Memorie di un’epoca – rubrica mensile a cura di Luciano Garibaldi
biografie, eventi, grandi fatti, di quel periodo in cui storia e cronaca si toccano
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42 – giovedì 30 novembre 2017
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A CENTO ANNI DA CAPORETTO: SIAMO SICURI CHE LUIGI CADORNA SIA DA CONDANNARE?
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L’accurato studio storico di un giovane ricercatore e saggista, Mirko Molteni, consente di ricostruire con assoluta obiettività una delle pagine più dolorose della nostra storia. Da rileggere e meditare con passione e con onestà.
di Luciano Garibaldi
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Caporetto, un nome, un marchio, un destino che ancora dopo oltre un secolo riemerge nella memoria collettiva di questo strano Paese, l’Italia, che, a differenza delle grandi potenze, sembra avere la memoria fresca più per i momenti di crisi che per i grandi trionfi. La pensa così (e noi condividiamo in toto) Mirko Molteni, uno dei più agguerriti giovani ricercatori storici, che ha appena pubblicato, con la casa editrice Odoya, «Dossier Caporetto», un testo esemplare dedicato al tragico evento bellico compiutosi un secolo fa, per ricordare il quale le librerie sono state inondate da una valanga di ricostruzioni.
Tra queste, abbiamo scelto il lavoro di Mirko Molteni perché ci è sembrato il più completo da un punto di vista storico e il più obiettivo sotto l’aspetto dell’interpretazione degli avvenimenti. Caporetto, la grande batosta inflittaci nell’ottobre-novembre 1917 dagli eserciti tedesco e austroungarico, giunse a un passo dal far uscire prostrato il nostro paese dalla Prima Guerra Mondiale, mutandone forse l’intero esito globale, e si fissò col tempo nella mitografia nazionale accanto ai drammatici momenti della catastrofe successiva, la Seconda Guerra Mondiale, quando nel 1943, dopo l’arresto di Benito Mussolini, il suo successore a capo del governo, il maresciallo Pietro Badoglio, combinò l’armistizio che fece da un giorno all’altro ribaltare l’alleanza dell’Italia con i tedeschi di Adolf Hitler per farli passare armi e bagagli dalla parte degli anglo-americani.
Mirko Molteni dedica la parte introduttiva del suo valido libro proprio a questo inatteso, ma fondamentale paragone tra la tragedia di Caporetto e la non meno grave (e sotto certi aspetti ancor più vergognosa) pagina dell’8 settembre 1943 che segnò l’inizio della sanguinosa guerra civile tra italiani. E scrive, in proposito: «Volevamo vincere a tutti i costi (e chi non lo vuole?) e ci inventammo che la guerra l’avevamo vinta ugualmente, quel 25 aprile 1945. Era caduta la dittatura fascista, è vero, ma la realtà era che l’Italia del 1945 era ugualmente sconfitta, devastata e sottoposta alla legge dei vincitori».
Negli eventi di Caporetto vi fu molto di ciò che si verificherà poi nella successiva guerra.Tanto per cominciare, gli stessi Mussolini e Badoglio erano fin da allora fra gli attori sulla ribalta nazionale, pur seguendo copioni ben diversi, l’uno come giornalista interventista ed ex-socialista in piena metamorfosi, l’altro come giovane generale responsabile proprio del Corpo d’Armata, il 27°, che quel 24 ottobre 1917 cedette di schianto favorendo l’ardita manovra austro-tedesca nella vallata dell’alto Isonzo. E le analogie non finiscono qui – come rileva Molteni – poiché anche a Caporetto si respirò, e molto, quel clima da «tutti a casa», quello scioglimento di intere unità i cui sbandati gettavano i fucili e si affollavano sulle strade e i ponti del Friuli e del Veneto a ricercare la salvezza e la strada del paesello natio, stufi di una guerra a cui erano stati costretti con la forza della legge, e spesso anche con la forza della paura del plotone d’esecuzione.
Quell’evento storico, che dopo un secolo ancora proietta la sua ombra, fu però più complesso di quanto crede il grande pubblico. Caporetto ebbe certamente quella componente di “sciopero militare” che nasceva dall’averne le tasche piene, almeno dal punto di vista del fantaccino che, oltre al rischio di finire sbudellato dalle schegge di granata, doveva sempre combattere una non meno importante guerra personale contro il fango, le malattie e i pidocchi. Ma lo sbandamento della truppa ebbe origine, prima di tutto, dalla sconfitta militare, dalla constatazione che il nemico avanzava, si infiltrava dappertutto e nel frattempo non giungevano ordini superiori a cui conformarsi. Nelle spasmodiche ore del 24 e 25 ottobre 1917 vennero a mancare ordini chiari, né si ebbe un quadro plausibile di una situazione che evolveva troppo velocemente di ora in ora, come una valanga. Venne a mancare l’oggettiva possibilità di una difesa coordinata efficace, in più vedendo coi propri occhi il nemico che, dal fondo della vallata dell’Isonzo, marciava e si avvicinava passo dopo passo. Il marasma era inevitabile. Tantopiù in un esercito come quello italiano in cui, a differenza che in quello tedesco, gli ufficiali sul campo non avevano apprezzabili livelli di autonomia decisionale in campo tattico.
