Uno splendido ritratto femminile che ci fa riflettere sull’importanza della preghiera umile e costante
di Carla D’Agostino Ungaretti
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“O mulier, magna est fides tua! Fiat tibi, sicut vis” (Mt 15, 28).
“Propter hunc sermonem, vade; exiit daemonium de filia tua” (Mc 7, 29).
“Magnificat anima mea Dominum … / quia respexit humilitatem ancillae suae …/ et exaltavit umiles …” (Lc 1, 46 – 52).
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Un paio di mesi fa ho dedicato una riflessione a un bellissimo ritratto femminile dipinto da S. Luca nel suo Vangelo: quello della peccatrice pentita che, incontrando Gesù, incontra anche la redenzione dalla vita sciagurata che aveva condotto fino a quel momento e la salvezza. In questi ultimi giorni, rileggendo i Vangeli secondo Matteo e Marco, ho notato che anche essi sono stati capaci di delineare a tutto tondo, con sapienza e realismo, un bellissimo ritratto femminile in un episodio che merita di essere commentato per la finezza della descrizione, per il collaterale significato sociale e per la psicologia della donna, ma anche per quella di Gesù perché Lui, oltre ad essere vero Dio, era anche vero uomo dall’animo pieno di sentimenti ed emozioni tipicamente umani. Da ultimo, ma non meno importante, questo episodio in cui la donna è protagonista insieme al Maestro mi suscita un interrogativo che merita anch’esso di essere meditato: è possibile indurre Dio a cambiare idea?
Ad orecchie musulmane sicuramente questa domanda suonerebbe blasfema perché in contrasto con la totale sottomissione che Allah impone ai suoi fedeli e forse, secondo il Corano, meriterei la lapidazione. Invece, se leggiamo attentamente la Bibbia, scopriamo che Dio, a differenza di Allah, ama talmente l’uomo, gli è talmente vicino, prende talmente sul serio il suo pensiero e le sue opinioni – quando i pensieri e le opinioni dell’uomo rivelano fiducia nella Parola di Lui e amore per gli altri uomini – da arrivare anche ad accontentarlo, modificando il Suo precedente proposito e aprendo nuove strade al cammino di salvezza.
E’ la conclusione cui sono arrivata riflettendo sul commovente episodio al quale mi riferisco, riportato dagli Evangelisti Matteo e Marco, quello della donna straniera ad Israele che ha la fortuna di incontrare il Cristo. Questo episodio mi ha fatto tornare indietro col pensiero ad alcuni analoghi passi dell’Antico Testamento che vorrei ricordare per primi perché mi sembra che confermino l’opinione che ho appena espresso, perciò inizierò con un preambolo per arrivare poi alla meta che mi sono prefissa.
Cessato il Diluvio Universale, Noè – uomo giusto che “aveva trovato grazia agli occhi del Signore” (Gen 6, 5 – 8) – Lo ringrazia offrendoGli in olocausto gli animali salvati dalla distruzione. Dio gradisce l’offerta e promette: “Non maledirò più il suolo a causa dell’uomo, perché l’istinto del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza, né colpirò più ogni essere vivente come ho fatto”. (Gen 8, 21).
Nell’Esodo (32, 7 – 14) l’Autore biblico narra che l’ira del Signore si accese contro il popolo di Israele che Egli voleva distruggere perché, approfittando dell’assenza di Mosè, aveva forgiato un vitello d’oro al quale offriva sacrifici adorandolo come sua divinità. Nel dialogo di Dio con Mosè, che vuole dissuadere il Signore da quel proposito, la figura del Legislatore giganteggia come il Grande Intercessore, prefigurando l’immagine del Cristo. Mosè rammenta al Signore di essere stato Lui a far uscire il popolo dal paese d’Egitto “con grande forza e con mano potente”. Si direbbe quasi che egli faccia riflettere Dio quando Gli dice: “Perché dovranno dire gli Egiziani: Con malizia li ha fatti uscire per farli perire tra le montagne e farli sparire dalla terra? Desisti dall’ardore della tua ira e abbandona il proposito di far del male al tuo popolo”. Indubbiamente Mosè sfodera un gran faccia di bronzo quando ricorda al Signore che era stato Lui stesso a giurare “per Se stesso” ad Abramo, a Isacco, a Israele di rendere la loro posterità numerosa come le stelle del cielo e di darle la terra che essa possederà per sempre. Mosè è mosso dal grande amore che nutre per i suoi fratelli e da un’immensa fiducia nella Parola di Dio; perciò, volgendola a suo favore, egli finisce (oserei dire) per utilizzare Dio contro Dio. E così, “il Signore abbandonò il proposito di nuocere al suo popolo”.
