L’italiano è lingua decisamente diastratica, cioè che “mescola” strati diversi del linguaggio comunicativo. Altro dato di questa caratteristica è il fatto che forme dialettali (e quindi popolari, almeno nelle forme parlate) e gergali sono entrate a pieno titolo nella lingua nazionale comune (o standard).
.
Raddrizziamoci con la nostra lingua / IX
(“Dalle Alpi agli Appennini ovvero Noterelle di uno dei tanti” su parole e cose)
di Dario Pasero
.
Il mio antico amico e maestro Gianrenzo Clivio, docente di Filologia romanza all’Università di Toronto, mancato ai vivi nel 2006, colui che mi ha indirizzato ed aiutato nel mio percorso di cultore (non oso, specie paragonandomi a lui, definirmi studioso) nel campo della filologia romanza e della storia della lingua italiana, era solito affermare, oltre alla supremazia delle lingue romanze nei confronti di quelle germaniche, e specie dell’inglese, che pur egli conosceva benissimo e praticava quotidianamente nell’insegnamento universitario e nella realtà della famiglia e degli amici, che esisteva un paradosso, che mi sento di definire, in suo ricordo, paradoxum Clivii, nella realtà degli italiani in America, sia nel Canada anglofono che negli Stati Uniti. Egli infatti, grande esperto anche dell’“italiese”, cioè della lingua mescidata di italiano (e talora dei suoi dialetti) e di inglese, parlata ancora pochi anni fa dalle più vecchie generazioni di italo-americani, soleva dire che “gli italiani che vanno in paesi anglofoni più sono ignoranti e più, paradossalmente, sono creduti colti dai parlanti del luogo”. Ecco il paradosso cui accennavo di sopra: un italiano ignorante tende, quando parla una lingua straniera poco e mal conosciuta, ad inventarsi le parole che non sa adattando nella traduzione la parola italiana a lui nota. Ora, siccome la lingua inglese possiede moltissime parole (dotte e di uso “alto”, e quindi poco quotidiano) di origine latina (come dunque le parole italiane), è altamente probabile che la parola “inventata” partendo dall’italiano esista davvero in inglese, ma sia di uso – appunto – molto raro e perciò ritenuta “dotta”. Conclusione: chi usa queste parole corre il rischio di essere preso per un finissimo intellettuale, mentre chi conosce davvero l’inglese, sapendo usare termini quotidiani e colloquiali – e quindi semplici – può passare per una persona di cultura appena appena “media”.
Questo mio ricordo personale serve per far notare come le lingue germaniche (inglese e tedesco, soprattutto) presentino una distanza molto ampia tra parole di uso colloquiale e comune e parole di uso invece alto ed intellettuale. Ricordo anche un mio conoscente tedesco che, pur di medio livello culturale, non conosceva il significato della parola geschichte (storia). L’italiano invece – almeno fino a pochi decenni or sono – non presentava una distanza eccessiva tra parole elevate (se non quelle di uso specialistico, ovviamente) e quelle di uso corrente. In altre parole il livello di competenza lessicale tra gli italiani era – mediamente – più alto anche negli strati differenti della lingua. Ora, purtroppo, anche da noi, abbassandosi la media della competenza lessicale (le nuove generazioni, in genere, conoscono un numero inferiore di parole rispetto a quelle precedenti), si è anche ampliata la “forbice” tra lingua dotta (o medio-dotta) e lingua quotidiana e di uso comune.
Questa maggior capacità di “mescolanza” tra i vari strati della lingua ha permesso all’italiano una maggiore possibilità di fusione “diastratica”, cioè parole dell’uso basso, quando addirittura non dialettali, che sono entrate a pieno diritto nell’italiano cosiddetto “standard” o addirittura anche in quello medio-alto.
Un esempio della capacità che ha avuto l’italiano di derivare parole da lingue e da registri diversi e di continuare poi ad usarle in contesti e in strati anche molto lontani tra loro ci può essere offerto da alcuni termini relativi all’area semantica del parlare e della parola. Nella nostra lingua abbiamo infatti il termine di derivazione popolare “parola” (dal latino ecclesiastico parabulam: ne abbiamo già parlato), ma anche l’uso “verbale” della lingua o il sostantivo “verbale” (quello che si fa ai processi o agli esami o ancora in altre occasioni di ordinaria burocrazia) di derivazione dotta dal latino verbum (parola), ma anche l’esame “orale” (sempre dal latino classico “os, oris”, bocca) oppure “loquela”, “locuzione” ed “eloquio”, tutti dal verbo latino loqui (parlare, discorrere), col significato rispettivamente di “parlantina”, di “frase, modo di dire” e ancora di “abilità nel parlare”. E che dire poi di colui che non smette mai di parlare: una persona “logorroica”, dal greco lógos (parola) e il verbo rhéo (scorro), quindi un “fiume di parole”.