Tra i vari aspetti storici approfonditi da Mirko Molteni vi è quello, fondamentale, del comportamento del generalissimo Luigi Cadorna, capo supremo del Regio Esercito, che, dal suo quartier generale di Udine, comandò ben 11 grandi offensive fra la primavera 1915 e l’estate 1917, tutte con guadagni territoriali irrisori in proporzione alle perdite subite. Migliaia di fanti falciati dalla mitraglia e dall’artiglieria nemiche in assalti frontali, spesso alla baionetta, effettuati dopo prolungati cannoneggiamenti di preparazione. Questa, in buona sostanza, la ricetta con cui Cadorna intendeva sfondare il fronte austroungarico. Una ricetta rigettata oggi dalla quasi unanimità degli storici italiani, concordi nel condannare senza riserve la mentalità del generale, al punto da proporre che vengano cancellate dalle cartine stradali le migliaia di piazze e strade intitolate al suo nome in tutte le città d’Italia.
Molteni ribalta con accortezza e intelligenza il verdetto negativo. E scrive: «Cadorna ci metteva del suo, con la sua ostinazione, ma gli orrori della trincea erano per la verità comuni a tutti i fronti, frutto di una mentalità militare ancora ottocentesca, dura ad adattarsi ai mutamenti della tecnica. La Prima Guerra Mondiale fu una sorta di enorme assedio reciproco, in cui, da entrambe le parti, la difensiva tendeva a essere più forte dell’offensiva. La mitragliatrice e l’artiglieria concentrata avrebbero dovuto attendere la Seconda Guerra Mondiale per vedere nel carro armato e nell’aeroplano degli avversari sufficientemente potenti per rimettere in movimento i fronti, poiché nella Grande Guerra, seppure l’aviazione fosse già ben affermata, essendo ancora neonata, non aveva una distruttività sufficiente a scardinare le difese terrestri. Ancor meno sviluppati erano i primitivi veicoli corazzati dell’epoca, autoblindo e soprattutto carri armati cingolati, che solo molti anni più tardi avrebbero raggiunto la maturità. E’ vero che Cadorna e i suoi sottoposti, specie della 2° Armata, non riuscirono, troppo abituati com’erano alla prassi offensiva, a mutare strategia abbastanza velocemente per opporre una salda difesa in tempo, entro fine ottobre del 1917. Ma è altrettanto vero che, a onore di Cadorna, va riconosciuta, a detta dei testimoni suoi contemporanei, una sua saldezza d’animo, nei giorni del disastro, tale da permettergli di organizzare il ripiegamento delle armate italiane, prima sulla linea del Tagliamento e infine verso il Piave, evitando un ben peggior rischio di collasso della maggior parte dell’esercito, che sarebbe stato possibile, se si considera che in quei giorni vi fu perfino qualche generale, come lo sfortunato Giovanni Villani, a capo della 19° Divisione, che la fece finita con un colpo alla tempia».
Cadorna, già criticato in patria per le perdite spaventose delle sue offensive, oltre che per la disciplina esagerata, caratterizzata da processi e decimazioni, non poteva sperare di sopravvivere alla disfatta e decisiva si rivelò la parola degli alleati anglo-francesi, indispettiti già dal fatto che a suo tempo il generalissimo italiano si era rifiutato di rinnovare l’offensiva dopo l’undicesima battaglia dell’Isonzo. Ma prima di andarsene fece in tempo a lasciare in eredità al suo successore Armando Diaz un esercito almeno in gran parte posto in salvo.
