“FUORI MODA” – un viaggio con Alessandro Gnocchi nel Mondo piccolo di Guareschi/V

Cari amici,

prendiamoci un po’ di tempo per ristorare la nostra anima, il nostro cuore e il nostro cervello. Non permettiamo all’orrore e allo squallore che ci assillano ogni giorno di avere la meglio su di noi. Per questo, nel corso dell’estate vi invito a un viaggio nel Mondo piccolo di Guareschi. Nei secoli scorsi, aristocratici, grandi borghesi e intellettuali compivano un Grand Tour di formazione in Europa che li conduceva inevitabilmente ai piedi della modernità, caduca e miserabile. Noi, in fondo al nostro Petit Tour, avremo gli occhi colmi di ciò che non muore. Fuori moda.

Buon viaggio

Alessandro Gnocchi

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Viaggio a Mondo piccolo – quinto giorno

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Il pieno luglio va benissimo. Come metà novembre, d’altra parte. Bisogna solo decidere se si preferisce viaggiare per la Bassa sotto il sole a picco o attraverso un velo di nebbia. Per il resto, bastano una macchina e una cartina dettagliata su cui si avrà avuto l’accortezza di isolare la fetta di terra giusta: una berlina qualsiasi e una mappa in scala 1:75.000 faranno il loro dovere più che dignitosamente. La zona da esplorare è una specie di triangolo isoscele con il naso puntato all’insù, verso il grande fiume. Alla base ci sono i cinque chilometri che vanno in linea retta da Diolo a Fontanelle, la “villa aprica e sparta” descritta dal notaio Campari, dove è nato Guareschi. Al vertice, cinque chilometri abbondanti più in alto, c’è Ragazzola, frazione di Roccabianca come Fontanelle, patria di Primo Augusto, il papà dello scrittore.

Solo a bordo di una insignificante navicella cittadina è possibile masticare con gusto i pochi avanzi di frase che si riescono a raccattare chiedendo informazioni tra una carrareccia e l’altra. Parole rafferme come pane vecchio, eppure docili al palato che sappia restituire loro attenzione e memoria. Intanto, davanti gli occhi, scorrono nomi che dicono e velano allo stesso tempo. Stirone, Strada Quarta, Crocilone, Crociletto, Bosco, Boschetto, Boscone. Segnali ancora troppo reticenti per fidarsi. C’è persino qualche cartello per Parma o per Cremona, ma non bisogna farci caso. Non si arriva fin qui per andare in città. Ma neanche a Roccabianca, a Ragazzola o lungo lo Stirone. Si arriva fin qui per andare al Boscaccio, cuore di Mondo piccolo.

A questo punto del viaggio, chiunque capisce quanto sia inutile continuare a chiedere informazioni. Si può trovare qualcuno che sa indicare dove è il Bosco. Qualche altro che mostra dove è il Boscone. O Crociletto, la Strada Quarta, il tal canale, il tal podere. Ma, se si chiede conto del Boscaccio, la risposta è la sempre la stessa: “Mai sentito”.

Eppure il Boscaccio è lì, sotto gli occhi di chiunque voglia vederlo. E dentro cinguettano Chico e la banda scalmanata dei suoi fratelli. E attorno a loro ci sono il padre che veste all’americana, la madre che cambia paperi vivi con paperi morti, i famigli che lavorano o pregano a seconda delle necessità. E le bestie, i campi, i filari di pioppi e di gelsi. E le storie che tengono insieme le anime di tutti.

“Io abitavo al Boscaccio, nella Bassa, con mio padre, mia madre e i miei undici fratelli: io, che ero il più vecchio, toccavo appena i dodici anni e Chico che era il più giovane toccava appena i due. Mia madre mi consegnava ogni mattina una cesta di pane, un sacchetto di mele o di castagne dolci, mio padre ci metteva in riga nell’aia e ci faceva dire ad alta voce il Pater Noster: poi andavamo con Dio e tornavamo al tramonto”.

L’attacco della “Prima storia” evoca la grande immagine, insieme esotica e domestica, infantile e gigantesca, del presepe. Luogo che accoglie e compone immagini di bizzarra estraneità. Pastori e re, vagabondi e magi, contemplatori dei cieli e uomini della terra. Pii pellegrini e predoni. Tutti raccolti in uno spazio dove il deserto cede volentieri posto a colline verdi di muschio. Dove le piante si affastellano con furore sacro e antiscientifico in filari di pini, faggi, palme, rovi. Dove animali miti e ingenui si mescolano con solenne sospensione del tempo alle belve e ai predatori.

