di Patrizia Fermani
Oggi molti si chiedono, di fronte alla demolizione che pare inarrestabile dei fondamenti etici della società, in che misura sia venuto a mancare quell’argine naturale offerto per secoli dalla Chiesa. Infatti, fino agli anni sessanta i suoi insegnamenti in tema di morale, e la speculare idea di peccato, erano rimasti indiscussi e combaciavano con il sentire comune indipendentemente dalla intensità della vita religiosa individuale.
Ma quando la ventata libertaria prese a rendere incerti i profili dell’etica che la legislazione si accingeva a ridisegnare, anche i contenuti della morale cattolica hanno cominciato ad appannarsi e a perdere univocità. Il dettato della Chiesa è diventato meno stringente man mano che si faceva strada la versione assolutoria e generalizzata del comandamento dell’amore a tutti i costi, privo cioè di ogni criterio normativo. Intanto lo stesso soggetto Chiesa si è andata frantumando al proprio interno in realtà ormai non solo differenziate ma addirittura contrapposte e ad avere voci discordanti: ad un magistero pontificio spesso illuminante e forte, ma inascoltato e svuotato della propria forza propositiva perché privo della volontà di attuarsi autoritativamente, si è sovrapposta spesso la Chiesa delle variegate conferenze episcopali, delle burocrazie diocesane e dei seminari, delle facoltà teologiche e delle parrocchie, tutti lasciati più o meno liberi di dare vita ad un cattolicesimo autogestito, spesso sedotto da marxismo e protestantesimo, quasi sempre dominato dal complesso antiromano, e comunque ansioso di adeguarsi al tempo nuovo.
Questa Chiesa, come diceva Amerio, “per volere prestare attenzione al mondo secondo la raccomandazione del Vaticano II, ha dato vita a quel cristianesimo secondario che prende a modello il mondo e le sue istituzioni piuttosto di fornire un proprio modello al mondo e facendo propria quell’idea di progresso che poco ha a che fare con la salvezza cristiana”.
Ecco dunque che di fronte alla pressione ossessivamente concentrata sulle questioni etiche e bioetiche dal nichilismo progressista, questa Chiesa ha seguito la propria nuova vocazione mondana rinunciando all’onere di orientare idee e comportamenti e attestandosi nelle retrovie della politica.
Ma di una possibile connessione tra la crisi etica e il venire meno del ruolo di guida della Chiesa, non si mostra preoccupato il cardinale Ruini; anzi, a leggere il suo lungo intervento all’assemblea di Magna Charta e certe sue affermazioni contenute in una recente intervista con Ezio Mauro, sembra compiaciuto di una Chiesa che si sublima in sapienti strategie politiche, ma che non crede più indispensabile guidare il proprio gregge anche contro un mondo avverso. Dato il suo prestigio personale e l’importanza del ruolo ricoperto per tanti anni, vale la pena di tornare sui punti salienti della lezione del cardinale.
Egli muove dal precetto evangelico che, pur delimitando lo spazio di Cesare rispetto a quello di Dio, non esclude per questo la rilevanza pubblica della religione cristiana, nata dalla predicazione pubblica di Cristo, dal suo processo e dalla condanna da lui subita pubblicamente. Anzi, il cristianesimo, in quanto religione del logos, della libertà, dell’amore e della persona può come nessun altro entrare in dialogo col mondo moderno, e le posizioni che si ispirano ad esso non sono inevitabilmente prigioniere del passato, ma capaci di aprirsi al futuro in virtù del proprio originario principio di libertà, ridefinito dal Concilio come libertà religiosa. Non a caso la moderna civiltà liberale, sull’esempio delle esperienze costituzionali americane, a quella stessa libertà religiosa ha riconosciuto il rango di diritto fondamentale dell’uomo. Più in particolare, dice Ruini, bisogna considerare che il relativismo e il determinismo naturalistico hanno indotto nelle società occidentali uno “spaesamento e un’inquietudine” legate alla perdita delle ragioni della vita che solo il cristianesimo è in grado di restituire, sia allo Stato sia al singolo uomo. Infatti poiché nessuna società può sussistere senza dotarsi di norme che valgano per tutti i suoi membri, e poiché in una società libera ciò che conta è che queste vengano stabilite attraverso il libero gioco democratico, il cristianesimo può dare un grande contributo per il superamento del grave travaglio esistenziale della società occidentale entrando con i propri esponenti nella formazione di quelle norme.