L’italiano dunque è lingua decisamente diastratica, cioè che “mescola” strati diversi del linguaggio comunicativo. Altro dato di questa caratteristica è il fatto che forme dialettali (e quindi popolari, almeno nelle forme parlate) e gergali sono entrate a pieno titolo nella lingua nazionale comune (o standard). Del primo gruppo, quello delle parole dialettali, abbiamo un numero grandissimo di esempi, provenienti (un tempo) da un po’ tutte le regioni della nazione (isole comprese), mentre ultimamente, soprattutto (ma non solo) grazie alla televisione, prevalgono, e di gran lunga, i termini che derivano da parlate centro-meridionali, e dal romanesco in particolare.
Alcuni di questi termini sono parole dialettali (grissino, pizza, cassata, mafia, camorra, pizzo, ultimamente anche pizzino) entrate stabilmente nell’uso nazionale comune come termini con un significato ben preciso e quanto mai perspicuo. Altre, invece, pur entrate nella lingua comune dai dialetti, avevano già in partenza, o l’hanno assunta in seguito, una funzione gergale, di esclusività dunque da parte di un ristretto gruppo di parlanti rispetto ai locutori “comuni”. Quasi tutti questi termini poi hanno perso poco per volta il loro valore “esclusivo”, mantenendo però in genere il loro uso più che altro popolare. È il caso, per esempio, di “madama”, parola appartenente al gergo della malavita delle città del nord, col significato di “polizia” oppure, in un senso più ristretto, di maitresse, “tenutaria di postribolo”. Oppure il veneto “naia”, entrato nella lingua comune dopo la grande guerra, col significato di “servizio militare” o ancora, dopo l’Unità, il piemontese “cicchetto” (letteralmente bicchierino di liquore) nel senso traslato, anch’esso di origine militare, di “rimprovero breve, ma secco”, oppure il napoletano “ciofega” (lett. “schifezza”), per indicare, per metonimia, una “brodaglia, bevanda disgustosa” (detto in genere del caffè; ricordate Totò che ammoniva il proprietario di un locale pubblico in cui si serviva un pessimo caffè: “Non chiamate il vostro locale ‘Caffè dello Sport’, ma chiamatelo ‘Ciofega dello Sport’!”) o ancora del settentrionale “sbobba”, che indica una vivanda di scarsa qualità in cui a malapena si distinguono gli ingredienti, sgradevole anche alla vista oltre che al palato; o ancora il milanese “teppa” (delinquente), entrato a pieno titolo nell’italiano, in cui ha generato “teppaglia, teppista” o il torinese “birichin”, l’equivalente del napoletano “scugnizzo”, italianizzato in “birichino” (o anche “biricchino”), che ci rimanda a don Bosco ed alla sua banda di “birichin”, di cui il Santo scherzosamente si autodefiniva “il capo”. Potrei, a questo punto, ricordare come nella mia infanzia e giovinezza molte parole piemontesi, di uso gergale o semi-gergale, fossero entrate, seppur con una patina di italianizzazione, nella parlata quotidiana dell’italiano locale di Torino: “baracchino” (operaio FIAT, riconoscibile per il barachin, cioè la pietanziera in cui si portava in fabbrica, da casa, il pranzo), “fare schissa” o “schizzare” per “marinare la scuola”, il “toni” cioè la “tuta da lavoro” (dell’operaio di fabbrica o del meccanico). O ancora – e mi scuso con le signore, ma mi sembra esempio interessante – la parola “gargagnano” per indicare il lenone, il protettore di prostitute, il cui etimo ci lascia un, permettetemi di dire, “retrogusto” morale che rivela il carattere eticamente saldo dei nostri antenati. La parola infatti deriva dall’aggettivo gargh (“ozioso, nulla facente”; sost. gargarìa, “ozio, neghittosità”), che bene indica chi, sfruttando ignobilmente la donna, mette in mostra, oltre ad altri squallidi comportamenti, anche un’assoluta mancanza di voglia di lavorare…
Altro caso della estrema varietà della nostra lingua nazionale è l’uso “variegato” in regioni differenti di alcuni termini, uguali o simili ma con grafie anche minimamente differenti: fioraio (italiano standard) e fiorista (Italia settentrionale), tabaccaio (standard) e tabacchino (Italia settentrionale), notaio, domandare e duecento (standard) di contro a notaro, dimandare e dugento (Toscana); oppure ancora l’uso di parole differenti nei vari italiani regionali per indicare lo stesso oggetto o attività: mesticheria e colorificio, pizzicagnolo e droghiere, norcino e salumiere… O ancora, la catalogna, che in buona parte d’Italia è solo una verdura, mentre in Piemonte è anche un tipo di coperta non molto pesante, meno pesante certo di una sempre piemontese “trapunta” (pardon, lombardamente, “imbottita”).