“Al Boscaccio sembrava quasi impossibile che un bambino di due anni potesse ammalarsi.

“Invece Chico si ammalò sul serio. Una sera, mentre stavamo per tornare a casa, Chico si sdraiò improvvisamente per terra e cominciò a piangere. Poi smise di piangere e si addormentò. Non si volle svegliare e io lo presi in braccio.

“Chico scottava, sembrava pieno di fuoco: allora noi tutti provammo una paura terribile. Il sole tramontava e il cielo era nero e rosso, le ombre lunghe. Abbandonammo Chico in mezzo all’erba e fuggimmo urlando e piangendo come se qualcosa di terribile e misterioso ci inseguisse”.

Come ogni fiaba, anche questa sa essere crudele quanto la vita, perché sa essere tenera quanto l’eternità. Per questo non ammette intrusioni di intelligenze spezzate che non sappiano inchinarsi al mistero del tempo e alla legge del miracolo. E’ detta perché l’anima si elevi dalla vista alla percezione. Poiché percepire significa riconoscere ciò che veramente ha valore e veramente esiste, e viene da un altro mondo.

Così, i medici convocati al capezzale di Chico non riescono a far nulla per il bambino malato. Non possono perché la loro sapienza fatta soltanto di scienza è come una colonna spezzata. Gli esseri capaci di vedere solo le cose della materia non possano percepire nulla in un luogo come il Boscaccio, che per i loro cervelli non esiste. Solo gli ultimi tre dottori convocati al Boscaccio, non si sa come, ci arrivano: “’Non c’è che il buon Dio che possa salvare il vostro bambino’” dicono al padre di Chico. E salvano la loro anima. E salvano il bambino.

Inebetito da una sorte inattesa, il signore del luogo imbocca la prima strada che gli si apre davanti:

“Ricordo che era mattina: mio padre fece un cenno con la testa e noi lo seguimmo nell’aia. Poi con un fischio chiamò i famigli: erano cinquanta fra uomini, donne e bambini. (…) Mio padre si piantò a gambe larghe davanti ai famigli e disse:

“’Soltanto il buon Dio può salvare Chico. In ginocchio: bisogna pregare il buon Dio di salvare Chico.

“Tutti ci inginocchiammo e cominciammo a pregare ad alta voce il buon Dio. Le donne dicevano a turno delle cose e noi e gli uomini rispondevamo: ‘Amen’”.

Ma i tre dottori non avevano detto che le preghiere dei famigli avrebbero salvato Chico. Spogliati della loro scienza, avevano liberato parole che parevano venire da un altro mondo: “Non c’è che il buon Dio che possa salvare il vostro bambino”. L’essenza della fede, un nodo nero che ricama vortici incongruenti nelle linee quiete e bianche di un ramo di pioppo. Confine oltre il quale l’uomo non può più nulla, se non perdersi lungo una strada che, impercettibilmente, si allarga fino a diventare una distesa immensa e inanimata.

Il cammino della fiaba inizia sempre dove la speranza terrena si eclissa e si manifesta l’impossibile. Tocca all’eroe trovare un punto archimedico fuori dal mondo sul quale applicare quel che resta della sua forza. Nel momento in cui lo comprende, il padre di Chico diviene un folle per il mondo, un pazzo che vive a testa in giù. Ma, come San Pietro nell’istante supremo della sua crocifissione, ha in ricompensa la visione meravigliosa e infantile in cui il mondo appare veramente come è: con le stelle simili a fiori e le nubi come colline e tutti gli uomini sospesi nel vuoto alla mercé di Dio.

Ha bisogno di toccare con le sue mani contadine l’inadeguatezza delle preghiere dei famigli per capire di essere l’eroe della “Prima storia”. “Peggiora” gli dice il medico più anziano. “Non arriverà a domattina”. La porta d’ingresso al regno dell’impossibile è aperta e l’uomo che “faceva paura quando si piantava a gambe larghe davanti a qualcuno” si incammina nell’ora meridiana della sua avventura. Con un gesto rituale si fa abitante sonnambulo del mondo della veglia e del mondo del sonno: “Uscimmo: mio padre prese la doppietta, la caricò a palla, se la mise a tracolla, prese un grosso pacco, me lo consegnò.

“’Andiamo’ disse”.

Tutti movimenti perfetti, cadenzati da virgole inesorabili e assolute, come in un vecchio pontificale. Gesti così delicati e così terribili che fanno fremere l’anima del figlio maggiore, il quale ne esprime la purezza attraverso la geniale umiltà dei due punti posti dopo la parola “Uscimmo”.

