di Carla D’Agostino Ungaretti
Da qualche tempo si parla della famiglia molto più frequentemente di quanto non si sia mai parlato in passato. Negli anni ’70 del XX secolo i contestatori più accaniti, imbevuti di dottrine freudiane più o meno ben comprese, volevano “abbatterla a colpi di piccone” e, se siamo intellettualmente onesti, dobbiamo riconoscere che in alcuni casi non avevano del tutto torto: certi tristissimi episodi di femminicidio e di violenza familiare, di cui leggiamo ogni giorno sulle cronache, sono lì a dimostrarlo. Mi vengono in mente al riguardo i miti greci di Medea – che uccise i suoi figli per vendicarsi dell’adulterio di suo marito Giasone – e di Crono, che addirittura divorava i suoi stessi figli man mano che nascevano per timore di essere, un giorno, spodestato da loro, finché sua moglie Rea, più astuta di lui e stanca di dover assecondare i crudeli gusti di suo marito, riuscì a salvare il piccolo Zeus presentando allo snaturato padre, invece del neonato, un fagotto nel quale aveva avvolto una grossa pietra che lo sciocco dio del Tempo si affrettò a ingoiare credendolo l’ultimo nato. In questo modo Zeus si salvò, spodestò suo padre (come previsto) e riuscì a diventare il Signore dell’Olimpo e il padre di tutti gli altri dèi. Belle famiglie davvero! Ma purtroppo una molecola di verità c’era e ce lo confermano ogni giorno i moderni mass-media che ci tengono scrupolosamente informati su tutte le turpitudini e le tragedie che spesso si consumano nell’ambito familiare!
Altri contestatori sessantottini volevano “aprire” la famiglia ad esperienze sessuali diverse cancellando l’obbligo di fedeltà tra i coniugi; altri ancora volevano creare promiscuità tra famiglie diverse facendole vivere tutte nelle “comuni”, in cui non si doveva più sapere chi era il figlio e chi il padre o la madre di chi. Ma queste esperienze furono ben presto abbandonate, perché si vide che lasciavano il tempo che avevano trovato o, in alcuni casi, creavano conflitti molto più gravi di quelli che credevano di cancellare. E la famiglia tornò ad essere sostanzialmente quella che era prima dello tzunami sessantottino, perché l’attacco vero (e molto più pericoloso) sarebbe arrivato trent’anni dopo, nel primo decennio del XXI secolo, con il dilagare della filosofia individualista e dei suoi nefasti prodotti, come la teoria del gender e le pretese matrimoniali e genitoriali degli omosessuali, avanzate (guardate un po’!…) proprio da coloro che 40 anni fa volevano cancellare la famiglia stessa..
Ma che cos’è questa famiglia, visto che pur conoscendola da millenni, ora si sente il bisogno di ridefinirla? La civiltà greca, inventando i miti di Medea e di Crono, aveva capito che essa può essere, in alcuni casi, nevrotizzante e distruttiva, nondimeno era sicura (dall’insegnamento di Aristotele) che essa fosse il nucleo originario dal quale poi sono scaturiti l’organizzazione della comunità umana e lo Stato, perciò una funzione positiva doveva pur averla. Nel diritto romano più evoluto, la “familia” rappresentò una forte unità aggregativa di persone (moglie, figli, consanguinei vari, parenti, schiavi) legate tra di loro da interessi sia affettivi che economici, soggette alla potestas del Pater che aveva su di loro potere di vita e di morte. Con l’avvento del Cristianesimo lo “ius vitae necisque” del Pater familias ovviamente tramontò, ma rimase il concetto di unione, compattezza, rispetto, solidarietà reciproca – da sempre conosciuti perché facenti parte del diritto naturale ed esaltati da S. Paolo nei capitoli 5° e 6° della lettera agli Efesini – quali caratteristiche fondamentali del rapporto tra i coniugi e tra genitori e figli. E tale è rimasta la concezione della famiglia per quasi due millenni.
Secondo Wikipedia la famiglia è “l’istituzione fondamentale in ogni società umana, fondata sul matrimonio o sulla convivenza, con i caratteri della esclusività, della stabilità e della responsabilità, attraverso la quale la società stessa si riproduce e perpetua, sia sul piano biologico, sia su quello culturale”. Per l’Enciclopedia del Cristianesimo, invece, è “una modalità socialmente e culturalmente determinata di vivere la comunità coniugale di un uomo e una donna”[1], ma oggi non si è più tanto sicuri che queste definizioni, sostanzialmente concordanti, siano ancora valide, perché la famiglia sembra attaccata da tutte le parti, non tanto per sopprimerla, quanto per dare ad essa una fisionomia diversa.
