di Giovanni Lugaresi
Uno dei libri più significativi, emblematici, del Novecento, o quanto meno, della prima metà di quel secolo, appare “Un uomo finito” di Giovanni Papini, pubblicato per i tipi della Libreria della Voce nel 1913 (esattamente, la prima edizione che abbiamo davanti porta la data “Gennaio 2013 – Quaderni della Voce raccolti da Giuseppe Prezzolini”), già finito di stampare alla fine del 1912, dopo una non breve gestazione. Lo stesso autore parlò infatti di avere avuto l’idea di quella autobiografia intellettuale addirittura nel 1908 (quando gli nasceva la primogenita Viola) e, in quello stesso anno, averla iniziata.
Sono passati dunque cent’anni, dalla pubblicazione di quel libro al quale hanno fatto riferimento diverse generazioni, ristampato più e più volte da Vallecchi – in questi ultimi decenni da Ponte alle Grazie, da Leonardo da Vinci, e con traduzioni in tutto il mondo, in tante lingue: bulgaro, finlandese, portoghese, russo, svedese, tedesco, inglese, francese, danese, eccetera.
Che cosa rappresentò allora e che cosa può (ancora) rappresentare oggi quella autobiografia intellettuale di uno degli spiriti più vivi, polemici, contraddittori, ma anche uno dei lirici più alti del Novecento?
Rileggendo “Le lettere” di Renato Serra, troviamo questa notazione: “… Abbondante e rumoroso e sfacciato nella sua produzione appare invece Giovanni Papini. Del quale si può parlare quanto si voglia in tutti i sensi, ma una cosa resta per certa, che l’”Uomo finito” è uno dei libri più notevoli dell’ultima stagione letteraria” (e Serra non faceva sconti a nessuno!)…
Che cosa rappresentava (e rappresenta) insomma questo libro, secondo quanto ebbero ad affermare critici e poeti, narratori e storici? La testimonianza di un fallimento, sì, da parte di chi si era creduto un superuomo, aveva percorso tante avventure intellettuali e spirituali, avido di conoscenza,senza peraltro trovare una verità. Era un urlo di dolore, un tentativo di cambiare il mondo, era un’ansia (mania) di grandezza, quel che appare in queste pagine. O per lo meno, voleva esserlo…
Con un sostrato di triste abbandono, come in quell’incipit struggente che ancora, ad oltre mezzo secolo dalla prima lettura, ci prende e ci coinvolge, ci tocca e ci commuove: “Io non sono mai stato bambino. Non ho avuto fanciullezza.
“Calde e bionde giornate di ebbrezza puerile; lunghe serenità dell’innocenza, sorprese della scoperta quotidiana dell’universo; che son mai? Non le conosco o non le rammento. L’ho sapute dai libri, dopo; le indovino, ora, nei ragazzi che vedo; l’ho sentite e provate per la prima volta in me, passati i vent’anni, in qualche attimo felice di armistizio o di abbandono. Fanciullezza è amore, è letizia, è spensieratezza ed io mi vedo nel passato, sempre, separato, triste, meditante.
“Fin da ragazzo mi sono sentito tremendamente solo e diverso – né so il perché…”.
In ultima analisi, questa storia di un’anima assetata di infinito, di verità, che non poteva trovare nelle ideologie e nelle filosofie, rappresenta un grido a Dio per ricevere la grazia, per avere il dono della fede.
Domenico Giuliotti, che nella conversione di Papini qualche parte l’avrebbe poi avuta, annotò che “L’Uomo finito non è soltanto la tragica narrazione d’un seguito di fallimenti eroici; ma la storia esattamente vera d’un’anima religiosa senza Dio che (appunto per quella sua inconsapevole sete di Dio, sempre accresciuta dalla privazione di Dio) è già potenzialmente in Dio…”.
Quella ricerca della Verità della quale si legge nel libro, ricerca instancabile e appassionata, verrà alla fine esaudita. Occorreranno i dolori e le distruzioni della Grande Guerra (quel conflitto che pur Papini aveva invocato dalle pagine di Lacerba), per arrivare alla conversione. E sarà, testimonianza eloquente, la “Storia di Cristo”, ma più ancora, a confermare quel profondo mutamento, saranno gli scritti della Seconda nascita, libro pubblicato postumo da Vallecchi, ideale prosecuzione dell’Uomo finito – soprattutto in quelle pagine rievocative della prima Comunione delle sue due figliole tanto amate. Un nodo alla gola, un desiderio di pianto, a sciogliere i tanti dubbi, i mai cessati perché…
Ecco, allora, che nella esistenza di Papini, si dipana un filo che congiunge “Un uomo finito” alla “Storia di Cristo”, alla “Seconda nascita”. A riprova di una realtà che ci appare oggi più che mai lampante: l’anima religiosa di un uomo, di uno scrittore, che non si stancò mai di cercare, che ebbe e professò la fede, testimoniandola poi, anche, attraverso la prova della malattia, per concludere l’esistenza terrena in una esemplare catarsi.