In questa prospettiva, per venire alle attuali questioni etiche, sia quelli che vogliono modificare le concezioni antropologiche ed etiche della società, sia quelli che le vogliono conservare possono concorrere a stabilire le regole necessarie. Queste ovviamente non potranno determinare ciò che è vero o falso e ciò che è giusto o ingiusto. Allora, chi per motivi di coscienza ritenga di non potersi adeguare alle norme così formate, potrà ricorrere alla obiezione di coscienza e dovrà essere pronto a subirne le eventuali conseguenze come è sempre stato testimoniato dai cristiani a cominciare dai primi martiri. Avverte infine il cardinale che, se le posizioni contrapposte possono ricondursi grosso modo alla prevalenza della libertà da un lato e della verità dall’altro, compito del nostro tempo è trovare tra esse una sintesi comunque proficua anche se difficile. Un esempio significativo di questa sintesi si è avuto evidentemente, per il cardinale, nel caso della approvazione delle leggi sul divorzio e sull’aborto. Infatti, nel colloquio con Ezio Mauro, ha tenuto a ribadire che la Chiesa su questi temi “non ha mai cercato e non deve cercare lo scontro, ma si è appellata alla coscienza personale, perché l’uomo non ha solo una libertà esteriore, bensì una, ed è quella più importante, interiore”.
Non possiamo nascondere che tutto il discorso di Ruini suscita non poche perplessità.
La prima riguarda l’eccessivo entusiasmo col quale viene attribuita al “gioco democratico” – forse per affinità con quel “dialogo” cui la Chiesa di ogni ordine e grado attribuisce poteri miracolosi – la capacità di produrre norme senz’altro idonee a regolare proficuamente la vita della società attraverso il bilanciamento dei diversi punti di vista . Eppure, se si passa dal piano della teoria a quello della realtà contemporanea, dovrebbe apparire evidente che proprio quel supposto bilanciamento tra le diverse opinioni in campo risulta totalmente falsato dalla artificiosa creazione di idee virtuali, disancorate dalla verità delle cose, imposte attraverso meccanismi mediatici che si muovono indisturbati in un deserto educativo e culturale.
Ma il problema della capacità della democrazia formale di soddisfare le esigenze autentiche e profonde della società, diventa cruciale quando lo si estende al campo delicatissimo delle questioni etiche. Oggi si verifica, sui ben noti modelli totalitari, una nuova invasione dello Stato sedicente democratico nello spazio dei valori pregiuridici fondamentali posti dalla legge naturale, attraverso interventi normativi arbitrari perché non rispondenti ad esigenze reali della collettività, soggetti alle variazioni della politica, alle sue contrattazioni e compromessi e capaci per questo di distruggere inesorabilmente le strutture etiche della società: qui il famoso gioco democratico diventa particolarmente pericoloso. Non per nulla Benedetto XVI ha fissato potentemente nei “principi non negoziabili” il limite invalicabile per ogni intervento politico e per ogni scelta guidata da retta ragione. Ed è proprio qui che va richiamato a buon diritto il precetto evangelico sulla separazione tra le cose di Cesare e le cose di Dio, perché sulle questioni che coinvolgono i fondamenti dell’esistenza umana, è Cesare che pretende oggi di invadere la sfera di Dio, e se l’etica non precede lo Stato ma è un suo prodotto, la storia non ha mai mancato di mostrare quali siano gli esiti di una tale sostituzione.
