di P. Giovanni Cavalcoli, OP
Si stenta a comprendere il successo che a tutt’oggi, persino negli ambienti della teologia cattolica, possiede la concezione idealistica della conoscenza che, partendo da Cartesio, passa per Berkeley, Kant, Fichte e Schelling, per giungere ad Hegel, Husserl, Bontadini e Gentile.
L’idealista considera la gnoseologia realista come un inganno e non si accorge che l’ingannato è lui. A parte che il concetto stesso di “inganno” suppone il realismo, ossia l’esternità della res all’intellectus, o dell’essere al pensiero, negata dall’idealista, giacchè che cosa è l’inganno se non una inadaequatio intellectus ad rem? Già subito qui si vede come l’idealismo si confuti da solo.
L’idealismo è sempre stato efficacemente confutato soprattutto dai filosofi della scuola di S.Tommaso, perché nel grande Aquinate indubbiamente non si trova un vero e proprio trattato contro l’idealismo, perché ai suoi tempi questa disgrazia non esisteva.
Il Medioevo ha avuto certo molti difetti, ma tutti sanno che esso, grazie all’influsso diffuso del realismo biblico, è stato immune da questa piaga che immensi danni ha procurato all’età moderna e a tutt’oggi l’idealismo, nonostante le sconfitte ricevute dalla storia, continua ostinatamente e presuntuosamente a confondere le menti e a causare immensi danni morali, presentandosi come il geniale frutto della “filosofia moderna”, quando in realtà l’idealismo non è che la ripresa dell’antico scetticismo e soggettivismo pagani precedenti la fondazione dal sapere operata da Platone ed Aristotele.
Ciò non ha impedito a S.Tommaso di avere, con spirito profetico, il sentore del pericolo idealista che si sarebbe scatenato molti secoli dopo, per cui egli ci fornisce una confutazione ante litteram dell’idealismo, benchè naturalmente, dato che come ho detto allora non era un pericolo pressante e non erano ancora nati i grandi sistemi idealistici sul tipo di quelli della Germania del sec.XIX, non possiamo attenderci quelle articolate confutazioni che saranno elaborate soprattutto dall’800 ai nostri giorni dai filosofi del realismo cattolico[1].
Da quando il Magistero Pontificio ha raccomandato in modo speciale il realismo di S.Tommaso, ha respinto implicitamente l’idealismo che è l’esatto suo opposto, ma il Magistero è intervenuto in modo esplicito contro l’idealismo solo con la Pascendi di S.Pio X e la Humani Generis di Pio XII, ed alcuni accenni in Paolo VI, nel Beato Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
Eppure ciò non è servito a nulla, giacchè oggi più che mai, col pretesto del progresso della teologia promosso dal Concilio Vaticano II, è diffusa negli ambienti accademici della Chiesa una forma di teologia modernistica, che riprende l’idealismo condannato da S.Pio X. Oppure, se ci si rifà a S.Tommaso, lo si mescola, dietro l’esempio di Maréchal all’inizio del secolo scorso, con autori idealisti, come Kant, Hegel, Heidegger, Bontadini e Severino.
Invece, se nel Medioevo poteva porsi il problema dell’idealismo, questo poteva nascere dall’idealismo platonico, ma la dottrina platonica delle idee, dietro suggerimento di S.Agostino, non era affatto intesa in riferimento alle idee umane, come si comincerà a fare a partire da Cartesio, ma alle Idee divine, intese come modello o progetto ideale increato ed assoluto delle cose, preesistente alle cose. E certamente questo aveva inteso dire Platone, anche se in un clima politeistico e senza un chiaro monoteismo.
Platone si guardava bene dal fare dell’idea umana o del concetto un pensiero produttivo delle cose o comunque una rappresentazione della cosa identica alla cosa, insomma si guarderà bene dall’identificare l’essere col pensiero. Al contrario, per Platone il concetto umano, immagine (eikòn) del reale, non è che un rappresentazione mentale, una visione, partecipazione o imitazione della divina Idea esistente nell’Iperuranio. L’uomo per Platone non produce le Idee, le trova e conosce il vero, ossia il reale solo se ad esse si adegua.
Quando Aristotele avvertirà che altro è la pietra nella realtà ed altro è l’immagine della pietra nell’anima, sarà perfettamente nella linea platonica della distinzione fra il pensare umano che rispecchia la realtà oggettiva e l’Idea divina che la progetta e la produce nella realtà.
Quando un S.Bonaventura porrà le “idee” come oggetto della filosofia, non gli passerà neppure per l’anticamera del cervello di ipotizzare un’idea umana identica all’essere che ne è l’oggetto, insomma un’identità di essere e pensiero, ma si rifarà appunto alla grande lezione platonica mediata da Agostino.
