Alcune riflessioni sul tema dei suoni aperti e chiusi e sugli accenti: sulla fonetica, in una parola.
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Raddrizziamoci con la nostra lingua / VII
(“Dalle Alpi agli Appennini ovvero Noterelle di uno dei tanti” su parole e cose)
di Dario Pasero
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Di Achille Campanile (1899-1977) ricordo un’intervista televisiva della metà degli anni ’70 del secolo scorso (mi pare al Ninfeo di Villa Giulia in occasione di un premio “Strega”), in cui l’intervistatore, disposto (come si dice) “a tappetino”, gli si rivolgeva gratificandolo del titolo di “Maestro”. Ora – purtroppo – questo notevole scrittore e fine umorista è ignoto a molti. Sic transit…
Parlo di lui (ieratica figura patriarcalmente ornata di lunga e fluente barba bianca) perché nelle sue opere, specie quelle più brevi e fulminanti, ha sempre avuto un occhio di attenzione non solo alla lingua, che padroneggiava con maestria, ma anche agli aspetti ad essa strettamente connessi, quelli cioè che gli “addetti ai lavori” chiamano “metalinguistici”. Ai miei tempi, molto più modestamente (e comprensibilmente), si definivano “grammaticali” in senso lato: fonetici, morfologici, sintattici e lessicali. D’altra parte come Manzoni chiama don Ferrante “peripatetico consumato”, così i miei lettori mi potranno definire “portorealista consumato”.
In uno dei suoi ultimi libri, Manuale di conversazione (1973), una raccolta tipicamente campaniliana costituita di tanti brevi racconti che, pur nella loro sinteticità, non sono semplici bozzetti, ma testi completi e compiuti, ne leggiamo uno intitolato La «ò» larga, il cui obiettivo è quello di stigmatizzare, con ironico umorismo, chi non tenga conto, nella pronuncia dell’italiano, della corretta apertura (o chiusura) delle due vocali che soggiacciono a questo fenomeno, cioè la -e- e la -o-.
In questo breve testo, infatti, l’attenzione dello scrittore (e di conseguenza del lettore) è posta sul fatto che i due protagonisti, la collaboratrice di una rivista ed un lettore della medesima, equivochino sul significato di una frase in cui compare una parola, diciamo così, “ambigua”. Il trafiletto incriminato, opera della signora, termina dunque con la frase seguente «Se avete quesiti da porci, rivolgetevi a me che sono qui per soddisfarvi». Ora, per farla breve, la signora aveva ovviamente inteso “pórci”, con la ó chiusa, voce del verbo “porre”, mentre il lettore aveva inteso “pòrci”, con la ò aperta, regolandosi di conseguenza nella domanda da lui rivolta alla signora; con le immaginabili conseguenze.
Questo simpatico esempio letterario (che vi invito comunque a leggere nella sua interezza) ci apre la strada ad alcune riflessioni sul tema dei suoni aperti e chiusi e sugli accenti: sulla fonetica, in una parola.
Abbiamo detto che le vocali italiane soggette, nella pronuncia, al fenomeno dell’apertura e chiusura sono la e e la o, mentre le altre tre possono essere pronunciate ciascuna in un unico modo soltanto e vengono comunemente e convenzionalmente segnate, se necessario, con l’accento grave (tanto che le nostre tastiere presentano i tasti di queste lettere solamente con questa forma di accento). Si distingue, ovviamente, l’editore radical-chic (e bastian contrario) per antonomasia, quello (non ne faccio il nome non volendogli fare troppa pubblicità) dello struzzo e del motto “durissima coquit”, per intenderci: questo editore, aggiungiamo per buon peso, torinese, si picca di avere il vezzo di segnare le i e le u toniche con l’accento acuto (fateci caso…).
Passiamo ora a qualche dettaglio.
