Ogni mese l’Autore ci presenta una figura di santo, un volto a cui guardare, un esempio da seguire, un maestro da ascoltare, un amico le cui parole – e le cui opere – ci possano davvero essere di conforto nell’avventura difficile ma affascinante dell’essere cristiani.
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SAN GIOVANNI CALABRIA
Sempre più spesso sentiamo ripetere che la Chiesa deve essere la Chiesa povera dei poveri, degli emarginati, degli esclusi. Nulla di strano: Gesù Cristo stesso si rivolgeva ad ogni persona, dai lebbrosi agli ufficiali romani, senza alcuna opzione preferenziale. A tutti proponeva di seguire Lui, Via, Verità e Vita. Lo stesso hanno sempre fatto i santi, compresi i santi della carità: offrire pane, coperte, assistenza, ma tutto in nome di Gesù Cristo, e offrendo come forma di suprema Carità l’annuncio della Salvezza, procurando conversioni e salvando anime. Il santo di questo mese ne è un chiaro esempio: san Giovanni Calabria, vissuto tra la seconda parte dell’800 e i primi decenni del XX secolo, in un periodo difficilissimo per il mondo e per la Chiesa. Fu il santo dei ragazzi abbandonati, degli emarginati, fu il fondatore delle Congregazioni dei Poveri Servi e delle Povere Serve della Divina Provvidenza. Per lui le parole “povertà” ed “esclusione” non erano dei termini da teorie sociologiche: erano realtà che conosceva bene. Era nato a Verona nel 1873, figlio di un povero ciabattino, e fin da bambino sperimentò personalmente la povertà e la fame. La sua vita difficile fu tuttavia rischiarata e riscaldata dalla calda luce della Fede. Sentì fin da piccolo quella che un tempo veniva definita la chiamata.
Entrato in seminario, incontrò numerose difficoltà per diventare sacerdote: egli era tutt’altro che brillante negli studi; il piccolo Giovanni non aveva mai visto libri in casa sua, dove i genitori erano troppo impegnati a sudare per ore al giorno cercando di sfuggire la povertà; gli insegnanti guardavano con perplessità a questo giovane nella cui testa i rudimenti del latino, della filosofia e delle altre materie faticavano a sedimentare, e il severo giudizio era che si trattava di uno studente “di scarso ingegno”. Ciò che possedeva era però una straordinaria bontà e un grande desiderio di servire Dio. Lui si stesso si definiva “zelo e miseria”, e ciò che lo sostenne nelle difficoltà fu un’incondizionata fiducia nella Provvidenza, accompagnata da un grande amore per Dio, un amore da cui venne poi una altrettanto grande attenzione per l’umanità più povera. Proprio per questo fu un umile strumento nelle mani del Creatore, che attraverso di lui compì grandi opere.
Divenne prete, nonostante tutto, e il suo programma di vita consistette in questo: “cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”. Fece il cappellano d’ospedale, il curato della storica parrocchia di Santo Stefano, poi progressivamente il Signore fece in lui e attraverso di lui grandi cose, così che oltre a fondare le due famiglie religiose prima ricordate, don Calabria diede avvio a numerose attività caritative, assistenziali, sanitarie, pastorali. Sorprendentemente, però, l’umile sacerdote veronese ebbe un carisma straordinario anche nel campo dell’ecumenismo. Un ecumenismo che non consisteva per lui nel mettere tra parentesi i principi fondamentali, nel trovare un minimo comun denominatore, buono per tutti, ma nel coltivare la passione per la Verità.
Significativa fu la sua amicizia e confidenza con lo scrittore anglicano Clive Staples Lewis, l’autore delle Cronache di Narnia e delle Lettere di Berlicche, nonché apologeta cristiano. Lewis era stato convertito dall’ateismo dal suo amico e collega John Ronald Tolkien, che cercò di portarlo al Cattolicesimo. Lewis si fermò all’Anglicanesimo, ma il suo lavoro di difesa del Cristianesimo dagli attacchi delle ideologie del mondo fu importante.
Come don Calabria arrivò all’amicizia col professore di Oxford? Il punto di partenza furono le Lettere di Berlicche. Un amico, frate domenicano, gli aveva parlato in toni elogiativi del libro e don Calabria fu spinto dalla curiosità a leggerlo. Nonostante i tantissimi impegni era consuetudine di don Calabria dedicare un po’ di tempo al giorno alla lettura di testi di letteratura. Così prese in mano le Lettere, da poco tradotte in italiano, e ne rimase affascinato. Aveva sentito nelle parole dello scrittore britannico protestante lo stesso accento di verità proclamato dalla Chiesa Cattolica, aveva percepito la stessa preoccupazione per l’azione del male nel mondo, aveva sentito la preoccupazione per le sorti di un’umanità portata ad allontanarsi dalla fede, la dimenticanza dell’importanza e della forza della preghiera. Fu tale l’impressione suscitata dalla lettura di Berlicche che don Calabria decise di prender contatto con il suo autore. Fu una lettera rispettosa ma anche aperta, coraggiosa, con cui il figlio di un ciabattino veneto si rivolgeva ad un intellettuale ormai celebrato in tutto il mondo anglo-sassone. Chiedete e vi sarà risposto, pensò forse don Calabria, e così prese carta e penna, e nella sua bella dimora di Oxford, Lewis ricevette una lettera scritta in latino. La corrispondenza tra i due continuò per anni, sempre attraverso l’antica lingua dei dotti e della Chiesa. ….
Don Calabria terminò la sua vita terrena nel 1954. Alla sua morte, la sua Opera era già diffusa in tutto il mondo. Alle soglie del 2000 le sue virtù straordinarie vennero riconosciute dalla Chiesa e fu canonizzato da Giovanni Paolo II.