Appena 50 anni fa non sarebbe stato necessario, ma i cattolici oggi (e i cattolici “bambini” soprattutto) si sentono sfidati a rendere ragione al “mondo” della fede e della speranza che essi nutrono sul valore eterno di questa istituzione, e vogliono dimostrare che la famiglia “normale”, fondata sul matrimonio eterosessuale, monogamico, indissolubile, aperto alla procreazione e all’educazione dei figli è oggi più necessaria che mai alla coesione e allo sviluppo della società. In fondo sappiamo tutti che cos’è una famiglia, o perché l’abbiamo e ci piace, o perché l’abbiamo ma la vorremmo diversa, o perché non l’abbiamo più, o perché non l’abbiamo mai avuta e vorremmo averla; come si vede tutto riposa sull’inestinguibile desiderio umano di amare qualcuno, di esserne riamati e di vedere riconosciuto questo amore a livello sociale.
Ma a questo punto cominciano i guai perché, se oggi quasi più nessuno pretende di “abbattere la famiglia a colpi di piccone“, nondimeno quasi tutti vogliono allargarne il significato a qualsiasi tipo di legame affettivo, facendo coincidere l’idea di famiglia con la convivenza libera e spontanea di individui che dicono di amarsi. Ecco allora la famiglia di fatto, le unioni omosessuali, la famiglia poligamica o poliamorosa nella quale, con il consenso del partner, ciascuno è libero di vivere relazioni sessuali con più persone. E i figli? A quelli non si pensa, perché la discussione sulla famiglia si riduce esclusivamente a quello sulla coppia, sintomo (anche questo) dell’egoismo di cui trasuda la nostra civiltà.
La famiglia è ancora considerata il luogo privilegiato degli affetti privati, a condizione però che questi non pretendano di riacquistare la rilevanza e il peso sociali goduti in passato, virtù che la famiglia moderna ha perduto, non tanto per sua colpa, quanto per colpa della modernizzazione che ha deviato il senso e la funzione sociale della famiglia, perché “nel mondo della tecnologia, dove tutto apparentemente funziona, sono proprio le relazioni interpersonali a non funzionare“[2]. Infatti, dai dati forniti ogni anno dall’Istituto Nazionale di Statistica, si vede come il modello classico di famiglia, e cioè la coppia coniugata con figli, perde continuamente terreno di fronte alle diverse realtà familiari che si trova davanti, realtà (anche queste, come quella della crisi del matrimonio) che purtroppo non si possono ignorare: coppie senza figli, single, famiglie con un solo genitore e coppie di fatto.
Un matrimonio su quattro dura in media 15 anni, le separazioni sono raddoppiate, le libere unioni quadruplicate, il tasso di natalità dell’Italia è a saldo negativo della crescita naturale e bisogna confidare sulla prolificità degli immigrati per fronteggiare questa tendenza, le madri italiane sono notoriamente le più vecchie d’Europa e, in media, mettono al mondo un solo figlio. Non tutte queste situazioni sono dovute all’egoismo dei protagonisti: molte rivelano sofferenze nascoste, dovute a una sorta di patologia della famiglia di cui bisognerebbe tener conto molto di più di quanto non si faccia ora.
Il pensiero marxista, e poi quello liberal – socialista, hanno accusato la famiglia di essere fonte di ingiustizie e di discriminazioni sociali tra i sessi, necessaria quando mancava un adeguato Stato assistenziale, ma ora superflua. Secondo altri, la famiglia sarebbe stata necessaria in passato per favorire l’ordine sociale autoritario che oggi, in regime di democrazia, non è più giustificato. Altri, infine, sostengono che il matrimonio è solo una formalità e, in caso di divorzio, richiederebbe spese ingenti che si potrebbero evitare con la libera convivenza; questa opinione non dovrebbe meritare considerazione da parte di un’opinione pubblica responsabile e dotata di buon senso, perché palesemente meschina e riduttiva del significato del matrimonio, eppure è molto diffusa rivelandosi anch’essa un sintomo del relativistico degrado morale che la nostra epoca sta attraversando.
Alla base di questi giudizi sulla famiglia c’è la convinzione del nostro mondo individualista che l’essere umano possa pienamente realizzarsi solo se libero da impegni e doveri familiari, dimenticando che è proprio la piena assunzione di responsabilità verso tutti gli eventi della vita – tra i quali la formazione di una famiglia è uno dei più importanti – che favorisce la maturazione umana. Del resto, se è vero che il numero dei matrimoni va costantemente diminuendo e che invece aumentano le forme familiari alternative, è pur vero che queste ultime non risultano meno gravose, o rischiose, o meno umanamente e socialmente costose di quelle normali, perché da studi fatti in Francia è emerso che le coppie di fatto sono più fragili ed instabili di quelle sposate.