Nel caso delle parole tronche, cioè con l’accento sull’ultima sillaba, non sussistono gravi problemi, in quanto la o finale tronca è sempre aperta e quindi segnata con l’accento grave (ò), mentre la e è sempre chiusa e quindi segnata con accento acuto (é) tranne che nella 3a persona sing. del verbo essere (è) ed, eventualmente, nei suoi composti, come cioè, oltre che in pochi altri casi di parole di origine alloglotta rispetto al latino, come il caso di caffè. In tutti gli altri casi il suono è sempre chiuso: poiché, perché, affinché…
Nel caso invece della maggior parte delle parole italiane, cioè quelle piane (con l’accento tonico sulla penultima sillaba), abbiamo alcune osservazioni interessanti da fare, a proposito dei cosiddetti omografi ma non omofoni, cioè parole scritte nello stesso modo ma pronunciate in modo diverso, a seconda –appunto – della apertura o chiusura della vocale tonica.
Un esempio lo abbiamo già visto nelle prime righe di questo intervento. Non si tratta – come in altri casi che vedremo – di due sostantivi, ma di una forma verbale con pronome enclitico (cioè appoggiato, senza accento proprio, alla forma verbale) e di un sostantivo. “Pórci” (con ó chiusa) è l’infinito presente del verbo “porre” più il pronome personale enclitico –ci (a noi), mentre “pòrci” (con ò aperta) è il plurale del sostantivo “pòrco”. Siamo di fronte ad un caso “limite”, mentre altre “coppie minime” sono molto più perspicue.
Bòtte (plur. di bòtta, “colpo”, ma anche forma poco usata per significare “rospo”) di contro a bótte (recipiente per il vino), tòsco (veleno < lat. toxicum) di contro a tósco (toscano), pèsca (il frutto < persica [malus], “frutto persiano”) a pésca (l’atto del pescare), mèzzo (mediano) a mézzo (molto maturo, sul punto di marcire < lat. mitius, comp. di mite “troppo morbido”). Pensiamo a quei versi dannunziani che suonano “Nella belletta i giunchi hanno l’odore/ delle persiche mézze e delle rose” (Nella belletta, vv. 1sg.). Per scrupolo ricordiamo che la “belletta” (forse varia lectio per “melletta”, a sua volta da “melma”), nonostante questo nome “bello”, è la fanghiglia, da non confondere col “belletto”, questo sì dall’aggettivo “bello”, che è quanto le donne e certi (ahinoi) uomini si mettono in volto per apparire, appunto, più “belle”.
Questo fenomeno relativo alla apertura/chiusura della e tonica è presente anche in francese, dove troviamo la nota opposizione mer/mère (mare-madre), mentre nelle lingue germaniche troviamo un fenomeno che ricorda quello dell’apofonia (o gradazione vocalica) presente nel latino e nel greco: léipo/élipon/léloipa (greco), capio/cepi, facio/feci (latino), sing/sang/sung oppure man/men (inglese), land/länder (tedesco); così come, per le consonanti, in queste lingue, abbiamo il fenomeno delle cosiddette prima e seconda lautverschiebung o rotazione consonantica: apple (inglese)/apfel (tedesco), father (inglese)/vater (tedesco), heart (inglese)/herz (tedesco). Ma ora non voglio addentrarmi in campi che non mi competono…
Osserviamo però come l’italiano sia piuttosto restio nell’uso degli accenti (tranne – ovviamente – per le parole tronche) anche in quei casi in cui le parole siano omografe. Preferiamo affidarci alla contestualizzazione piuttosto che non all’accentazione per capire l’esatto significato di un omografo, per cui tendiamo a non accentare “prìncipi” (addirittura interviene il correttore ortografico a togliermelo…) o “princìpi” (idem c. s.) oppure “sùbito” (avverbio) e “subìto” (part. passato del verbo subire) o ancora “àlzati” (imperativo 2a sing. del verbo alzare più l’enclitico –ti) ed “alzàti” (part. passato del medesimo verbo).. Faccio ancora un esempio di parola tronca: tendiamo a scrivere “piè” (“ad ogni piè sospinto”), mentre sarebbe più corretto scrivere “pie’”, trattandosi di apocope di sillaba nella parola piede e non di parola esistente in sé e per sé come tronca.
Essere parchi (non nel senso, ovviamente, di grandi distese di piante e di fiori…) nell’uso degli accenti appartiene, nella nostra lingua, a quel fenomeno noto, in linguistica, come “economia”: una lingua, cioè, tende ad usare il minor numero possibile di segni grafici e diacritici, per economicità appunto. Ciò spiega anche il motivo per cui noi evitiamo di usare due grafemi (c e k), preferendo usarne uno solo (c), con il rafforzo della h per indicare il suono velare della c (chicco), di contro a quello palatale (cicco).