I Medioevali, insomma, dietro l’insegnamento biblico e sulla base del realismo platonico-aristotelico, che è poi quello spontaneo della ratio naturalis e del buon senso, sapevano benissimo distinguere il sapere umano, che trae le idee dalle cose, dalla scienza divina che crea quello che pensa e per questo l’identità di essere e pensiero o, come dirà Schelling, di “soggetto” ed “oggetto”, la riservavano all’Essere divino e non si sognavano nemmeno di attribuirla allo spirito umano.
Il contorsionismo innaturale, forzato e astuto, falsamente critico, della “ragione” cartesiana, stolta per voler essere troppo prudente, non era ancora nato e la ragione umana, illuminata dalla fede, spontaneamente e lealmente andava, con semplicità benchè coscientemente, verso il vero, senza artificiosi intralci, innalzandosi al cielo della metafisica e della teologia, sebbene naturalmente anche allora le conseguenze del peccato originale causassero falsità, presunzione, ipocrisia e doppiezza; ma queste non venivano teorizzate come fossero il non plus ultra della sapienza. C’era una sana ingenuità, vorrei dire evangelica[2], che non mancava affatto di senso critico, anzi era quello autentico, successivamente rovinato dal criticismo kantiano.
Ad ogni modo l’Aquinate colpisce già al cuore il germe originario dell’idealismo, il suo proton pseudos, nel famoso a.2 della q.85 della Prima Parte della Somma Teologica, dove il Dottore Comune si domanda se il contenuto della nostra conoscenza (id quod intelligitur) sono le cose o le nostre idee (species intelligibiles).
E risponde che se fossero le idee e non le cose, mancherebbe la conoscenza della realtà e conosceremmo solo i nostri pensieri, verrebbe meno l’universalità del vero e riapparirebbe quel sofisma degli antichi secondo il quale “ciò che appare è vero”: esattamente gli stessi inconvenienti che l’idealismo moderno ha introdotto nel mondo della cultura.
Il problema e l’equivoco di fondo dell’idealismo è tutto qui: il credere che noi non conosciamo una realtà esterna esistente fuori di noi e senza di noi, indipendente da noi, ma che quello che conosciamo sono le nostre idee delle cose, è realtà già pensata, per cui non c’è un essere fuori del pensiero, prima del pensiero ed indipendente dal pensiero, ma l’essere è lo stesso pensiero, è il pensante e il pensato: è l’idea.
Facendo in tal modo dipendere il reale dal nostro pensiero, il reale non ha più bisogno di essere spiegato da un Dio creatore, ma l’uomo viene a sostituirsi a Dio nel dar esistenza alle cose. Dunque si arriva o all’ateismo o al panteismo.
Dice per esempio Berkeley[3]: “L’essere delle cose è un percipi, e non è possibile che esse possano avere una qualunque esistenza fuori delle menti o dalle cose pensanti[4] che le percepiscono”. Per questo Berkeley considera, come aveva già fatto Cartesio, un grossolano benchè diffuso errore il credere che “tutti gli oggetti sensibili abbiano un’esistenza, reale o naturale, distinta dal fatto di venir percepiti dall’intelletto”(ibid.). Le cose, se non sono percepite, non esistono. Per Berkeley le cose possono esistere solo col nostro permesso: se non le pensiamo, non esistono.
“Mi è impossibile – dice altrove Berkeley (p.34) – concepire nei miei pensieri una cosa od oggetto sensibile distinto dalla sensazione o percezione di esso. In realtà, oggetto e sensazione di esso sono la stessa cosa e non possono dunque venire astratti l’uno dall’altro”.
L’universo per lui “non ha alcuna sussistenza senza la mente e il suo esse consiste nel venire percepito o conosciuto”(ibid.). Per lui è impensabile che possa esistere una cosa alla quale non pensiamo. L’uomo prende il posto di Dio nel dover pensare a tutto, altrimenti nulla esisterebbe. Eppure Berkeley, vescovo anglicano, asserisce di credere in Dio. Ma io mi domando che “Dio” è il suo?
Berkeley infatti non teme di portare alle estreme conseguenze la sua tesi col seguente paragone: “Se gli oggetti del senso esistono soltanto quando vengono percepiti, ci sono alberi nel giardino o le sedie nel salotto solo finchè c’è qualcuno presente che le percepisca”(p.59). Il pio vescovo Berkeley non si accorge che così dicendo fa dipendere l’esistenza delle cose dal nostro pensiero, come se noi fossimo Dio. E il panteismo, allora, conseguenza dell’idealismo, è già arrivato.
Nella gnoseologia di Berkeley le cose si trasformano in fantasmi che compaiono e scompaiono. Si direbbe che il gusto tipicamente inglese delle storie di fantasmi qui prenda la mano all’imprudente vescovo che viceversa con queste balordaggini intendeva salvare la dignità dello spirito e del pensiero contro le concezioni dei materialisti.