Che il matrimonio conferisca alla vita di coppia anche un valore aggiunto risulta dagli effetti della sua rottura: il divorzio – provocando il venir meno della gestione comunitaria delle finanze familiari – comporta quasi sempre la caduta ad uno stato di quasi povertà per la donna, ma ora sempre più spesso anche per l’uomo, costretto a corrispondere all’ex moglie assegni elevati per mantenerla nel tenore di vita cui ella era abituata. Per quanto riguarda poi i figli dei divorziati, sono note da tempo le conseguenze negative di ordine psicologico ed economico. Ora, è noto che anche le famiglie regolari sono spesso colpite da disagi, malesseri, difficoltà di varia natura, ma esse hanno maggiori capacità di recupero, proprio per la solidarietà che le lega. Sono evidenti le conseguenze positive di un matrimonio che funziona: bastano il buon senso e l’esperienza quotidiana per dimostrare che per un bambino la migliore condizione di vita e di crescita è quella di trovarsi in una famiglia con due genitori che si amano.
La famiglia non è una risorsa sempre e comunque: anche in essa, purtroppo, possono verificarsi violenze, abusi e cattive condotte spesso motivati, da parte dell’uomo, da un malinteso senso di proprietà e, da parte della donna, da un altrettanto malinteso senso di frustrazione e insofferenza per i doveri imposti dalla realtà, non sempre soddisfacente, nella quale si trova calata; è necessario, quindi, che i membri della famiglia sviluppino un modo di pensare tipicamente familiare e non individualistico, indirizzando la propria riflessione sui valori coniugali (se il problema riguarda la coppia) o sui valori relazionali (se riguarda il rapporto genitori – figli) mettendo in secondo piano i propri vantaggi o svantaggi individuali, che pure hanno la loro importanza. Ma tutto ciò non è facile da realizzare in un’epoca come la nostra, che ha abbandonato la famiglia a se stessa favorendo il proliferare di varie forme, dette anch’esse familiari, assimilate a qualunque relazione di cura e di affetto reciproco. Oggi la famiglia non è più considerata come una risorsa e un bene relazionale per le persone e per la società, perché il trionfo dell’individualistico e relativistico IO non lo consente.
In questo scenario sociale che ho solo abbozzato, perché tutti lo conosciamo benissimo quale causa frequente di profonda infelicità esistenziale, quali possono essere le proposte e i contributi dei cattolici “bambini”? Null’altro che presentare e proporre il modello eterno della famiglia cristiana, perché essa è “diversa”.
Naturalmente lo sfondo è comune a tutte le famiglie, cristiane e non: esse sono composte da individui, ciascuno dei quali rappresenta un unicum, perché ciascuno ha il suo carattere, la sua storia personale, i suoi pregi, i suoi difetti, le sue debolezze e i suoi punti di forza. La famiglia, cristiana e non, è una specie di “palestra” della vita sociale che obbliga i suoi membri a una sorta di “ginnastica” nel rapportarsi con l’altro che è vicino. Di lui si sperimentano ogni giorno la generosità e l’egoismo, la collaborazione e l’indifferenza, il dolore e la gioia, la malattia e la salute, la prosperità e la povertà. Ma la famiglia cristiana diventa diversa se i suoi componenti accettano l’incontro con Cristo, il quale non si stanca mai di bussare alla nostra porta per proporci di accoglierLo in una vera e propria coabitazione con Lui. Del resto, quando Dio creò Adamo ed Eva per dominare e riempire la terra, non creò la prima famiglia? E quando si incarnò non decise di nascere in una famiglia come tutte le altre, sperimentandone gioie e dolori e vivendo sottomesso ai suoi genitori come tutti i figli? Quindi Dio non chiede di meglio che entrare nelle nostre famiglie effondendoci, col Sacramento del Matrimonio la Sua Grazia santificante la quale ha un frutto straordinario: l’Amore che, a sua volta, produce il Perdono.
Se tutte le famiglie accogliessero veramente Cristo nella loro vita quotidiana, esse sperimenterebbero l’immenso potere del Perdono reciproco e molti degli inconvenienti, dei malintesi, dei dissapori cui ho accennato poc’anzi svanirebbero; allora non si parlerebbe più di famiglie malate né di separazioni. Ma, come ha detto Papa Francesco, non è Dio che si stanca di offrire il Suo perdono; sono gli uomini che si stancano di chiederglielo.
[1] Istituto Geografico De Agostini, 1997.
[2] Cfr. P. Donati, Famiglia risorsa della società, Bologna, Il Mulino 2012.