Visto che stiamo trattando il tema delle “convenzioni grafiche” che definiscono la scrittura di una lingua, ricordiamo – per inciso – che esse sono state ipotizzate inizialmente dal veneziano Pietro Bembo (nel secolo XVI) e poi regolamentate nel corso dei secoli successivi. Ecco allora che si è oscillato, per un certo periodo, tra la grafia (etimologica) huomo e quella più vicina alla pronuncia, e più “economica” (uomo), dato che in italiano la h non ha valore di semi-consonante aspirata (come per esempio avviene in tedesco), ma solo di segno di palatalizzazione delle gutturali c e g. In tempi più vicini a noi (si fa per dire…) ricordo che a mia nonna materna, alla scuola elementare nei primi anni del Novecento, era stato insegnato a scrivere “io ò/egli à” invece che “ho/ha”, privilegiando quindi la analogia dell’ausiliare avere con l’altro ausiliare (essere; egli è), piuttosto che la forma etimologica (egli ha < habet), etimologia che, notiamo, è rispettata solamente per le forme confondibili con le omofone (senza h): “o” (congiunzione disgiuntiva), “ai/ahi” (preposizione articolata ed interiezione), “a” (preposizione semplice) ed “anno” (sostantivo), ma non certo nelle forme, non ambigue, “abbiamo, avete, avevo, avrò, abbia ecc”, che a nessuno viene in testa di scrivere “habbiamo, havete ecc.”. Negli anni successivi, poi, la convenzione grafica ha preferito le forme etimologiche ho/ha/hanno rispetto a quelle analogiche ò/à/ànno.
Riprendiamo ora il discorso sugli accenti e vediamo il caso particolare dei verbi dare, fare, andare, stare. È noto che dà accentato è la 3a persona singolare del presente indicativo del verbo “dare” (mentre da è la preposizione semplice che indica allontanamento, origine oppure agente e talvolta anche moto a luogo: vengo da te), ma attenzione al fatto che abbiamo anche da’ (con l’apostrofo) per indicare la 2a persona singolare dell’imperativo presente, con apocope cioè caduta di vocale finale (mentre “aferesi” è caduta all’inizio e “sincope” nel mezzo: termini ben noti agli esperti di enigmistica…) per dai, ed allo stesso modo abbiamo fa’ (per fai: imperativo di “fare”), va’ (da “andare”) e sta’ (da “stare”): tutte forme, queste ultime, che non troviamo mai con l’accento.
Ho scritto, con piacere, queste riflessioni minime su fonetica e grafia… e pensare che quando diedi il concorso a cattedra (più di 30 anni or sono) alcuni colleghi (o presunti tali…) sostenevano che scrivendo fosse del tutto inutile distinguere graficamente le forme omografe (come dà/da) “perché tanto, quando parliamo, le pronunciamo tutte allo stesso modo, e, quando scriviamo, il contesto ci aiuta”. E allora, tanto vale, dicevano, accettarle, seppur sbagliate, anche dagli studenti. Già allora il “prendattismo” di molti linguisti (soprattutto accademici) avanzava inesorabile.
Per questo modo di pensare non ho proprio parole: anzi, non ho proprio accenti…
2 commenti su “Raddrizziamoci con la nostra lingua / VII – Rubrica mensile di Dario Pasero”
1) Il simpatico accenno al racconto di Campanile fa venir voglia di leggerlo, e di leggere l’intero libro. E’ reperibile? E’ ancora in commercio?
2) Che è esattamente quel “prendattismo”?
L’edizione che possiedo io è della BUR e può darsi che esista ancora in commercio. A proposito del “prendattismo”, l’ho spiegato nel mio intervento di luglio: definisco così l’atteggiamento di molti intellettuali e insegnanti che, di fronte agli errori, invece di correggerli, si limitano al massimo a segnalarli, perché bisogna “prendere atto” che la lingua si evolve e quindi non esistono “errori” ma cambiamenti (in genere in peggio: aggiungo io…)