Da condividere, quindi, la conclusione di Mirko Molteni: «Il giudizio su Cadorna, in effetti, non può essere totalmente severo come spesso è portata a fare la maggior parte della storiografia, poiché è possibile che un altro uomo al suo posto, vedendo dilagare di ora in ora il nemico, avrebbe potuto gettare la spugna e chiedere al governo di Roma, che di suo era anche andato in crisi passando dal gabinetto Boselli a quello Orlando, di trattare una pace separata. E a quel punto, se l’Italia fosse davvero uscita dalla guerra a fine 1917, praticamente in contemporanea con la Russia, avviata verso il bolscevismo, l’intero conflitto avrebbe potuto chiudersi in maniera ben diversa, poiché, sebbene gli Imperi Centrali fossero provati dal blocco navale, la limitazione dei combattimenti al solo fronte francese avrebbe permesso loro di concentrare forze sufficienti a contrastare anche l’arrivo degli americani, spingendo l’Intesa a interrogarsi seriamente su una pace di compromesso. Per un soffio ciò non accadde e l’Italia, attestandosi sul Piave, pose le basi per la riscossa del 1918».
Nel suo «Dossier Caporetto», Molteni racconta quegli eventi come in un grande affresco, dando spazio alle voci più disparate, alcune di testimoni già famosi e gettonati dalla storiografia, altre di personaggi meno conosciuti, talvolta anche umili. E’ certamente l’ennesimo libro che, nell’arco di un secolo, viene scritto sugli avvenimenti della 12.a Battaglia dell’Isonzo, e ovviamente non sarà certo l’ultimo, essendo inesauribili le sorgenti della continua reinterpretazione di quei fatti, nonché della scelta delle fonti di riferimento. Non v’è dubbio, comunque, che il contributo storiografico di Molteni contribuisce, assieme a vari altri lavori realizzati in occasione del centenario, a soddisfare le curiosità dei lettori attorno a questo capitolo drammatico e cruciale della storia del nostro Paese.
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Tra le opere storiche di Mirko Molteni, pubblicate dalla Odoya, «Un secolo di battaglie aeree. L’Aviazione Militare nel Novecento», «Storia dei grandi esploratori», «Furia celtica», «Le ali di Icaro. Storia delle origini del volo».
4 commenti su “Memorie di un’epoca – A cento anni da Caporetto: siamo sicuri che Luigi Cadorna sia da condannare? – di Luciano Garibaldi”
cadorna ha dimostrato di essere stato un pessimo comandante sotto tutti i profili che contraddistinguono la figura del comandante. è stato graziato da un processo disciplinare che avrebbe sicuramente avuto come giudizio finale la degradazione con infamia soltanto perché appartenente alla massoneria. il peso dei soldati morti per la sua incapacità graverà in eterno su di lui e su tutti coloro che sarebbero dovuti intervenire ma che, per viltà, non intervennero
premesso che l’unica vera grande e irrimediabile tragedia del ventesimo secolo è stata la caduta dell’impero asburgico, parto dal presupposto che tutto cio’ che la grancassa di regime ci racconta e ci ha raccontato su Caporetto, sono balle.
Caro Garibaldi,
Cadorna non differiva, per dottrina militare e impostazione strategico/tattica, da quella di tutti gli altri eserciti allora in lotta fra loro. L’impiego degli uomini fu fatto allo stesso modo su tutti i fronti. Da noi non ci fu un EricK Maria Remarque che, col suo All’Ovest niente di nuovo, condannò l’intera élite militare europea come macellaia e cieca. Il fatto è che tutti gli eserciti europei, che erano stati sempre attenti allo sviluppo delle strategie e delle tattiche suggerite dai mezzi a disposizione, erano entrati in conflitto fra loro senza avere metabolizzato la guerra immediatamente precedente. Guerra che però era stata ignorata dalla élite militare europea che osservava soltanto ciò che avveniva nella vecchia Europa. Fu ignorata la Guerra di secessione americana che avrebbe potuto aprire gli occhi. Si entrò in guerra in tutta Europa senza avere una visione esatta degli effetti della mitragliatrice e delle artiglierie che, dalla guerra franco/prussiana del 1870 erano enormemente progredite. Era finita l’epoca della cavalleria
militare che aveva distinto l’Europa Cristiana e che ancora 150 anni prima poteva assistere allo scambio di cortesie fra francesi ed inglesi come “Tirez Vous le premier; Messieurs les Anglais” : L’umanità e l’onore erano spariti dalla visuale degli eserciti e contava soltanto fare il maggior male possibile ai nemici, anche se ciò poteva causare perdite ingenti fra le proprie truppe. Il fine giustifica i mezzi era divenuto il concetto normale nelle guerre post napoleoniche. Se all’epoca di Napoleone si avessero avuto a disposizione le artiglierie e le armi automatiche, il Corso non avrebbe fatto quel che fece e, forse, sarebbe stato un altro Cadorna, un altro Joffre, un altro Hindeburg o Ludendorff o un altro Von Conrad. Quel che era cambiata era la mentalità che da cristiana era divenuta pagana, né più e né meno dell’epoca ante Christum natum.