittadini di ogni Stato-membro l’esercizio delle proprie credenze e pratiche etiche e religiose, in quanto queste non contravvengano alle leggi penali dello Stato in cui essi soggiornano.
Per il giurista, l’uomo politico e lo Stato cattolico sorge qui il quesito: possono essi dare il consenso ad un simile regolamento, quando si tratta di entrare nella Comunità dei popoli e di rimanervi?
Ora relativamente agl’interessi religiosi e morali si pone una duplice questione : La prima concerne la verità oggettiva e l’obbligo della coscienza verso ciò che è oggettivamente vero e buono; la seconda riguarda l’effettivo contegno della Comunità dei popoli verso il singolo Stato sovrano e di questo verso la Comunità dei popoli nelle cose della religione e della moralità. La prima può difficilmente essere l’oggetto di una discussione e di un regolamento fra i singoli Stati e la loro Comunità, specialmente nel caso di una pluralità di confessioni religiose nella Comunità medesima. La seconda invece può essere della massima importanza ed urgenza.
V
Or ecco la via per rispondere rettamente alla seconda questione. Innanzi tutto occorre affermare chiaramente : che nessuna autorità umana, nessuno Stato, nessuna Comunità di Stati, qualunque sia il loro carattere religioso, possono dare un mandato positivo o una positiva autorizzazione d’insegnare o di fare ciò che sarebbe contrario alla verità religiosa o al bene morale. Un mandato o una autorizzazione di questo genere non avrebbero forza obbligatoria e resterebbero inefficaci. Nessuna autorità potrebbe darli, perché è contro natura di obbligare lo spirito e la volontà dell’uomo all’errore ed al male o a considerare l’uno e l’altro come indifferenti. Neppure Dio potrebbe dare un tale positivo mandato o una tale positiva autorizzazione, perché sarebbero in contraddizione con la Sua assoluta veridicità e santità.
Un’altra questione essenzialmente diversa è : se in una comunità di Stati possa, almeno in determinate circostanze, essere stabilita la norma che il libero esercizio di una credenza e di una prassi religiosa o morale, le quali hanno valore in uno degli Stati-membri, non sia impedito nell’intero territorio della Comunità per mezzo di leggi o provvedimenti coercitivi statali. In altri termini, si chiede se il « non impedire », ossia il tollerare, sia in quelle circostanze permesso, e perciò la positiva repressione non sia sempre un dovere.
Noi abbiamo or ora addotta l’autorità di Dio. Può Dio, sebbene sarebbe a Lui possibile e facile di reprimere l’errore e la deviazione morale, in alcuni casi scegliere il « non impedire », senza venire in contraddizione con la Sua infinita perfezione? Può darsi che in determinate circostanze Egli non dia agli uomini nessun mandato, non imponga nessun dovere, non dia perfino nessun diritto d’impedire e di reprimere ciò che è erroneo e falso? Uno sguardo alla realtà dà una risposta affermativa. Essa mostra che l’errore e il peccato si trovano nel mondo in ampia misura. Iddio li riprova; eppure li lascia esistere. Quindi l’affermazione : Il traviamento religioso e morale deve essere sempre impedito, quando è possibile, perché la sua tolleranza è in sé stessa immorale — non può valere nella sua incondizionata assolutezza. D’altra parte, Dio non ha dato nemmeno all’autorità umana un siffatto precetto assoluto e universale, né nel campo della fede né in quello della morale. Non conoscono un tale precetto né la comune convinzione degli uomini, né la coscienza cristiana, né le fonti della rivelazione, né la prassi della Chiesa. Per omettere qui altri testi della Sacra Scrittura che si riferiscono a questo argomento, Cristo nella parabola della zizzania diede il seguente ammonimento : Lasciate che nel campo del mondo la zizzania cresca insieme al buon seme a causa del frumento (cfr. Matth. 13, 24-30). Il dovere di reprimere le deviazioni morali e religiose non può quindi essere una ultima norma di azione. Esso deve essere subordinato a più alte e più generali norme, le quali in alcune circostanze permettono, ed anzi fanno forse apparire come il partito migliore il non impedire l’errore, per promuovere un bene maggiore.
Con questo sono chiariti i due principi, dai quali bisogna ricavare nei casi concreti la risposta alla gravissima questione circa l’atteggiamento del giurista, dell’uomo politico e dello Stato sovrano cattolico riguardo ad una formula di tolleranza religiosa e morale del contenuto sopra indicato, da prendersi in considerazione per la Comunità degli Stati. Primo: ciò che non risponde alla verità e alla norma morale, non ha oggettivamente alcun diritto né all’esistenza, né alla propaganda, né all’azione. Secondo : il non impedirlo per mezzo di leggi statali e di disposizioni coercitive può nondimeno essere giustificato nell’interesse di un bene superiore e più vasto.