A dire la verità, in diversi passaggi della storia biblica l’antropomorfismo usato dall’Autore per descrivere l’Eterno è enorme, specie quando Dio si domanda se sia stata davvero una buona idea quella di creare l’uomo. C’era stato, per esempio, un analogo precedente al tempo di Abramo, anche se le conseguenze non erano state altrettanto confortanti a causa della persistente malvagità degli uomini. (Gen 18). Dopo l’episodio della Torre di Babele, il peccato originale aveva già abbondantemente prodotto i suoi effetti nefasti sulla terra e ancora una volta gli uomini erano diventati cattivi. Le città di Sodoma e Gomorra avevano deviato dalla legge di Dio e perciò Egli aveva deciso di punirle distruggendole, nonostante avesse promesso a Noè di non fare più strage di alcuna creatura vivente. Ma prima dell’intervento di Dio, Abramo – dimostrando una faccia tosta pari, se non superiore, a quella di Mosè – si mette a discutere con Lui per convincerLo a non colpire l’innocente insieme al colpevole e riesce nel suo intento, perché Dio acconsente a risparmiare la città se in essa si troveranno almeno dieci innocenti giusti. Ma il Male ormai era talmente dilagato che non si trovarono in esse nemmeno dieci giusti e le due città furono distrutte[1].
Tutt’altro clima si respira nei Vangeli e finalmente, dopo questo lungo preambolo, eccomi arrivata all’episodio sul quale voglio riflettere. Qualcosa di analogo si verifica molti secoli dopo, anche se in un contesto diverso e legato non ad una punizione divina, ma ad un miracolo che Gesù sembra restio a compiere, così come lo era stato in occasione delle nozze di Cana, ma questa volta per motivi diversi. L’episodio è riferito sia da Matteo (15, 21 – 28) che da Marco (7, 24 – 30) e accade fuori della Palestina, nel territorio fenicio di Tiro e Sidone, durante la seconda emigrazione di Gesù (dopo quella verso l’Egitto avvenuta nell’infanzia) causata forse, anche questa come la prima, da motivi di sicurezza. Per questa ragione Gesù, “entrato in una casa, voleva che nessuno lo sapesse, ma non poté restare nascosto”. (Mc 7, 24).
Infatti Gli si presenta subito una donna, che Matteo, il quale scrive il suo Vangelo per gli Ebrei, definisce “cananea”, perché questo era l’attributo con il quale il popolo di Israele designava gli abitanti di quella regione; invece Marco, che scrive per i Romani, la definisce “greca, di origine siro – fenicia”. La precisazione della nazionalità è importante e più avanti ne dirò il motivo. La donna è una straniera per Israele sia etnicamente che religiosamente e la fama di Gesù, se non di Messia, perlomeno di grande taumaturgo e di uomo profondamente buono, ha già oltrepassato i confini della Palestina. La sconosciuta Gli va incontro, si getta ai Suoi piedi e Lo interpella con decisione: “Pietà di me, Signore, Figlio di Davide. Mia figlia è crudelmente tormentata da un demonio” (Mt, 15, 22). La prima sorpresa è che la donna invoca Gesù come se fosse ebrea e soggetta alla legge, ma Lui non la degna di una risposta.