Rahner, dotato però di maggior senso metafisico, come sono i Tedeschi, è in perfetta linea con Berkeley quando afferma che “l’essenza dell’essere è conoscere ed essere conosciuto in una unità originaria, che noi vogliamo chiamare coscienza o trasparenza (“soggettività”, “conoscenza”) dell’essere di ogni ente. … La natura dell’essere è conoscere ed essere conosciuto in una unità originaria: in altre parole è essere cosciente e trasparente. … L’essere, di cui si indaga tutta la problematicità è sempre anche conosciuto”[5]. Rahner dimentica che l’ “unità originaria” di essere e pensiero è solo in Dio, per cui essere e pensiero come tali non devono essere affatto confusi, se non vogliamo finire nel panteismo.
Nessuno nega la presenza nel complesso movimento idealista, soprattutto tedesco dell’’800, di grandi filosofi che affrontarono le questioni fondamentali dell’uomo, di Dio, dell’esistenza e del pensiero; e già questo basterebbe per suscitare in noi l’interesse per la loro speculazione spesso altamente tecnica e sottile, nonché e soprattutto il rispetto per le persone, anche se non è proibito risparmiare loro qualche rimprovero dal punto di vista morale[6]. I santi non si trovano![7]
Si pensi solo tuttavia al bisogno di un rigoroso sistema onnicomprensivo, tutto dedotto da un unico principio (Anfang) del filosofare, all’interesse per il valore e la dignità del sapere, del pensiero, della logica, dell’idea, dell’Assoluto, dell’io, dello spirito, della coscienza, della conoscenza, dell’azione, della libertà, della persona, della storia.
Tuttavia io vorrei qui limitarmi a indicare o a ricordare una grave conseguenza implicita nella gnoseologia idealista, già segnalata più volte e che occorre tener presente come campanello d’allarme per coloro che non avessero il tempo o il modo di addentrarsi, per scoprire l’errore, nelle difficili disquisizioni delle filosofie idealiste, peraltro con notevoli diversità le une dalle altre, le une più vicine al realismo, le altre meno, dato che essendo il realismo lo strumento naturale della ragione, l’idealismo è costretto a servirsi di questa tendenza inevitabile della ragione per avvalorare sé stesso, ma facendo in tal modo che poi l’idealista confuti sé stesso, come ho detto all’inizio.
Ricordo un proverbio che mia madre ogni tanto citava: “Chi non s’accontenta dell’onesto, perde il manico con tutto il cesto”. Se il difetto di certe gnoseologie, come il fenomenismo, l’empirismo, il materialismo, il sensismo, il freudismo, il positivismo è quello di abbruttire l’uomo poco sopra il livello delle bestie, rimpicciolendo il cervello e bloccando l’elevazione dello sguardo verso l’alto, la mira e l’illusione dell’idealismo è tutto l’opposto: la pretesa di assicurare all’uomo un ampiezza di sguardo, un sapere, un potere e una libertà che convengono solo a Dio. Se la tentazione delle prime gnoseologie sono i vizi della carne, l’orientamento dell’idealismo è il panteismo che si risolve nella gnosi e nella magia[8].
Questa aspirazione empia e trasgressiva dello spirito è già nota alla religione greca ed è chiamata col termine ybris, che potremmo tradurre, col Rocci, tracotanza, orgoglio, alterigia, violenza, prepotenza nel pensiero e per conseguenza e nell’azione, nella teoresi e poi nella morale. Diciamo anche: superbia, narcisismo, prometeismo, dissacrazione, autoreferenzialità, superomismo, autodivinizzazione. Pensiamo al mito di Icaro e di Prometeo.
Chi mira troppo in alto precipita rovinosamente in basso. “Chi vuol fare l’angelo, diceva Pascal, finisce per fare la bestia”. E difatti non è difficile dimostrare la parentela dell’idealismo pseudoteistico col materialismo ateo[9].
La superbia di chi si crede Dio o poco meno può essere castigata con la demenza psichica. Un Nietzsche sta a dimostrarlo. La confusione dell’essere col pensiero può risolversi nella confusione della realtà con la fantasia, cioè può giustificare l’allucinazione o, per altro verso, la teoria idealista della conoscenza può essere interpretata come sublimazione o apoteosi dell’allucinazione come ideale della verità e del sapere.
La demenza può essere confusa con la mistica o l’arte sublime. Il romanticismo tedesco, coevo dell’idealismo, non pare sempre esente da questo rischio, senza nulla togliere alla bellezza dell’arte. Come qualcuno ha detto: genio e sregolatezza.