Se poi questa condizione si verifichi nel caso concreto — è la « quaestio facti » —, deve giudicare innanzi tutto lo stesso Statista cattolico. Egli nella sua decisione si lascerà guidare dalle conseguenze dannose, che sorgono dalla tolleranza, paragonate con quelle che mediante l’accettazione della formula di tolleranza verranno risparmiate alla Comunità degli Stati; quindi, dal bene che secondo una saggia prognosi ne potrà derivare alla Comunità medesima come tale, e indirettamente allo Stato che ne è membro. Per ciò che riguarda il campo religioso e morale, egli domanderà anche il giudizio della Chiesa. Da parte della quale in tali questioni decisive, che toccano la vita internazionale, è competente in ultima istanza soltanto Colui a cui Cristo ha affidato la guida di tutta la Chiesa, il Romano Pontefice.
VI
La istituzione di una Comunità di popoli, quale oggi è stata in parte attuata, ma che si tende ad effettuare e consolidare in più elevato e perfetto grado, è un’ascesa dal basso verso l’alto, vale a dire da una pluralità di Stati sovrani verso la più alta unità.
La Chiesa di Cristo ha, in virtù del mandato del suo divino Fondatore, una simile universale missione. Essa deve accogliere in sé e collegare in una unità religiosa gli uomini di tutti i popoli e di tutti i tempi. Ma qui la via è in un certo senso contraria; essa va dall’alto al basso. In quella prima testé ricordata, l’unità superiore giuridica della comunità dei popoli era o è ancora da creare. In questa, la comunità giuridica col suo fine universale, la sua costituzione, le sue potestà e coloro che ne sono rivestiti, è già fin dal principio stabilita per la volontà e la istituzione di Cristo stesso. L’ufficio di questa comunità universale fin dall’inizio è di incorporarsi possibilmente tutti gli uomini e tutte le genti (Matth. 28, 10), e con ciò di guadagnarli interamente alla verità e alla grazia di Gesù Cristo.
La Chiesa nell’adempimento di questa sua missione si è trovata sempre e si trova tuttora in larga misura di fronte agli stessi problemi che deve superare il funzionamento » di una Comunità di Stati sovrani; solamente essa li sente anche più acutamente, perché è legata all’oggetto della sua missione, determinato dallo stesso suo Fondatore, oggetto che penetra fino nelle profondità dello spirito e del cuore umano. In questa condizione di cose i conflitti sono inevitabili, e la storia dimostra che ve ne sono stati sempre, ve ne sono tuttora e, secondo la parola del Signore, ve ne saranno sino alla fine dei tempi. Poichè la Chiesa con la sua missione si è trovata e si trova dinanzi ad uomini e a popoli di una meravigliosa cultura, ad altri di una inciviltà appena comprensibile, e a tutti i possibili gradi intermedi: diversità di stirpi, di lingue, di filosofie, di confessioni religiose, di aspirazioni e peculiarità nazionali; popoli liberi e popoli schiavi; popoli che non sono mai appartenuti alla Chiesa e popoli che si sono staccati dalla sua comunione. La Chiesa deve vivere tra essi e con essi; non può mai di fronte a nessuno dichiararsi « non interessata ». Il mandato impostole dal suo divino Fondatore le rende impossibile di seguire la norma del « lasciar correre, lasciar fare ». Essa ha l’ufficio d’insegnare e di educare con tutta l’inflessibilità del vero e del buono e con questo obbligo assoluto deve stare e operare tra uomini e comunità che pensano in modi completamente diversi.
Torniamo ora tuttavia indietro alle due summenzionate proposizioni : e in primo luogo a quella della negazione incondizionata di tutto ciò che è religiosamente falso e moralmente cattivo. Riguardo a questo punto non vi è stato mai e non vi è per la Chiesa nessun tentennamento, nessun patteggiamento, né in teoria né in pratica. Il suo contegno non è cambiato nel corso della storia, né può cambiare, quando e dovunque, nelle forme più svariate, è posta di fronte all’alternativa : o l’incenso per gl’idoli o il sangue per Cristo. Il luogo dove voi ora vi trovate, la Roma Aeterna, con le reliquie di una grandezza che fu, e con le memorie gloriose dei suoi martiri, è il testimonio più eloquente della risposta della Chiesa. L’incenso non fu bruciato dinanzi agli idoli, e il sangue cristiano bagnò il suolo divenuto sacro. Ma i templi degli dei giacciono in fredde rovine nei pur maestosi ruderi; mentre presso le tombe dei martiri, fedeli di tutti i popoli e di tutte le lingue ripetono fervidamente il vetusto Credo degli Apostoli.