Il padrone del Boscaccio si avvia a sperimentare la trasformazione della speranza terrena in affidamento totale al Dio crocifisso, là dove la fede cristiana produce qualcosa di inedito e per molti versi imponderabile. In quel luogo, la capacita umana di sperare giunge a una tale radicalità da attingere a un punto parabolico, invertirsi e mutare di senso. Non si tratta più di semplice speranza in ciò che ci si può ragionevolmente attendere, ma certezza dell’inattingibile, dell’inaudito.

“Camminammo attraverso i campi: il sole si era nascosto dietro l’ultima boscaglia. Scavalcammo il muretto di un giardino e bussammo a una porta.

“Il prete era solo in casa e stava mangiando al lume di una lucerna. Mio padre entrò senza levarsi il cappello.

“’Reverendo,’ disse mio padre “Chico sta male e soltanto il buon Dio può salvarlo. Oggi, per dodici ore, sessanta persone hanno pregato il buon Dio, ma Chico peggiora e non arriverà a domattina.’

“Il prete guardava mio padre con gli occhi sbarrati.

“’Reverendo’ continuò mio padre ‘tu soltanto puoi parlare al buon Dio e fargli capire come stanno le cose. Fagli capire che se Chico non guarisce io gli butto all’aria tutto. In quel pacco ci sono cinque chili di dinamite da mina. Non resterà più in piedi un mattone di tutta la chiesa. Andiamo!’

“Il prete non disse una parola: si avviò seguito da mio padre, entrò in chiesa, si inginocchiò davanti all’altare, giunse le mani”.

Privato della finezza spirituale del sacerdote, questo quadro rischierebbe di trasformare il sincero “Fiat voluntas tua” del padre di Chico in una sfida blasfema lanciata all’eterno.

Non avesse fatto altro in tutta la vita, quel prete avrebbe comunque dato compiutezza alla propria vocazione allora, con la presenza fatta soltanto di gesti precisi e delicati. Non una parola, se non quelle rivolte silenziosamente a Dio. Puro rito. Sequenza liturgica di azioni che parlano a un altro mondo. Come quella compiuta poco prima dall’uomo del Boscaccio: “Uscimmo: mio padre prese la doppietta, la caricò a palla, se la mise a tracolla, prese un grosso pacco, me lo consegnò”. E poi la rima dettata dall’uomo di Dio: “Il prete non disse una parola: si avviò seguito da mio padre, entrò in chiesa, si inginocchiò davanti all’altare, giunse le mani”. Anche questa sequenza, come quella precedente, è purificata dai due punti che la introducono. E, ancora come l’altra, è cadenzata soltanto da virgole. L’ultimo gesto, in entrambe, come il verso di una poesia, non è preceduto da una “e”: liberi da congiunzioni che li legherebbero mortalmente alla terra, i due rituali salgono verso il cielo eterno.

In quello del prete c’è un di più di delicatezza. Quel “giunse le mani”, così perfetto e così caritatevole, è lì a sigillare un destino che si sta compiendo.

Per questo motivo, sull’altare della chiesa del Boscaccio “ardeva una sola candela e tutto il resto era buio”. Ma, a fianco, c’erano il corpo di Chico e l’anima del padre: carne e spirito affidati a Dio, in attesa che l’insperabile, l’assurdo, si manifestasse subito, in questa vita.

Sul Monte Moria, Abramo ha vissuto la grandezza di tale gesto fino al culmine immenso. Il suo Signore lo aveva messo alla prova chiedendogli in sacrificio il figlio e lui poteva solo obbedire e, insieme, affidarsi: inoltrarsi nell’assurdo per salvare la vita di Isacco e la sua anima. Kierkegaard, in Timore e tremore ne dà un resoconto dettagliato: “Abramo tuttavia credette e credette per questa vita. Certo, se la sua fede fosse stata soltanto per una realtà futura, allora sarebbe stato facile per lui affrettarsi a uscire da questo mondo al quale non apparteneva. Ma tale non era la fede di Abramo, se mai esiste una fede simile; poiché in fondo ciò non è fede, ma la possibilità più remota della fede (…). Ma Abramo credette proprio per questa vita, che sarebbe invecchiato in quella terra, onorato dal popolo, benedetto nella sua posterità, indimenticabile in Isacco (…). Abramo credette e non dubitò, egli credette nell’assurdo”.

