di Patrizia Fermani
La demagogia politica promette al popolo quello che sa di non poter mantenere toccando le sue corde più sensibili, che sono spesso anche quelle più superficiali. Ma la politica sa di non avere la verità tra le proprie preoccupazioni. La demagogia, anche indipendentemente dalla promessa di benefici, punta anche su suggestioni collettive capaci di creare una benevolenza senza condizioni con l’adesione immediata ad una qualche idea presupposta. Per questo essa è per sua natura estranea alla Chiesa, che ha storicamente combattuto e sofferto, incurante se il messaggio affidatole non conteneva formule accattivanti o compromissorie gradite ai più.
Ma dall’esperienza conciliare è venuta la adozione di un linguaggio, di forme e di stili mondani che in qualche modo hanno contribuito ad alleggerire la fede dalla assolutezza dei propri comandi e addirittura anche dei propri dogmi, e tutto ciò è avvenuto nella nuova convinzione, sostanzialmente “demagogica”, che una fede meno impegnativa avrebbe arrestato lo svuotamento delle chiese già in atto. Fu abbassata una doppia linea difensiva a questo scopo, sia all’interno, con la messa in discussione del principio di autorità, sia all’esterno, con l’abbandono di ogni prospettiva di resistenza e di lotta. Anzi, nell’intento di rinunciare a questa definitivamente, sembrò ingegnoso abolire direttamente il nemico, materiale o spirituale che fosse, e quale che fosse la sua carica di aggressività. Venuta meno formalmente la condanna del marxismo, sono penetrati nel pensiero ecclesiastico – nella colorazione di una presunta comunanza di contenuti protocristiani – anche alcuni dei suoi stereotipi ideologici, riflessi della vecchia lotta di classe e sopravvissuti paradossalmente fino ad oggi ad ogni vicenda storica. Con la conseguenza che proprio col ricondurre ogni male attuale al materialismo, pur di matrice capitalistica, questo finisce per dominare in modo curioso tutto il discorso ecclesiale divenuto, anche sotto questo profilo, un discorso demagogico. In questo modo si dimentica troppo facilmente che anche il materialismo contemporaneo, sia in chi lo pratica sia in chi lo condanna esaurendovi tutta la propria attenzione, non fa che riempire il vuoto della perdita del timore di Dio, cioè della Sua legge fondamentale. Infatti, i tempi hanno portato a maturazione i frutti sempre nuovi del peccato primitivo che ora mina come non mai nella storia dell’era cristiana le fondamenta della civiltà.
Benedetto XVI si è assunto il compito, forse oggi divenuto titanico, di riproporre il senso profondo della fede a partire dalla essenza creaturale dell’uomo e dal riconoscimento dei limiti invalicabili al di là dei quali può esserci soltanto la perdizione dell’umanità, e ha indicato questa come l’unica strada percorribile da un cattolicesimo ormai in dissoluzione.
Un messaggio chiaro e forte che ora ecclesiastici e teologi di regime cercano di mettere da parte quale esercizio di mera eleganza intellettuale e letteraria – fuori luogo come uno smoking alla mensa aziendale – per le esigenze religiose della massa “cattolica” esperta in scienze sociali e in diritti di ogni genere.
Del resto già nella predicazione il riferimento alla legge divina si è fatto allusivo e sfumato mentre il comune sentire ha resi inoperanti alcuni comandamenti un tempo considerati decisivi per la salvezza. A Notre Dame i comunardi accesero sotto una catasta di sedie un piccolo fuoco, perché potesse covare non visto e l’incendio divampasse poi al momento opportuno. Un condannato a morte rivelò il piano al confessore che poté dare l’allarme e la cattedrale fu salvata (di nuovo). Così Benedetto XVI si è assunto il compito di indicare in termini inequivocabili quali siano le condizioni per preservare la società, ma anche la Chiesa, dalla catastrofe.
Ora invece si parla di cose vecchie in modo nuovo. Si parla di peccato e di demoni, di misericordia e di perdono, di povertà e di amore, e lo si fa in modo accattivante, colloquiale, capace di tranquillizzare. Questo certamente anche perché, se la legge di Dio rimane immutata, ne è cambiata la interpretazione. Così, c’è da pensare che se si parla di peccato e non si tiene conto della prima ma solo della seconda, cioè di una versione della legge che è stata disossata dall’uomo a proprio piacimento, la stessa parola peccato perde di contenuto e quindi di significato. La gente è appagata perché in fondo non avrà qualcosa di particolarmente impegnativo di cui pentirsi e, in ogni caso, soccorrerà una misericordia illimitata a togliere ogni peso dalla coscienza. Già, una misericordia senza condizioni che rischierebbe di travolgere anche la ragion d’essere della legge se, in modo un po’ sorprendente, non si sottraesse ad ogni possibilità di perdono una non meglio specificata “corruzione”. E poiché la parola evoca comunque qualcosa che ha a che fare con le amministrazioni dello Stato, l’eccezione è in grado di dare soddisfazione ad un suddito notoriamente vessato dal potere. Anche la povertà, in bilico inesorabile tra virtù francescana e maledizione umana, sollecita la sensibilità di tanti che magari, pur non condividendo la bellezza della prima, ritengono la povertà altrui un dovere morale al quale non ci si deve sottrarre in vista di una sicura palingenesi. D’altra parte essa continua ad essere anche il male primario da combattere sempre e con tutti i mezzi, sicché la contraddizione pare rimanere insanabile. In ogni caso, la virtù che amalgama tutte le altre è una lieta medietas, quella che non disturba le idee altrui con l’arroganza del proselitismo, che non lancia anatemi, crociate, parole forti et similia.
Però accade che, di fronte a fatti grande drammaticità collettiva, si lanci l’anatema. Ma è un curioso anatema: verso tutti indistintamente. Tutti si devono sentire in colpa per le sofferenze degli altri, quali che ne siano le cause prossime e remote. E’ vero che Dio chiede conto a Caino della sorte di Abele, ma proprio perché ne conosceva la responsabilità. La presunzione dell’uomo di interpretare a proprio piacimento la volontà di Dio può passare anche attraverso l’abbandono dei criteri di ragionevolezza che si manifesta nella confusione delle responsabilità e nel sovvertimento dei nessi di causalità. Eppure le vicende umane richiederebbero già sempre di non essere affidate alla passione, al pregiudizio gratuito, e soprattutto alla approssimazione di un populismo a pronto incasso. In ogni caso, l’esigenza di non confondere i semplici comporta che non si confondano anzitutto le cause con gli effetti e che vengano risparmiate alla retta ragione le disinvolte ricette per una cura insensata quanto micidiale per tutti.
Infine, ma questo è il dato saliente, anche il rito è stato piegato alle esigenze di una orientata volontà di comunicazione, e la simbologia sacra è stata sottomessa alla simbologia profana.
Certo, nella luce accecante molte prospettive risultano appiattite mentre le emozioni si esasperano travolte dalla violenza della natura. Ma chi governa la nave deve essere al riparo da questi fenomeni.