Quanto alla seconda proposizione, vale a dire alla tolleranza, in circostanze determinate, alla sopportazione anche in casi in cui si potrebbe procedere alla repressione, la Chiesa — già per riguardo a coloro, che in buona coscienza (sebbene erronea, ma invincibile) sono di diversa opinione — si è vista indotta ad agire ed ha agito secondo quella tolleranza, dopo che sotto Costantino il Grande e gli altri Imperatori cristiani divenne Chiesa di Stato, sempre per più alti e prevalenti motivi; così fa oggi e anche nel futuro si troverà di fronte alla stessa necessità. In tali singoli casi l’atteggiamento della Chiesa è determinato dalla tutela e dalla considerazione del bonum commune, del bene comune della Chiesa e dello Stato nei singoli Stati, da una parte, e, dall’altra, del bonum commune della Chiesa universale, del regno di Dio sopra tutto il mondo. Per la ponderazione del pro e del contro nella trattazione della « quaestio facti » non valgono in questo per la Chiesa altre norme se non quelle da Noi già prima indicate per il Giurista e lo Statista cattolico, anche per quanto concerne l’ultima e suprema istanza.
VII
Ciò che abbiamo esposto può essere utile per il giurista e l’uomo politico cattolico anche quando nei loro studi o nell’esercizio della loro professione vengono in contatto con gli accordi (Concordati, Trattati, Convenzioni, Modus vivendi, ecc.) che la Chiesa (vale a dire, già da lungo tempo, la Sede Apostolica) ha concluso in passato e conclude tuttora con Stati sovrani. I Concordati sono per essa una espressione della collaborazione tra Chiesa e Stato. Essa per principio, ossia in tesi, non può approvare la completa separazione fra i due Poteri. I Concordati debbono quindi assicurare alla Chiesa una stabile condizione di diritto e di fatto nello Stato, con cui sono conclusi, e garantire ad essa la piena indipendenza nell’adempimento della sua divina missione. È possibile che la Chiesa e lo Stato nel Concordato proclamino la loro comune convinzione religiosa; ma può anche accadere che il Concordato abbia insieme con altri scopi, quello di prevenire dispute intorno a questioni di principio e di rimuovere fin dall’inizio possibili materie di conflitti. Quando la Chiesa ha apposto la sua firma ad un Concordato, questo vale per tutto il suo contenuto. Ma il suo senso intimo può essere, con mutua cognizione di ambedue le alte Parti contraenti, graduato; può significare una espressa approvazione, ma può anche dire una semplice tolleranza, secondo quei due principi che sono la norma per la convivenza della Chiesa e dei suoi fedeli con le Potenze e gli uomini di altra credenza.
È questo, diletti figli, ciò che intendevamo di trattare con voi più diffusamente. Per il resto Noi confidiamo che la comunità internazionale possa bandire ogni pericolo di guerra e stabilire la pace per quanto poi riguarda la Chiesa, che valga a garantirle dappertutto la via libera, affinché essa possa fondare nello spirito e nel cuore, nel pensiero e nell’azione degli uomini il regno di Colui che è il Redentore, il Legislatore, il Giudice, il Signore del mondo, Gesù Cristo, il Dio che è sopra tutte le cose benedetto nei secoli (Rom. 9, 5).
Mentre pertanto accompagniamo coi Nostri paterni voti i vostri lavori per il maggiore bene dei popoli e per il perfezionamento delle relazioni internazionali, impartiamo a voi, come pegno delle più ricche grazie divine, con effusione di cuore l’Apostolica Benedizione.
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1 commento su “Relazioni tra i popoli e gli Stati sovrani. Doveri dei politici. Rileggiamo le parole di un pontefice cattolico”
Intendo che il Pontefice ribadisce il principio della tolleranza debita e giusta, anche rispetto a una legge costituzionale (da definire ) della Comunità di nazioni, senza altro compromesso fatto dai cattolici e dalla Chiesa riguardo alla Verità e alla Missione. Condizioni che appaiono – come Pio XII mette in rilievo – quanto mai inattuabili.