IL VELENO DELL’EUTANASIA – di Giampaolo Scquizzato

di Giampaolo Scquizzato

 

 

 

11 luglio. Per i cattolici dovrebbe essere una data che nel calendario liturgico sollecita a pregare e ad affidarsi al padre del monachesimo occidentale, San Benedetto da Norcia. Patrono degli esorcisti, pur non essendo stato consacrato con il sacramento dell’ordinazione sacerdotale, il santo monaco è diventato negli ultimi anni anche il patrono d’Europa, il che dovrebbe essere per tutti, anche per i non credenti, un motivo in più per rivolgersi a questa straordinaria figura e attingere a piene mani alla spiritualità e alla cultura benedettina incentrata, come tutti ben sanno, sul motto ora et labora. Questa nostra Europa, di cui Benedetto è patrono, ha proprio bisogno di tornare a pregare e a riscoprire il valore del lavoro, in un periodo in cui c’è tanto bisogno di risollevare e ricostruire un’economia devastata da varie forme di illusione, sfruttamento, speculazione e spreco.

ssmIn realtà credo che il monaco norcino si stia ribaltando nella tomba per la micidiale deriva abortista, omosessualista ed eutanasica dell’antico continente. Dall’alto della beatitudine paradisiaca credo che il santo abbia volto il suo sguardo sui giornali e telegiornali quotidiani che, nel giorno della sua festa, hanno ben pensato di sbatterci in faccia con assoluta normalità l’ennesima prova che l’Europa sta cercando di smerciare a basso costo la cosiddetta “morte dolce”, un “amorevole accompagnamento” alla fine della vita, come direbbe la Cassazione sull’onda della pronuncia sul caso Englaro.

Curiosando sul Corriere on-line ho letto la seguente notizia “Scelse il suicidio assistito l’autopsia: non era malato. Il legale dell’ex magistrato Pietro D’Amico, morto ad aprile in Svizzera: «Nessuna incurabile patologia»”.

Ho pensato: ecco, siamo alle solite!! Anzi, no!! A dire la verità è una novità, perché ultimamente sembra sia più alla moda invocare con forza l’approvazione universale del matrimonio gay in Europa, in particolare in Italia dove il mese di luglio si sta rivelando veramente bollente tra gli scranni parlamentari. L’eutanasia è divenuta vintage, ma credo solo per qualche mese, visto che la campagna obamiana e le vicende francesi, che tutti ormai ben conoscono, hanno inoculato nei media mondiali una nuova ventata di liberalismo omosessuale.

Beh, mi sbagliavo: errare humanum est! Perché diciamoci la verità, il titolo incuriosisce, di primo acchito verrebbe da dire: hanno ucciso un uomo sano?!? Ripercorriamo brevemente l’articolo del Corriere. Pietro d’Amico, sessantaduenne magistrato di origine calabrese, con una intensa carriera tra i tribunali della Lombardia e della Calabria, ha scelto di farla finita in una clinica di Basilea dopo aver scoperto di essere affetto da una non meglio specificata malattia incurabile. Ha fatto tutto da solo: controlli medici (probabilmente tenendoli nascosti alla moglie e all’unica figlia), recandosi poi a dare compimento al suicidio assistito in Svizzera. E qui comincia a meglio dipanarsi l’arcana vicenda: l’avvocato della famiglia Michele Roccisano, a seguito dell’autopsia svolta sul corpo dell’ex magistrato presso l’Istituto di Medicina legale dell’Università di Basilea, ha dichiarato che nessuna malattia grave è stata riscontrata. Niente di niente: “errore scientifico fatale”. Alla faccia dell’ «incurabile patologia dichiarata da alcuni medici italiani e asseverata da alcuni medici svizzeri». Ma, continua il Corriere, “alla base della scelta irreversibile ci sarebbe stata una valutazione sbagliata del proprio stato di salute. Così, almeno, l’avvocato”.

Ma mi chiedo: gli accertamenti medici da chi sono stati fatti? Da Pannella e la Bonino? Perché, anche il più profano e ignorante degli uomini, si chiederebbe: due diagnosi che hanno confermato una malattia grave (che poi è risultata non esserci), per giunta di due equipe mediche di due ospedali e due nazioni diversi, con quale superficialità sono state formulate?

Tralasciando gli strascichi giudiziari che la vicenda inevitabilmente potrebbe avere e augurandoci che i magistrati facciano luce sull’oscura e angosciante vicenda, l’articolo continua ponendo alcuni dubbi amletici “Errore medico? Imprudenza? Negligenza? Imperizia? Roccisano (avvocato della famiglia d’Amico) non ha dubbi: «Avrebbero dovuto sottoporre il paziente a esami strumentali specifici prescritti dalla scienza medica, esami a cui D’Amico non fu mai sottoposto». Il fatto è che il magistrato era convinto di essere gravemente malato e certamente era depresso e lo diceva anche ai parenti. «L’errore scientifico gli ha dato quella terribile conferma che lo ha spinto a richiedere l’assistenza della clinica di Basilea», insiste il legale. Secondo lui le diagnosi avevano finito per convincere anche alcuni medici svizzeri”.

Sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere, e soprattutto se non ci fosse andata di mezzo la vita di un brillante e ancora giovane magistrato e di una famiglia che è stata improvvisamente catapultata in un incubo a cui ora cerca un perché.

Siamo arrivati veramente al paradosso: ma per dare una diagnosi infausta, per far pendere una spada di Damocle sulla testa di un uomo, verrebbe anche a me una certa qual accortezza, anche una piccola prurigine, di consigliare a un paziente di fare degli esami approfonditi e specialistici. Ma dei medici, come detto, si occuperà il tribunale umano, la giustizia farà il suo corso.

Perseverare diabolicum… Continua infatti il Corriere: “La legge svizzera prescrive anche che la diagnosi sia fatta da almeno due medici svizzeri diversi da quello che poi assiste il paziente al suicidio, mentre, nel caso, ciò sembra non essere avvenuto, poiché uno dei medici che ha confermato la malattia era la stessa “dottoressa morte”. E parla di “sconvolgente verità che rende, se possibile, ancora più dolorosa la morte di quel grande intellettuale e grande magistrato”. Quel tragico giovedì suo fratello Guido aveva ricevuto una telefonata: “Chiamo dalla Svizzera, suo fratello mi ha lasciato il suo numero, è stato qui tre volte…”. Guido ha urlato, dice: “Lasciatelo stare”. L’altro: “Mi spiace, è già morto”.

E nel servizio del Tg1 della sera dell’11 luglio 2013, è stata intervistata la figlia, smarrita, triste, assente, forse ancora assopita in un incubo da cui non riesce a svegliarsi: Francesca narra di come le sia stato strappato il padre, come sia stato ucciso solo alla luce dei sintomi di una malattia che D’Amico riteneva di avere ma che in realtà non c’era. E tutto le è stato comunicato con una telefonata. Mi immagino che possano avere detto: “Ci dispiace suo padre è morto, ma non si preoccupi lo abbiamo aiutato noi, è morto serenamente, era malato grave sa…”. Il grande fratello dell’eutanasia, il gioco dei pacchi, dove nel pacco premio si nascondeva la luna nera, la tenebra della morte, la disperazione agonizzante: la telefonata non era per chiedere un aiuto da casa, perché l’aiuto l’avevano già dato loro, hanno fatto tutto loro, come giocare un partita a carte, sapendo che il banco bleffa perché mai ti aiuterà a superare la difficoltà, non ti darà il jolly della vita ma ti mette con le spalle al muro.

Al peggio non c’è mai fine, e di certo non si prospettano tempi migliori. In una umanità che fa del nichilismo e dell’esistenza volatile e annegata nel piacere intenso il punto nevralgico della riflessione alla base di ogni dibattito pubblico, in particolare di quello riguardanti i temi della bioetica, possiamo dire che l’episodio del magistrato d’Amico è una vera bomba ad orologeria che se non è già esplosa prospetta un effetto domino non indifferente. L’idea che sta passando in maniera sempre più impertinente è: la vita è mia e ne faccio quello che voglio! Citando Vasco Rossi, un “filosofo” moderno, che con la vita sembra scherzarci parecchio, anche alla luce delle sue canzoni, potremo dire: vado al massimo!voglio una vita spericolata! Chissenefrega di tutto sì!

Sgomberando il campo da ogni ipocrisia, con il rispetto e la carità che è d’obbligo quando ci si avvicina al dolore e alla malattia, è ormai assodato (vedi l’articolo di Stefano Spinelli su Tempi http://www.tempi.it/eutanasia-suicidio-assistito-e-una-pericolosa-idea-di-pieta-cosa-sta-succedendo-in-europa-e-in-italia#.Ud8llDv0Fr1) che la casistica patologica a cui si potrà applicare il suicidio potrebbe espandersi illimitatamente. Anzi, le legislazioni e la giurisprudenza interpretativa potrebbero sempre più artatamente creare dei limiti generici tali per cui definire quando il malato può ricorrere o meno alla morte volontaria potrebbero essere così vago che chicchessia può svegliarsi un bel giorno, trovarsi zoppo, gobbo, ipovedente, non accettare gli acciacchi e la decadenza fisico-cognitiva dovuta all’età e decidere, hic et nunc, di dire basta, la faccio finita. Game over!

Come ha fatto Piera Franchini, di Chirignago, nel veneziano, che si è recata in Svizzera, accompagnata dal radicale Marco Cappato, a bere una bibita o meglio a farsi sparare in endovena un liquido perché “Non voglio più soffrire, questa è una sofferenza fine a sé stessa: solo io ho il diritto di decidere su me stessa”. E così è stato il caso della donna svizzera di 82 anni autorizzata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (caso Grosse c. Suisse) a procurarsi una dose di medicinali per suicidarsi, poiché le sue qualità fisiche e mentali si stavano ormai esaurendo: nessuna malattia grave, nessun cancro, Alzheimer, morbo. Solo quello che aspetterà a buona parte di noi un po’ alla volta, con il passare degli anni si invecchia e poi si và incontro al nostro Signore Gesù Cristo, o al nulla come direbbe Margherita Hack. Per la Corte Europea infatti “il diritto di un individuo di scegliere quando e come morire, purché esso sia in condizione di prendere una decisione libera e di agire di conseguenza, costituisce uno degli aspetti del diritto al rispetto della sua vita privata, garantito dall’art. 8 della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo”. Vi pare che questa non sia legalizzazione dell’omicidio? Banalizzazione della morte? Olocausto eutanasico? Dammi la mano ti aiuto io, non preoccuparti, tanto non vali più nulla, è vero la tua sofferenza è un peso, è meglio che la smetti di star male, ormai la morte è certa, è ormai alle porte, spalanchiamo il portone e facciamo quest’ultimo salto!! La vita va vissuta spericolata fino alla fine, al massimo, ribadendo il maestro Vasco.