La povera madre non demorde e a questo punto sono gli stessi discepoli (in verità non molto caritatevoli) che chiedono a Gesù di darle retta per levarsi una buona volta di torno quell’intrusa insistente e finalmente Lui si decide a rispondere, sia pure un po’ ruvidamente: “Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele”. Ma la donna insiste: “Signore aiutami!”. Non è la stessa invocazione che noi ogni giorno rivolgiamo a Dio? Può stupire la fermezza (ma poi capiremo il perché) con cui Gesù rifiuta di accontentarla manifestando preferenza per i Suoi connazionali: “Lascia prima che si sfamino i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini”.(Mc 7, 27). Gesù usa il diminutivo “cagnolini” per attenuare il termine dispregiativo di cui si servivano i Giudei per designare i pagani. Infatti, nel racconto parallelo di Matteo (15, 26) il rifiuto è, per certi versi, ancora più drastico perché Gesù non dice perché si rifiuta di spiegare alla straniera che i figli meritano di essere sfamati per primi, come invece fa secondo Marco.
L’indifferenza di Gesù non scoraggia la donna e la sua risposta mi stupisce per la seconda volta perché, dopo averlo chiamato Signore e Figlio di Davide, ella adopera le stesse parole e lo stesso esempio fatto da Lui per rivolgerlo a suo favore: “E’ vero, Signore … ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni” (Mt 15, 27). Con tenacia e profonda umiltà, ella riconosce la propria inferiorità rispetto al Popolo eletto, al quale non pretende affatto di essere assimilata: le bastano le briciole. Allora la sua fede è premiata e Gesù le risponde in tutt’altro modo comunicando alla poveretta, non già l’intenzione di operare il miracolo, ma che esso è già avvenuto: la bambina è già guarita e così la troverà sua madre al ritorno a casa. Riporta Matteo: “O donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri”. Riferisce Marco: “Per questa tua parola, va’. Il demonio è uscito da tua figlia”.
La rapidità della risposta, così come gli Evangelisti l’hanno riferita e il miracolo già compiuto prima di essere annunciato, fanno pensare che Gesù abbia voluto sondare l’animo della donna per vedere se c’era la Fede. E la Fede c’era davvero: quella sconosciuta pagana, ha saputo rispettosamente discutere con Lui come avrebbe potuto fare nel Tempio un Dottore della Legge. Quel dialogo è commovente e di straordinaria bellezza: con la sua apparente ruvidezza, Gesù ha conseguito lo scopo di rafforzare la fede della straniera fino a farle meritare uno dei più alti elogi mai usciti dalla Sua bocca: “Davvero grande è la tua fede!”. Forse è proprio questa l’intenzione di Dio quando gli chiediamo insistentemente una grazia e Lui sembra non ascoltarci.
Dicevo poc’anzi che entrambi gli Evangelisti ritengono importante mettere in risalto la nazionalità della donna. Infatti l’episodio della donna cananea o siro – fenicia che con grande astuzia e finezza induce Gesù a cambiare idea, segna una svolta verso l’apertura di Lui al mondo dei gentili. Nella regione pagana di Tiro e Sidone Gesù, vero Ebreo, supera un barriera sociale, geografica e religiosa: destinatarie del Suo annuncio di salvezza non sono solo “le pecore perdute della casa di Israele” ma tutti gli uomini e tutte le donne del mondo, in qualunque paese vivano e a qualunque nazione appartengano. E’ stato il Padre che, nel Suo amore per tutte le Sue creature, ha ispirato il Figlio, vero Uomo oltre che vero Dio, a dirigere la Sua missione non più verso il solo Popolo di Israele, ma verso tutta l’umanità ferita dal peccato originale e lo ha fatto servendosi di un’umile donna, straniera, pagana e sconosciuta al mondo dei potenti. La condizione indispensabile non è più la nascita, ma la Fede e attraverso la Fede si perviene all’uguaglianza; non ci sono più cagnolini ma solo figli. Il mio pensiero corre al “Magnificat” intonato dalla Madre di Gesù: Dio deve essere lodato e glorificato perché, servendosi della donna cananea, “ha innalzato gli umili” i quali, se non contano nulla agli occhi del mondo, sono invece molto importanti agli occhi di Dio e ben meritevoli di essere ascoltati.