A proposito poi di Toscana e toscani, ricordo lo stupore nel sentire un mio compagno di liceo (proveniente, via Roma, dalla dantesca Santa Fiora del sesto del Purgatorio, v. 111) usare locuzioni quali “costì, costà, costassù e costaggiù”, oltre (ça va sans dire) all’uso corretto ed appropriato dei passati (remoto e prossimo), per poi cadere in un solecismissimo “l’hai fatto te”…
Veniamo appunto ora ai veri e propri strafalcioni linguistici, altrimenti detti “solecismi”, dal nome della città greca di Soli in Cilicia (odierna Turchia), i cui abitanti erano noti per parlare un dialetto greco-attico quanto mai corrotto e sgrammaticato, poco comprensibile anche agli altri greci, sia dell’Asia che della madrepatria.
Possiamo innanzitutto dividere i solecismi tra quelli di esclusivo uso scritto e quelli che troviamo sia nello scritto che nel parlato. Alla prima categoria appartiene in particolare l’uso errato dell’apostrofo: troviamo spesso infatti qual’è; l’apostrofo non ci vuole perché qual è troncamento e non elisione, e la prova di ciò è che troviamo qual anche davanti a consonante e non solo a vocale: “qual masso che dal vertice”, dice Manzoni al primo verso dell’inno sacro Il Natale oppure “Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso”, Leopardi al v. 37 dell’Ultimo canto di Saffo. Abbiamo poi casi di “ipercorrettismo”, termine che significa che la persona ignorante, per paura di sbagliare nell’uso dell’apostrofo, esagera ampliandone l’uso a tutte le situazioni possibili: è il caso di apostrofo davanti a nomi maschili che non ne necessitano (un’uomo, un’altro ecc.). Sempre tra i solecismi “di scrittura” possiamo ricordare il raddoppiamento (o, con termine tecnico, geminatio) della –z- in parole come “polizzia” (per influsso forse anche di “polizza”, in cui la doppia –z- è regolare) o in tutti i termini con suffisso –zione: occupazzione, demolizzione, e chi più ne ha più ne metta.
Tra i solecismi rilevabili, invece, sia nella scrittura che nel parlato (e in esso più frequentemente, poiché chi commette tali errori parla – in genere – molto di più di quanto non scriva) troviamo l’uso improprio del condizionale presente per il congiuntivo imperfetto nel periodo ipotetico del 3° tipo (o dell’irrealtà): “se io sarei capace, scriverei corretto”, da alcuni miei colleghi buontemponi giustificato come errore spiegabile con l’identità in latino dei due modi (congiuntivo e condizionale), ma conoscere il latino (ma era poi proprio così? ne dubito…) non sempre basta a conoscere anche l’italiano (evidentemente). Sempre a proposito di imperfetto congiuntivo ricordiamo la forma solecistica “dassi” (con, a seguire, tutta la coniugazione coerente) per “dessi”, dovuta all’analogia ipercorrettistica con l’infinito “dare”.