Tuttavia la cosa sembra sfuggire alla sensibilità del cardinale. Come abbiamo visto, egli ha ben presente che la politica e le leggi dello Stato lasciano irrisolto il problema del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male, ma ad evitare lo scontro con Cesare pensa che si possa salvare capra e cavoli esiliando quel problema nella coscienza individuale. Così facendo però, il piano del rapporto col potere politico viene sovrapposto a quello del proprio credo religioso. La Chiesa che abbandona allo stato la definizione dell’etica tradisce la propria stessa vocazione e, di fronte alla aggressione portata alle strutture etiche della società, finisce per ignorare quale sia la propria missione, come questa abbia a che fare con la legge divina e come non sia identificabile con la composizione di una dialettica politica o culturale. Nel campo etico ogni suo intervento deve essere misurato sulla verità cristiana che è misurata sulla legge di Dio. Qui si inserisce il tema, cruciale anch’esso, del rapporto tra la verità e la libertà, sulla quale ultima insiste come abbiamo visto il ragionamento del cardinale, appoggiandosi soprattutto alla discussa dichiarazione conciliare Dignitatis Humanae.
La libertà, per la dottrina cristiana, è condizione per aderire alla fede in quanto capace di garantire la purezza dell’intenzione. Dalla libertà come condizione della fede si è fatta discendere coerentemente il dovere di tolleranza e l’imperativo di non costringere alcuno con la forza a professare la religione cattolica, presupposti che hanno costituito come abbiamo visto la migliore credenziale per rivendicare dal potere politico una adeguata tutela giuridica. Ma da diritto da rivendicare nei confronti dello Stato, la libertà religiosa è rifluita pericolosamente nel pensiero stesso della Chiesa, inoculando con alterne fortune il germe di uno strisciante indifferentismo religioso, anche a dispetto del primo comandamento. Essa si è tradotta paradossalmente, proprio a partire dalla Dignitatis humanae, in un allentamento della certezza che quella cristiana sia l’unica religione vera e che rinnegare tale verità di fede significhi rinnegare la fede nell’unico vero Dio. La dichiarazione conciliare ha esasperato questo slittamento, come ha sviscerato in modo esemplare monsignor Brunero Gherardini, fino al punto non solo di tollerare la compresenza della verità e dell’errore, ma di vedere in essa il mezzo per accreditare il valore assoluto quanto surreale dell’autodeterminazione. Quando Ruini esalta il valore della dialettica democratica, senza porsi il problema della posta in gioco e relegando la difesa dei principi “non negoziabili” nello spazio di una coscienza individuale che assomiglia molto a quella di matrice protestante, sembra proprio adeguarsi a questa riduzione della verità cristiana di cui non si valutano mai abbastanza le conseguenze.
Se la libertà di abbracciare la fede senza costrizioni risponde alla esigenza di misurare la bontà dell’intenzione, questo significa che essa si realizza proprio nella capacità riconosciuta al soggetto di scegliere tra il bene e il male e di assumere il peso dell’errore. Implica la responsabilità, perché senza il dovere di rispondere delle proprie scelte la libertà perde di significato. La libertà è misura della responsabilità perché segna la superiorità dell’essere umano messo in grado di riconoscere la volontà di Dio. Il paradigma della libertà cristiana è quello originario dei progenitori di fronte alla possibilità di raccogliere il frutto proibito: la violazione non è senza conseguenze, il prezzo è la cacciata. Dunque la libertà di Adamo è legata alla sua responsabilità ed è libertà di scegliere tra l’osservanza e la violazione della legge divina, cui seguirà ineluttabile il castigo.
Anche quando si esplica nei confronti del potere politico, cioè sul terreno dei domini umani, la libertà del cristiano porta con sé la obbligazione fondamentale di scegliere la verità che sola darà corpo alla libertà, che la realizza, se è la verità che ci fa liberi. Illuminante come sempre, J.Ratzinger osservava che la parola eleuteria nel greco biblico indica uno status, quello di uomo nel pieno possesso dei propri diritti, la sua appartenenza al popolo di Dio, la sua figliolanza divina.
Tutto questo deve valere a maggiore ragione per la Chiesa, che per la sua missione evangelizzatrice, è comunque destinata ad incidere sugli assetti della società. Dal momento in cui le è stato affidato il compito di pascere il gregge ha assunto una responsabilità che deve onorare con tutta la forza di cui può disporre, perché se si sottrae ad essa viene meno la sua stessa ragione di esistere.