Il coltello del patriarca Abramo è pronto a entrare nel cuore di Isacco. La dinamite del padre di Chico è pronta a sventrare l’altare su cui è posata la vita del bambino. Ma la lama non trafigge e la polvere da mina non esplode perché i due uomini messi alla prova tengono gli occhi puntati nel cielo su Dio e non in terra sui loro figli. La bellezza celeste del loro gesto trova esaltazione nel contrappunto di chi si chiede che cosa avrebbero fatto se il Signore non li avesse fermati. Quesito troppo umano che riesce a mettere in conto soltanto il coraggio quando, invece, bisogna inginocchiarsi davanti alla fede.

E’ forte la tentazione di immaginare la chiesa del Boscaccio esplodere nella notte se Chico non fosse guarito. Ma l’uomo piantato a gambe larghe con il fucile sottobraccio non è un qualsiasi eroe romantico. Sarebbe capace di attendere mille anni, tanta è la fiducia in Dio. Sa che nella creatura con la mano levata sulla vita innocente in attesa della parola divina che salva c’è grandezza. E che in quella che dirige altrove la lama c’è solo disperazione. Poiché una, senza comprenderle, fa sue le ragioni del Creatore che la mette alla prova, l’altra arriva all’abiezione di tentare l’Essere supremo. Una guarda la terra con gli occhi del cielo. L’altra guarda il cielo con gli occhi della terra.

La chiesa non potrà mai saltare. E non solo per la bontà di un Dio compassionevole, ma anche per la fede del padre di Chico. Per il patto che il Signore ha stabilito con quell’uomo, costituendolo patriarca del Boscaccio e benedicendolo in una discendenza lunga trecentoquarantasei storie. Se la dinamite fosse esplosa quella notte, Mondo piccolo sarebbe finito con la “Prima storia”.

“Mio padre stava in mezzo alla chiesa, col fucile sottobraccio, a gambe larghe, piantato come un macigno. Sull’altare ardeva una sola candela e tutto il resto era buio”. E il movimento della finitezza si concentra in una sola riga: “’Va’ a vedere come sta Chico e torna subito’”.

Tutto è compiuto, e il patriarca del Boscaccio lo sa. Altrimenti avrebbe detto al figlio di andare a vedere se Chico fosse ancora vivo. Quel “Va’ a vedere come sta”, così quotidiano e così fiducioso, è il sigillo della sua certezza nell’intervento divino. Parola poveretta che racchiude il manifestarsi di una voce intraducibile. E, per questo, linguaggio mistico, appropriamento gioioso di tutto ciò che esiste.

In questa luce, acquista un senso l’ultimo gesto, compiuto quando la notizia della salvezza di Chico è detta con il giusto nome di miracolo: non opera del prodigio, ma nuova creazione del mondo in virtù dell’assurdo:

“Poi, mentre il prete guardava a bocca aperta, si tolse dal taschino un biglietto da mille e l’infilò nella cassetta delle elemosine.

“’Io i piaceri li pago ’ disse mio padre. ‘Buonasera’”.

Che è l’unico modo in cui la durezza contadina può cantare la lode alla presenza reale del Signore dell’universo.

“Mio padre non si vantò mai di questa faccenda, ma al Boscaccio c’è ancora oggi qualche scomunicato il quale dice che, quella volta, Dio ebbe paura”.

Ma la paura di Dio non è il tremore degli uomini. E’ attenzione amorosa che trepida per la fedeltà di una creatura alla sua vocazione. E’ vero che l’Eterno ebbe timore quel giorno. Paventava che l’uomo del Boscaccio cadesse nella tentazione di divenire un eroe tragico offrendo se stesso in cambio del figlio. Se il padre di Chico avesse compiuto quel gesto, sarebbe vissuto per sempre nel ricordo degli uomini, ma sarebbe scomparso in eterno dalle memoria divina. “Ma” spiega Kierkegaard a proposito di Abramo “una cosa è essere ammirati e un’altra essere una stella che guida, che salva chi è angosciato”.

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(5 – Continua)

1 commento su ““FUORI MODA” – un viaggio con Alessandro Gnocchi nel Mondo piccolo di Guareschi/V”

  1. Io però non la metterei giù così. Se è vero che esiste (da qualche parte) ancora il timor di Dio, dev’esserci un timore di Dio per gli uomini. Il timore di perderli, di vederli allontanarsi. Libero arbitrio, giusto? E’ la frase culminante di un film bellissimo di qualche anno fa, “l’avvocato del diavolo”. Non vedo in quel lontano gesto di padre nulla di molto diverso.

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