Che cosa è, infatti, l’allucinazione? E quel fenomeno patologico o disordine della sensibilità associata all’immaginazione, per il quale il soggetto è convinto di sentire cose dello spazio esterno, che in realtà non esistono e sono pura elaborazione della sua sensibilità malata. Pensiamo al fenomeno della droga o agli stati deliranti. L’idealismo è come un’allucinazione lucida.
Teniamo conto peraltro del fatto che, per definire l’allucinazione come patologia, è evidente che bisogna partire da una concezione realistica della conoscenza, giacchè se come per Berkeley e per Rahner l’essere si risolve nell’essere pensato o, come dice anche Hegel, se la cosa coincide col concetto della cosa, come poi distinguere la falsa rappresentazione o l’apparenza dalla realtà? Il fenomeno allucinatorio nel quadro dell’esse est percipi diventa sorprendentemente la funzione normale del conoscere. Non è più possibile distinguere l’errore dalla verità, l’apparenza dalla realtà, lo spettro dall’uomo in carne ed ossa, il sogno dalla veglia, l’allucinazione dalla sensazione normale, la normalità psichica dalla malattia mentale.
Il risultato finale, anzichè essere il pensiero che si eleva all’Assoluto, sarà invece il soggetto ebbro di se stesso, in una vuota stima di sé, che si chiude in se stesso nella propria ostinazione e nella propria superbia, si isterilisce mancando di nutrimento spirituale e si pasce di illusioni, di vane o morbose ombre ed apparenze al posto della realtà. Tuttavia egli sa vendere la sua merce, perché è venerato da una folla che vede in lui il geniale scalatore delle vette della verità.
[1] Come per esempio il Card.Zefirino Gonzalez,OP, il Liberatore, il Card.Zigliara, lo Schwalm,OP, il Mattiussi,SJ, il Sertillanges,OP, il Garrigou-Lagrange,OP, il Maritain, il Cordovani,OP, lo Zacchi,OP, il Simon, il Toccafondi,OP, il Kuiper,OP, il Galli,OP, ecc.
[2] Vedi la lode dei fanciulli fatta da Cristo. Da notare come spesso i teologi medioevali sono santi, o quanto meno uomini di grande virtù, al servizio della Chiesa e della anime, a differenza dei nostri (non tutti!) esibizionisti di oggi, a partire dalla cosiddetta “Riforma” di Lutero…..
[3] Trattato sui princìpi della conoscenza umana, Editori Laterza, Roma-Bari 1991, p.33
[4] La res cogitans di Cartesio.
[5] Uditori della parola, Editrice Borla, Torino 1977, pp.66-67. Famosa è rimasta la confutazione di questa tesi fatta dal Padre Fabro nel suo libro La svolta antropologica di Karl Rahner, Rusconi, Milano 1974.
[6] In particolare il loro metodo di far filosofia e la stessa considerazione che avevano del filosofare rispecchiano un atteggiamento morale presuntuoso ed esibizionista, che trae il suo modello da Cartesio: l’atteggiamento di chi dice: “Adesso arrivo io, finora nessuno ha capito niente, sta a me rifondare la filosofia una volta per tutte, bisogna cambiare tutto e rifare tutto daccapo”, una filosofia peraltro di tipo gnostico, che pretende di conoscere Dio meglio di Gesù Cristo e della sua Chiesa.
[7] Troviamo solamente Rosmini, ma, come di recente ha chiarito la CDF, l’“idealismo” rosminiano è solo frutto di un fraintendimento da parte dello stesso Rosmini, che in realtà, almeno nelle intenzioni, era sulla scia del realismo cattolico, per quanto sulla linea platonico-agostiniano-bonaventuriana.
[8] Questo secondo aspetto l’ha messo particolarmente in luce nei suoi studi Julius Evola. Gli idealisti di oggi rifiutano sdegnosamente l’accusa di magia, poichè si ritengono l’incarnazione dalla Scienza e della Ragione assoluta; eppure chi conosce la storia della filosofia sa quanta simpatia gli idealisti hanno avuto ma senza farlo troppo notare, per un grande filosofo come fu Giordano Bruno, che faceva apertamente professione di magia ricavata logicamente dal suo monismo panteista e metafisico, che peraltro è una della caratteristiche fondamentali di ogni idealismo immanentista che si rispetti. Vedi per es. G.Gentile, Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, Introduzione di E.Garin, Le Lettere, Firenze 1991; G.W.F.Hegel, Bruno, in Lezioni sulla storia della filosofia, 3,1, La Nuova Italia, Firenze, 1985, pp.212-229; F.W.J.Schelling, Bruno o il divino e il naturale principio delle cose, Edizioni Stano, Napoli, s.d.
[9] G.Cottier ha dimostrato la derivazione dell’ateismo marxista dalla pseudoteologia, oggi purtroppo ammirata, di Hegel: L’athéisme du jeune Marx et ses origines hégéliennes, Vrin, Paris 1957.