Uno dei primi teorici del piacere come fulcro e fine della vita, Epicuro, è proprio tornato di moda: “la morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c’è, i morti non sono più”.

Una società dove quello che conta è solo godere, dove la malattia e la sofferenza sono uno scomodo inghippo da eliminare subitaneamente, è arrivata a tutto ciò. Quella stessa umanità che ha visto l’instancabile impegno di santi che servivano i malati in ginocchio, che vedevano Gesù stesso nell’ammalato, che accoglievano i relitti inguardabili e deformati: san Giuseppe Benedetto Cottolengo, San Camillo De Lellis, san Giuseppe Cafasso, Beata Madre Teresa di Calcutta, San Damiano De Veuster e un’altrettanta miriade di persone che ancor oggi sulla scia di questi campioni della carità portano avanti opere assistenziali, caritatevoli e mediche e ci insegnano ad amare il lebbroso, come il sano, il down, l’anziano, lo spastico, il cieco, il muto, il sordo, il malato terminale. Perché ogni vita, anche la più straziata, è sempre vita, è sempre cuore, è sempre amore: amore che viene dato a chi soffre e amore che ritorna a chi lo dona come rugiada, come balsamo lenitivo e consolante, pur nella fatica del dolore. Ma questo balsamo noi lo stiamo trasformando in veleno mortale.

E tornando a San Benedetto, mi tornano in mente le parole di un altro Benedetto, Papa Benedetto XVI, che in uno dei suoi ultimi interventi (Messaggio per la celebrazione della XLVI giornata mondiale della pace, 1° gennaio 2013, “Beati gli operatori di pace”) ha sollecitato tutti a rinnovare l’impegno per una nuova pedagogia di promozione del bene comune e della pace, iniziando, in primis,  dalla tutela della vita: “Via di realizzazione del bene comune e della pace è anzitutto il rispetto per la vita umana, considerata nella molteplicità dei suoi aspetti, a cominciare dal suo concepimento, nel suo svilupparsi, e sino alla sua fine naturale. Veri operatori di pace sono, allora, coloro che amano, difendono e promuovono la vita umana in tutte le sue dimensioni: personale, comunitaria e trascendente. La vita in pienezza è il vertice della pace. Chi vuole la pace non può tollerare attentati e delitti contro la vita. Coloro che non apprezzano a sufficienza il valore della vita umana e, per conseguenza, sostengono per esempio la liberalizzazione dell’aborto, forse non si rendono conto che in tal modo propongono l’inseguimento di una pace illusoria. La fuga dalle responsabilità, che svilisce la persona umana, e tanto più l’uccisione di un essere inerme e innocente, non potranno mai produrre felicità o pace. Come si può, infatti, pensare di realizzare la pace, lo sviluppo integrale dei popoli o la stessa salvaguardia dell’ambiente, senza che sia tutelato il diritto alla vita dei più deboli, a cominciare dai nascituri? Ogni lesione alla vita, specie nella sua origine, provoca inevitabilmente danni irreparabili allo sviluppo, alla pace, all’ambiente. Nemmeno è giusto codificare in maniera subdola falsi diritti o arbitrii, che, basati su una visione riduttiva e relativistica dell’essere umano e sull’abile utilizzo di espressioni ambigue, volte a favorire un preteso diritto all’aborto e all’eutanasia, minacciano il diritto fondamentale alla vita”.

E questo, è bene notare, è un punto su cui tutti siamo chiamati a dare risposte perché anche gli atei, gli agnostici, i cristiani, i miscredenti non possono fallire: la pace rimarrà sempre un’utopia, finché la vita sarà considerata come un vecchio paio di scarpe da buttare nella spazzatura o nei cassonetti degli enti no-profit. La linfa vitale, il balsamo dell’amore rischia però di diventare un veleno nauseabondo e mefitico a cui, ahimè, ci stiamo assuefacendo. A questo veleno cerchiamo di rispondere con le parole inscritte sulla medaglie di san Benedetto: “Crux sacra sit mihi lux. Non draco sit mihi dux. Vade retro satana. Numquam suade mihi vana. Sunt mala quae libas: ipse venea bibas” (Che la Croce Santa sia la mia luce. Che il demonio non sia il mio capo. Allontanati Satana! Non mi persuaderai di cose malvagie. Ciò che mi presenti è cattivo: bevi tu stesso i tuoi veleni!).

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