Abbiamo poi le forme del tipo “Io mi piace”. È vero che si tratta di un anacoluto (figura retorica consistente nell’iniziare un periodo con un soggetto e concluderlo con un altro), ma l’anacoluto è ammesso, innanzitutto, per i grandi scrittori (un conto sono gli anacoluti manzoniani, che impreziosiscono la sua prosa, un altro sono quelli delle persone comuni: veri e propri errori o quantomeno imprecisioni) oppure, e solamente nel parlato colloquiale, a fronte di un periodo estremamente lungo e complesso, di cui il parlante ad un certo punto possa perdere il controllo. I participi passati fondati su quella che i linguisti chiamano “analogia”: se un verbo all’infinito fa “aprire” o “coprire”, perché al participio passato non può fare “aprito” o “coprito”? e invece fa “aperto” e “coperto”? E che dire poi di quella che è una vera cartina al tornasole per discernere le persone istruite da quelle meno (o per nulla) colte, cioè l’uso analogico dell’infinito “redarre”, facendolo derivare dal participio passato “redatto”, al posto del corretto “redigere”? Stesso discorso vale per le forme “esatto/esigere”, che non hanno ancora dato luogo (ma temo manchi poco…) ad “esarre”…
Resta poi la famosa categoria dei congiuntivi “all’italiana”: facci, dichi, vadi, legghino, salghino e via congiuntivando. Abbiamo già altra volta ricordato e dimostrato con l’appoggio di un’auctoritas indiscussa (il glottologo e linguista Gerhardt Rohlfs) che l’esempio e l’autorità di Dante (in Purg. III, vv. 115 e 117) non può manzonianamente servire “al suo assunto, signor podestà riverito” (P. S. cap. V) per giustificare l’uso solecistico di queste forme verbali fantozziane…
Veniamo ora, per concludere con errori coi quali – come si dice – si potrebbe “sparare sulla crocerossa” tanto sono (ahimè) comuni, alla confusione tra se e sé e tra ne e né. Se, senza accento, è congiunzione ipotetica (“Se dici così, sbagli…), mentre sé, con accento acuto, è il pronome riflessivo di 3a persona, sia singolare che plurale, sia maschile che femminile. E a proposito di questo sé ancora alcune brevi osservazioni. La prima è sintattica: quante volte sentiamo frasi del tipo “egli guardava con attenzione intorno a lui…”; questa frase è sintatticamente corretta solo se intendiamo dire che egli (il soggetto) guardava intorno ad un’altra persona di sesso maschile, mentre è errata, e da sostituire con “intorno a sé”, nel caso in cui il soggetto guardi intorno a se stesso. Una seconda osservazione: se stesso o sé stesso? La prima forma è comunque corretta, perché la presenza di stesso ci permette di capire che quel se (anche senza accento) non può certo essere confuso con la congiunzione ipotetica; d’altra parte Manzoni (tanto per citare uno che sapeva scrivere…) usa sistematicamente sé stesso, forma che è altrettanto giusta (ovviamente), ma che appare forse più un “vezzo” stilistico che non una vera e propria necessità.
Nel caso di ne/né, la prima forma è un pronome partitivo, che vale “di esso/a/i/e” (es.: “ho del pane, ne vuoi?” oppure “tu hai molti libri, ne leggi?”), mentre la seconda è particella negativa che vale “e non” (< latino nec); pertanto è un errore piuttosto marchiano sentire qualcuno che dica “non ho né questo e né quello”: trattasi di pleonasmo (cioè ripetizione inutile ed erronea) perché –come detto – né vale già di per sé “e non”. Non parliamo poi delle “1000 maniere per scrivere ce n’è”. Quando insegnavo mi sono spesso chiesto se fosse possibile catalogare tutte queste forme: si va dalla apostrofaccentazione massimalista “c’è n’è” alla minimalista “ce ne”, passando attraverso varie gradazioni di “c’è ne, ce né, c’è né…”. La forma corretta, come si può evincere qualche riga sopra, è “ce n’è” (e la cartina al tornasole è la forma plurale: “ce ne sono”).
.
Appendice sulla “neo-lingua”. Se si ostinano a volerci convincere che si debba dire: sindaca, ministra (o minestra?), assessora e via politicallycorrettando, perché in un recente articolo di un giornale (locale, ma schierato ossequientemente su posizioni colluse col potere) ho visto scritto che “è stato arrestato il messo comunale, la signora XYZ”? Non si sarebbe dovuto dire: “è stata arrestata la messa comunale, la signora XYZ”? Forse spaventava la parola “messa”: troppo cattolica, poteva offendere, o quantomeno creare disagio, sia tra i lettori non cristiani che tra quelli laicisti, “tutti d’un pezzo”…
3 commenti su “Raddrizziamoci con la nostra lingua / IX – Rubrica mensile di Dario Pasero”
L’aggettivo gargh è anch’esso di lingua piemontese, o a che lingua appartiene? Se ne conosce l’etimologia?
Gargh è ovviamente piemontese (visto il contesto in cui è inserito). Il suo etimo, secondo il REP (Repertorio Etimologico Piemontese), dovrebbe essere il germanico KARC/KARG (vagabondo, ozioso), con esito gallo-romanzo presente in tutto l’arco alpino occidentale (Piemonte, Provenza, Delfinato, Savoia). Spero di essere stato esauriente.
Come non ricordare i nomi “falsi amici”, specie quelli inglesi che son caratteriizati da grafìa e da fonetica simile, e che sono spesso motivo di errore nell’italiano che vuol parlare ‘english’? Ad esempio: Parents (genitori) e non ‘parenti / Abuse (approfittare) e non ‘abusare’ / Actual (reale) e non ‘attuale’ /Scholar (erudito) e non ‘scolaro’ / Factory (fabbrica) e non ‘fattoria e così falsamicando.. .
Un ottimo, utilissimo e godibilissimo intervento carissimo Dario.