Quella prospettiva universale sarà richiamata nel Discorso Escatologico in cui Gesù esprimerà la necessità che il Vangelo sia annunciato a tutte le genti (Mc 13, 10) fino alla rivelazione del Golgota, quando sarà il centurione romano e pagano a riconoscere in quell’umiliato Crocifisso il Figlio di Dio (Mc 15, 39) e sarà gridata da S.Paolo: “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Gesù Cristo”. (Gal 3, 28).
Quale insegnamento dobbiamo trarre da questo meraviglioso episodio evangelico che ha per protagonista un’umile donna? Naturalmente non che si possa costringere Dio a cambiare idea forzandone la volontà – perché questo era quello che credevano di fare i pagani invocando le loro divinità – ma comprendere che il nostro rapporto con Lui deve essere quello della preghiera costante, diuturna, instancabile, abbandonandoci però altrettanto costantemente alla Sua volontà. Ogni nostro gesto, anche il più umanamente insignificante, può diventare preghiera e compiersi, come dice S. Paolo, nel nome di Cristo (Col 3, 17) perciò, affidandoci comunque alla Sua volontà, dobbiamo insistere sempre come fece la donna cananea, soprattutto quando Dio sembra non sentirci perché noi, sbagliando, Lo crediamo lontano. Solo Lui sa cosa sia meglio per noi.
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[1] E’ noto che il peccato legato al nome di Sodoma, cioè l’omosessualità, era particolarmente aborrito dagli antichi Ebrei perché la procreazione di figli era per loro un sacro dovere, in quanto sostegno alla speranza di avere una discendenza numerosa come le stelle del cielo. Di ciò si trova conferma in vari passi sia dell’Antico che del Nuovo Testamento anche se molti (buonisti) biblisti contemporanei ritengono che il tema dell’omosessualità non sia il soggetto principale della storia di Sodoma.
3 commenti su “Gesù e la donna cananea – di Carla D’Agostino Ungaretti”
Anche le parabole della vedova importuna (Lc 18,1) e dell’amico importuno (Lc 11,5) mi pare possano indurre alla stessa considerazione. Forse davvero la nostra preghiera può far cambiare idea a Dio. Ed in tempi come questi in cui, talvolta, si può avere l’impressione che Egli abbia abbandonato la Chiesa nelle mani di empi, lo trovo un pensiero confortante.
Giusto Paolo, perciò non stanchiamoci mai di pregare! Col cuore, incessantemente, anche mentre svolgiamo le nostre attività quotidiane. Soprattutto oggi, in questo mondo perduto a Dio.
Nella parte conclusiva di questo bell’articolo viene messa in evidenza la differenza dell’atteggiamento cristiano nella invocazione verso Dio, rispetto a quello tenuto dai pagani. A questo proposito, credo che un altro importante elemento introdotto dal Cristianesimo, quanto all’atteggiamento da tenere nell’invocazione verso il Signore, sia assimilabile a quello del figlio (siamo figli adottivi in virtù dei meriti di Cristo) che si rivolge al Padre (o alla Madre, a Maria). Nella mia personale esperienza di Fede, cerco di tenerlo ben presente (le tribolazioni, personalmente, non mi mancano…), per non scadere appunto nell’atteggiamento “pagano” di invocazione subordinata alla necessità (o, peggio, ai risultati della “prestazione” divina). Un figlio, anche se apparentemente non ascoltato, ha pur sempre una relazione speciale, indissolubile, con il Padre, basata sulla certezza del legame, dell’appartenenza, dell’Amore. Questa è cosa differente dalla volatilità o volubilità di un rapporto, in fondo, tra “estranei”, come quello del mondo pagano verso gli dei.